Adozione: il Kintsugi dell’anima. (Come integrare il bambino adottato nella nuova famiglia?)
L’adozione è come un trapianto: può andare a buon fine, oppure può avere diversi gradi di insuccesso.
Siamo abituati a immaginare l’adozione come una relazione fortemente sbilanciata, in cui una parte in difficoltà chiede aiuto e un’altra parte, dall’alto della sua stabilità, ne offre in maniera disinteressata. E quindi crediamo che la parte debole trabocchi di gratitudine e riconoscenza, mentre la famiglia adottante sia infinitamente tollerante, e sappia offrire con estrema pazienza il contenimento necessario.
Tuttavia le cose non stanno necessariamente in questo modo: non sempre il bambino accetta l’innesto senza remore, angosce o sensi di colpa. Così come non sempre la famiglia adottante riesce ad adeguarsi al bambino, almeno nei termini in cui il nuovo arrivato vorrebbe.
Per questo a margine dell’adozione occorre un lavoro fitto e sapiente: per aiutare le due parti a cucirsi insieme, rispettando anzitutto ognuna le esigenze dell’altra.
Colpa e rigetto
Il sentimento di colpa è sovente costitutivo della storia emotiva di un bambino adottato. Egli sa bene che nel suo Paese d’origine, nella sua famiglia d’origine, ci sono dei problemi: disagio, rinunce, talvolta povertà. Ed egli sa bene di essere un privilegiato, anzi probabilmente è quello che gli viene ripetuto più volte, per convincerlo, (e questo non diminuisce di certo il suo malessere.) Sapere di aver ‘lasciato’ il suo contesto lo fa sentire alla stregua di un traditore, di un vigliacco, che non ha condiviso la sorte degli altri, di chi è rimasto.
Il bambino adottato, d’altra parte, non può permettersi di esprimere questi pensieri perché farebbe soffrire la nuova famiglia: così si arrovella, si interroga, e alla fine genera le risposte più diverse, anche in base alle sue capacità di bambino. E soprattuto l’adottato può mostrare segni di ‘rigetto’: smonta la credibilità della nuova famiglia, idealizzando la prima, che nella sua fantasia diventa vittima delle angherie della vita, e persino, in ultima analisi, della brama della nuova famiglia adottiva.
Il rigetto può assumere la forma di una strisciante cleptomania, o di una rabbia distruttiva verso le cose della famiglia adottiva. Il rigetto del nuovo contesto si accompagna talvolta a fantasie di riscatto o grandezza: così il bambino sogna un ritorno in grande stile, da salvatore della patria; Oppure si immagina assegnatario di una missione, secondo la quale crede di dover portare il soccorso a tutti i bambini che vivono situazioni come la sua. Per questo infatti alcuni di questi bambini possono arrivare a mostrare sintomatologie psichiatriche. Per non dire, altresì, che molti di questi ragazzi, crescendo, usano droghe: per autoregolare l’ansia o la depressione, con le conseguenze che si possono immaginare.
Il Kintsugi dell’anima
A mio modo di vedere l’integrazione deve essere una specie di cucitura, ossia deve tenere insieme nell’attuale mondo del bambino l’identità del suo presente e del suo passato. Questo significa che i due mondi famigliari non possono entrare in conflitto: nessuno può sostenere un conflitto dentro di sé. Non è immaginabile pensare che una persona si adatti completamente alla nuova identità senza farsi fantasie sul suo mondo precedente. ‘Di chi veramente sono figlio? Cosa avrei fatto, chi avrei frequentato se fossi rimasto nel mio Paese d’origine?’ Queste domande, e altre simili, sono domande che i bambini adottati si pongono continuamente. Le due storie del bambino adottato vanno cucite insieme, devono costituire insieme l’identità dell’adulto che sarà.
Mi piace fare la metafora del Kintsugi, l’antica arte giapponese della riparazione della ceramica. Nel Kintsugi la ceramica viene riparata con una lacca ripassata in oro, in questo modo dopo la riparazione acquisisce più valore di quanto ne avesse prima della rottura. Ecco, credo che l’identità del bambino adottato debba essere una specie di Kintsugi. Le ferite non sono vere ferite, ma punti di contatto tra vecchio e nuovo.
Solo così l’adozione sarà storia di vero impreziosire, di vero miglioramento delle condizioni di partenza. E solo così il bambino potrà guardare al suo passato senza sentimenti di colpa: perché non l’avrà rinnegato, ma anzi lo terrà stretto a sé, sarà sempre parte del suo nuovo presente.