Pink Floyd: Rock o esistenzialismo?

Se una parte considerevole dell’opera dei Beatles è condizionata dalla presenza di Yoko Ono, una parte altrettanto considerevole dell’opera dei Pink Floyd ruota intorno all’assenza di Syd Barrett. 

Mi riferisco alla fase degli anni Settanta che va da ‘The dark side of the moon’ a ‘The wall’, non a caso quella che ha costruito le basi per il taglio finale

Esistenzialismo

Tra i mille temi toccati dai Pink Floyd nella loro enorme produzione, (e qui vanno considerate anche le carriere individuali) l’esistenzialismo ha certamente un ruolo considerevole. L’esistenzialismo dei Pink Floyd è di tipo umanista, direi anzi relazionale. Nell’arte dei Pink Floyd sembra che ci sia un’ombra, una presenza silenziosa, quella di Syd Barrett. Va tenuta in conto se si vogliono ben comprendere i loro brani straordinari. 

I Pink Floyd riflettono sul denaro, sulla politica internazionale, sulle eclissi lunari: ma queste riflessioni muovono da un’unica grande, malinconica, considerazione. Un bisbiglio, ma che vale quanto un intero progetto artistico: ‘How I wish, how I wish you were here.’ (‘Come vorrei, come vorrei che fossi qui.’)

Una considerazione esistenzialista, che è anche psicoanalitica: apre al riscatto dalla disperazione del nulla, sì, dal nichilismo, che in quegli anni tanto andava di moda. I Pink Floyd (senza volerlo?) abbracciano Sartre, Lacan e Julia Kristeva, in un progetto di promozione e rifondazione dell’Umanesimo. Perché se dopo Lacan posso dire: cosa sono io senza l’altro? Allora posso anche dire: cosa sono i Pink Floyd senza l’Altro? 

The Trial, il processo

Uno dei momenti più densi di significato, ma anche di sofferenza, della storia dei Pink Floyd è il processo di ‘The wall’. Dopo una vita di rovello interiore, di disagio, di incomprensioni da parte di chi lo circonda, Pink, il protagonista della storia, attraversa una grande crisi esistenziale. Gli autori del brano per salvarlo inscenano un processo, drammatico e caricaturale allo stesso tempo. L’imputato è stato colto in flagrante a mostrare sentimenti quasi umani, e questo non è previsto dal modello sociale. 

Il processo è un condensato dell’esistenzialismo dei Pink Floyd: dalla sua esecuzione, alla sua paradossale conclusione. 

Guardiamolo da vicino. Vengono chiamati a testimoniare in sequenza il maestro elementare,  la moglie, e la madre dell’imputato. 

Il maestro copre Pink di improperi, e attacca il sistema: ‘se fosse stato per me, signor giudice, l’avrei raddrizzato sin da piccolo: ma si sono messi in mezzo artisti e cuori teneri. Permettetemi un’ultima martellata, almeno oggi.’ 

A udire queste parole Pink rasenta la follia: possibile che nessuno capisca il suo dolore, che nessuno si renda conto? 

Arriva a testimoniare la moglie. Nella più classica tradizione di incomunicabilità matrimoniale, la moglie fa a pezzi Pink davanti a tutti: ‘con me non hai mai parlato, sei un rovina famiglie, spero gettino via la chiave.’ 

Infine arriva la madre. La donna urla il suo strazio, ma anche lei accusa il figlio: ‘se non mi avessi mai lasciata non ti saresti messo in pericolo.’

I Pink Floyd letteralmente qui aprono il baratro sotto i piedi del processato, che ormai preda della disperazione delira e crede di essere in carcere. 

Abbattere il muro

Ad un tratto, ecco la svolta esistenziale, anti nichilista, relazionale, diciamo pure rivoluzionaria, dei Pink Floyd: viene espressa per bocca del giudice. Egli è talmente disgustato dalle parole dei testimoni che dichiara: ‘qui non c’è nessun dubbio, la pena deve essere massima’. Con gran sorpresa, però, la pena inflitta dal giudice è l’abbattimento del muro. 

Abbattere il muro: quel muro difensivo che Pink si è costruito giorno dopo giorno, (‘Another brick in the wall’) durante tutta la sua adolescenza, significa uscire, tornare alla relazione, cercare l’altro. (O l’Altro? – Syd Barrett – Questo non lo sapremo mai.)

E uscire per tornare alla relazione è l’unica vera alternativa alla follia, e oggi lo sappiamo molto bene. Per questo ‘The Trial’ è la riscossa dalla dannazione, il rifiuto della relazione malata, tossica. Uno scatto della vita, prima della vera malattia mentale: la morte interiore.  

Inoltre in quegli anni il mondo era diviso da un muro: per questo la lezione esistenzialista dei Pink Floyd, quel ‘Tear down the wall’ ha una portata che va ben oltre i confini di un album musicale.

Ma in questo sta la grandezza dell’arte: che ogni volta sa stupire e dire cose diverse. 

Cos’è il metaverso? Come e perché cambierà la nostra psiche ? Realtà ‘diminuita’ e Avatar personalizzati.

Molti trascorrono diverse ore al giorno nel metaverso, e fra poco, c’è da scommetterci, toccherà anche ad altri. Ma quali sono le conseguenze di questa nuova modalità esistenziale? Chi sono gli Avatar, e perché sono diversi da noi? E soprattutto, come integrare mondi virtuali e meatspace ?

Realtà aumentata e dissociazione: l’angoscia del ritorno.

Partiamo da realtà aumentata e realtà virtuale. Vivere una dimensione diversa dalla nostra per svariate ore al giorno, come avviene nel metaverso, che sia per motivi di svago o per lavoro, e riferirsi ad essa come a qualcosa di ‘aumentato’ fa pensare che quando l’esperienza sarà finita, la nostra dimensione ci apparirà in qualche modo ‘diminuita’. Questa puntualizzazione va fatta perché alle spalle del nostro comportamento c’è sempre la nostra personalità. Esperienze di dissociazione (non patologiche, sia chiaro) possono portare all’angoscia del ritorno: una specie di malessere più o meno intenso dato dalla distanza tra quello che abbiamo nella vita di tutti i giorni e quello che abbiamo nella realtà dissociata. Un esempio può essere quello di quegli individui che detestano il loro contesto e si rifugiano nel mondo della lettura: divorano libri su libri, conoscendo realtà lontanissime, in fondo solo per sfuggire alla loro. 

Così trascorrere una giornata al museo del Louvre, o all’università di Berkley, oppure in una navicella spaziale sulla luna, e poi sfilare gli occhiali e ritrovarci nuovamente nella nostra casa, potrebbe essere molto pesante, se la nostra casa non ci piace, se la nostra vita non è soddisfacente. 

Avatar: il sé idealizzato.

L’uso di Avatar sarà sempre più frequente nel metaverso. Gli Avatar vanno scelti e costruiti tra le opzioni date dal sistema, ma l’unica cosa che non potremo scegliere sarà la personalità. Il nostro Avatar potrà essere alto o basso, palestrato o longilineo, avere i capelli corti o vestire alla messicana. Oppure potrà essere blu, con i capelli rossi, ecc…. ma quando si muoverà nel metaverso avrà la nostra personalità, saremo noi a muoverci dietro di lui. 

Dal punto di vista psichico questo significa soprattutto una cosa: se non amiamo come siamo, se vorremmo essere diversi, il virtuale ci offre questa opportunità. Per tutto il tempo in cui stiamo in quella dimensione siamo noi stessi idealizzati, il noi che vorremmo essere senza i nostri difetti più evidenti. Ma il gioco dura fino al termine della sessione: ad un certo punto ci toccherà di nuovo affrontare la realtà in presenza, senza Avatar, e converrà averci fatto l’abitudine. 

Web e psichiatria: la patologia mentale ai tempi di Internet.

Il web ha cambiato molto anche la patologia psichiatrica. Se in un precedete contributo ho segnalato una progressiva ‘frammentazione’ del sé dell’uomo contemporaneo, in parte anche a seguito della diffusione di Internet, evidenze cliniche mi portano a ritenere che nella sofferenza mentale stia avvenendo l’esatto opposto: le opportunità del web aiutano i nostri pazienti a compattare il loro psichismo. 

Su Internet i pazienti trovano conferme alle loro tesi e incontrano persone con interessi simili: questo certamente significa un irrigidimento delle strutture mentali, ossia (in teoria) l’opposto della guarigione, ma essi hanno l’illusione di essere più padroni di loro stessi, più protagonisti del loro tempo, in definitiva più integrati nella società (che biasimano).   

L’utilità paradossale del delirio  

Personalmente sono convinto che il sintomo abbia un significato, e il trattamento non debba ridursi alla cura del sintomo, ma comprendere e cambiare le ragioni che hanno portato alla formazione di quel sintomo. Facciamo un esempio: una persona vicina al matrimonio sviluppa un disturbo da attacchi di panico. Grazie al contributo dei farmaci (molto importanti) migliora, ma se non si chiede per quale motivo ha sviluppato la sintomatologia proprio in prossimità delle nozze, potrebbe superare il problema solo parzialmente.  

In ambito psichiatrico le cose stanno all’incirca nello stesso modo: la sintomatologia ha (il più delle volte) un senso nella storia del paziente. O comunque ha un senso l’attaccamento che quel paziente ha a quel particolare disturbo, il perché egli non riesca a superarlo. La sintomatologia garantisce un equilibrio, patologico, sofferente, ma pur sempre un equilibrio, che in altro modo potrebbe venire meno.

Un altro esempio potrebbe essere questo. Un giovane insiste nel ritenere che da bambino veniva ripetutamente rapito dagli alieni, e che durante questi rapimenti, condotto su una navicella spaziale, gli alieni facevano esperimenti sul suo corpo. In seguito, crescendo, egli si è sentito investito di una tale o talaltra responsabilità, per cui, poniamo, sia a conoscenza della presenza aliena tra noi, ma che debba tollerarla o favorirla per il bene comune, o per una qualche altra motivazione. Supponiamo ora che nel corso del trattamento emergano ricordi traumatici che fanno pensare ad abusi sessuali infantili da parte di alcuni vicini di casa. E supponiamo ancora che si scopra che fu in seguito alla visione di un cartone animato che il bambino cominciò a costruire una verità alternativa. Ecco, secondo voi era più bella o no la storia degli alieni?

Quindi attenzione ad aggredire il sintomo psichiatrico, perché la sua utilità potrebbe essere paradossale. Mentre nel caso degli attacchi di panico prima del matrimonio è auspicabile una forte alleanza tra terapeuta e paziente contro la sintomatologia, perché interesse di entrambi è che il paziente la superi al più presto, le cose stanno in maniera molto diversa in ambito psichiatrico. 

Il paziente psichiatrico è talvolta affezionato, legato, al suo quadro. Lo difende a spada tratta, non è disposto a riconoscerlo come patologico. In questi casi non è funzionale tentare in ogni modo di smuovere questa posizione, perché è difensiva. Può darsi che un paziente non si senta ancora pronto per prendere coscienza di certe cose, e potrebbe essere deleterio insistere. 

Internet: tutte le risposte

Il web è la democrazia delle idee. In rete tutte le idee hanno pari dignità, pari visibilità, e soprattutto possono venire reperite in ugual modo. Tutte, non importa che siano giuste o sbagliate, pertinenti o no, realistiche, verosimili, fantasiose ecc… . I pazienti navigano in rete, e come leggono le nostre pubblicazioni, leggono anche i contributi di chi conferma le loro teorie, quali che siano. Questo aspetto è fondamentale per farli sentire cittadini di serie A. Perché, questo è un tema enorme nel mondo psichiatrico, troppo spesso il paziente si vive come un cittadino di serie B, un diverso. Ed è proprio la società a farlo sentire diverso, e non solo perché a volte lo mette sotto tutela. E’ incredibile, ma il paziente cardiopatico, o diabetico, ecc … non è così avulso dal contesto sociale come quello psichiatrico. 

Questa dunque la mia tesi: rispetto a quelli del passato, i nostri pazienti, grazie ad Internet, sono un po’ più coesi al loro interno, più integrati in un ingroup di amicizie e conoscenze, e nel complesso, di conseguenza, si sentono meno ghettizzati. Proprio perché facendo rete, costruendo un ‘noi’ contro di ‘loro’ si danno man forte a vicenda. La conseguenza, sia chiaro, come ho già detto, è l’irrigidimento delle loro difese, ovvero un allontanarsi dalla guarigione, come verrebbe immaginata dai curanti. Ma credo che non sia un’eresia affermare che nell’epoca di Internet i pazienti psichiatrici siano più felici di quando nei manicomi erano confinati al pianterreno, e l’unico contatto con l’esterno erano le visite dei parenti al sabato. Basaglia docet.

Abbandono, vergogna e narcisismo: perché alcune persone abbandonate ritengono di avere diritti speciali.

Egoismo narcisistico

Alcune persone che sono state abbandonate, e che hanno sofferto la vergogna di tale abbandono, sono portate a ritenersi in credito verso la vita e verso le altre persone. Queste persone credono di avere dei diritti speciali, di ‘meritare’ di più: pretendono che gli altri si diano da fare per loro. 

Questo egoismo, (in definitiva narcisismo) è una reazione che in una prima fase aiuta a sopravvivere all’abbandono, e soprattutto alla vergogna ad esso associata. Pensiamo, per esempio, a bambini di genitori divorziati in seguito a episodi eclatanti, che hanno messo alla berlina la famiglia, o coperto questi bambini di ridicolo: se hanno covato la convinzione magica di avere diritto ad un riscatto, lo hanno fatto per trovare una ragione, per resistere alla vergogna. 

L’egoismo narcisistico diventa un collante interno rispetto all’autostima e alla percezione di essere amabili, di avere un valore personale. ‘Proprio a me fate questo? Io che sono così speciale e degno di nota?’ Se questa reazione può essere tipica nell’infanzia, non è escluso che si presenti anche in età adulta, di fronte ad un abbandono inatteso. L’adulto abbandonato ha una struttura di personalità più evoluta e coesa del bambino, mette in atto un ventaglio di reazioni comportamentali e psichiche più evolute, che lo aiutano a elaborare l’abbandono e la vergogna in maniera più matura. Tuttavia in alcuni casi la difesa narcisistica è inevitabile, e, se posso espormi, anche utile. Ma chiaramente deve avere estensione spaziale e temporale limitate, ossia deve valere per alcune persone, non per tutti, e soltanto per un certo periodo di tempo. 

Relazioni tossiche o disfunzionali

Quando questo atteggiamento diventa generalizzato, invece, si sposta dalle aspettative legate alle relazioni affettive, ovvero ai timori di essere (nuovamente) abbandonati, e si estende a tutti gli ambiti della vita. Ritenere di avere diritti speciali, o che gli altri siano sempre a disposizione, è tipico, ad esempio, di alcuni tossicodipendenti, o di persone che vivono condizioni particolari: essi tiranneggiano chi li circonda con lo scopo di venire serviti. In questi casi ritenere di avere diritto ad un trattamento speciale in virtù delle sofferenze patite in passato falsa la realtà e soprattutto falsa le relazioni. L’aspetto patogeno di questa posizione è che soltanto alcuni si adegueranno e decideranno di restare accanto a questi individui: quelli più deboli caratterialmente, o fragili emotivamente, o bisognosi di avere qualcuno da idealizzare. Mentre chi è più forte, o vorrebbe un atteggiamento più simmetrico probabilmente si allontanerà da loro: reiterando,  di fatto, l’abbandono

Sportivi in pensione: povertà e depressione dopo il ritiro dalle scene.

Appendere le scarpette al chiodo, e poi? La difficoltà con cui molti sportivi affrontano il ritiro la dice lunga sulle implicazioni di tale passaggio: inevitabile, ma estremamente doloroso. 

In psicologia del lavoro è nota da tempo la prima fase della pensione, quella fatta di grandi vuoti e smarrimento, in cui gli individui affrontano un cambiamento delle routine quotidiane al quale è difficile adeguarsi. 

Il mondo del professionismo sportivo non è esente da queste dinamiche, com’è facile intuire. Vediamo sovente, infatti, grandi atleti prolungare testardamente le loro carriere, a rischio dell’auto vilipendio, e non tanto per ragioni economiche, quanto per la paura di quella prima domenica, quella in cui gli altri giocheranno senza di loro. 

Rischio povertà

Diverse ricerche mostrano la difficoltà degli atleti ad abituarsi ad una vita ordinaria: a pochi anni dal termine della carriera sono molti quelli che hanno dissipato tutto o in parte ciò che hanno guadagnato. Negli Stati Uniti si è dato il caso di un atleta che ha ‘perso’ un capitale complessivo di 100 milioni di dollari. Oltre oceano di conseguenza già da alcuni tempi sono nate delle agenzie di gestione del patrimonio che aiutano questi ragazzi a gestire le loro fortune. La difficoltà di adeguarsi agli standard di persone più comuni è a mio avviso collegata alla difficoltà di accettare il sopraggiungere di una nuova fase di vita, e in definitiva una diversa identità. Perché si sa, soprattutto da molto giovani si corre il rischio di identificare se stessi con il ruolo che si ricopre. 

Rischio depressione

Marco Tardelli una volta venne presentato da un conduttore televisivo come ‘un ex campione del mondo’. Il famoso commentatore rispose piccato, dicendo che lui e i suoi compagni del 1982 sono tutt’ora campioni del mondo, non sono degli ex’. Il conduttore accettò la correzione e tra gli applausi del pubblico si scusò, riconoscendo in fondo il debito di passione che gli italiani devono a quei ragazzi, ma l’esempio è piuttosto calzante. Per quale motivo è così difficile accettare di essere ‘ex’? La condizione sociale, la reputazione, diciamo pure la popolarità che le imprese sportive garantiscono agli occhi del pubblico sono la parte più difficile da sostenere. Molto più difficile del successo economico. Quando parlavo di identità mi riferivo a questo. Passare da sentirsi osannati, avere onori, sconti al ristorante, ecc… a vivere una vita quotidiana come tutti, fatta di code, multe, bollette e via dicendo, è la cosa più pesante per chi è stato una star. 

Ogni anno il pubblico elegge un nuovo beniamino, e degli ‘ex’ si dimentica un pochino di più. Così il dilemma sull’identità si fa più pesante, perché diventa un dilemma sul valore. Quanto valevo? Chi era il più bravo? E soprattutto, quanto valgo oggi? Siamo così passati alla genesi della depressione: e infatti non di rado questi personaggi si trascurano, o addirittura tentano il suicidio. Quando la gloria sfuma, e la star diventa una persona come le altre, al rischio di finire in povertà si aggiunge il rischio di entrare in una spirale di autocommiserazione e autodistruttività. E’ a quel punto che occorre essere dei veri campioni.  

Il tossicodipendente e la madre disfunzionale

Vorrei mettere in evidenza una delle dinamiche tipiche della tossicodipendenza: il rapporto espulsivo/aggressivo del soggetto tossicodipendente con la madre disfunzionale. 

In alcuni casi il rapporto con la madre, soprattutto se depressa o instabile emotivamente, può assumere la caratteristica di una battaglia per la sopravvivenza, non soltanto psichica. Alcune donne possono diventare minacciose o pericolose per i loro figli, e mettere in atto anche comportamenti al limite della legalità.

Può avvenire che il figlio venga identificato, inconsapevolmente, come il responsabile di qualcosa di negativo per la coppia o per la madre stessa. Poniamo la fine di un periodo di stabilità, o la perdita dell’indipendenza. L’ambivalenza vissuta dalla donna è altamente distruttiva: ama il figlio, ma allo stesso tempo lo vive come un peso, sente che egli le ha tolto qualcosa. Il figlio di conseguenza soffre, e cerca disperatamente il modo per accontentare la madre, per renderla soddisfatta. Per esempio si adegua alle sue richieste, o si dedica alle cose che lei ama. Oppure, al contrario, entra nella dinamica aggressiva di rigetto reciproco e scatena contro la donna attacchi sempre più violenti.

Nel caso che vorrei descrivere, il figlio individua anche una terza strada: la tossicodipendenza.

L’uso smodato di droghe ha delle conseguenze molto significative. Da un lato spegne i dolori del giovane: egli ipersocializza con i coetanei, sentendosi (finalmente) amato e rispettato. In questo caso le droghe fungono letteralmente da farmaco auto somministrato, e il soggetto realmente sta meglio quando le assume. Perché al contempo seda le ansie e migliora la performance e la visibilità tra gli amici. Inoltre nel rapporto con il gruppo dei pari può comparire la dipendenza affettiva: le istanze di contenimento, che un individuo dovrebbe trovare nel nucleo famigliare, vengono trovate al suo esterno, creando così un precedente pericoloso: la separazione dai nuovi punti di riferimento potrebbe diventare problematica. 

Dall’altro lato l’uso di droghe ha un significato relazionale: il messaggio alla madre. L’attacco frontale alla madre, (sempre come reazione alla sua ambivalenza) è sia nei termini di una violenza cieca che il soggetto esprime su di sé, (iniettare droghe in vena è gesto furiosamente violento) ma anche nei termini di una (ennesima?) drammatica richiesta di attenzione che il figlio avanza. 

In questi casi l’obiettivo del trattamento è la cura della ferita narcisistica originaria. Ovvero quella sensazione di essere stati espulsi e successivamente aggrediti, mai abbastanza apprezzati, talvolta addirittura detestati.

Dico che questo è l’obiettivo della cura perché, e torno all’inizio di questo articolo, l’ambivalenza materna (il rapporto espulsivo/aggressivo) è originata dal fatto che la madre abbia visto nel figlio (magari molto inconsapevolmente) un ostacolo al proprio percorso di vita. Questa ipotesi, qualora risultasse vera, dovrebbe però passare attraverso un’analisi e una attribuzione di significati da parte del figlio. Perché la madre ha avuto quella sensazione in quel particolare momento della sua vita? È stata aiutata da qualcuno, oppure ha affrontato da sola quella fase critica? Qual è stato il ruolo del padre nella vicenda? 

Rispondere a queste domande, e ad altre di questo tipo, significa uscire da una sensazione vaga e pre consapevole di malessere, quella del bambino male accolto, per entrare in una fase di pensiero critico e adulto, quella della responsabilità: in cui l’individuo è in grado comprendere le ragioni della sofferenza altrui, di uscire dalla relazione di dipendenza e di entrare in una relazione di aiuto reciproco

Il fascino del numero 10: il romanticismo nel calcio.

I diversi ruoli degli sport di squadra seducono gli appassionati in modo viscerale, ma ciascuno diversamente. Perché? C’è una differenza tra un ruolo e l’altro? 

C’è una grande differenza tra ruoli, e si possono riconoscere almeno due ordini di motivi, che sono interconnessi, ma separati. 

Il primo è legato all’importanza che un ruolo ricopre nel funzionamento della squadra, ovvero ai fini del raggiungimento dell’obiettivo. Possiamo definire questo aspetto come ‘tecnico e/o tattico’, ovvero come genuinamente sportivo. Nel ciclismo, per esempio, il gregario è sentito dal pubblico come meno importante del capitano, e si è propensi a ritenere che diversi gregari potrebbero fare per il capitano più o meno lo stesso lavoro. Così il gregario è un ruolo che non attira molto le fantasie del pubblico, o meglio, le attira, ma meno del capitano della squadra. 

Il secondo è legato al peso relativo che uno specifico interprete riesce a dare a quel particolare ruolo. Questo aspetto, come si può capire, non è ascrivibile al ruolo in sé, ma alle fantasie che un protagonista scatena nel pubblico. Potremmo definire questo aspetto come romantico/idealista. Nell’esempio del ciclismo posso citare la famosa frase di Ferretti: ‘Un uomo solo è al comando: la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi’. Ammetterete che questa frase è in grado di suscitare nel pubblico fantasie quasi bibliche: di conquista, di vittoria per distacco, persino di riscatto. Nel Piemonte del 1949, poi, poche settimane dopo la caduta del Grande Torino, sentire Ferretti alla radio deve avere riempito gli occhi di lacrime. Fausto Coppi non era più Fausto Coppi: era tutti gli italiani, compresi i fans di Bartali, che comunque era secondo. 

Allo stesso modo avviene nel calcio. La smisurata passione per questo sport deriva dal fatto che ad un interesse che per l’appunto si può definire tecnico/tattico, che riguarda l’essere tifosi, l’occuparsi di quale giocatore in quale ruolo potrebbe essere più utile alla squadra, si associ l’interesse romantico/idealista, che riguarda il fatto di essere umani, di avere delle fantasie di trionfo. 

Prendiamo ad esempio il magico numero 10 del calcio, il cosiddetto regista.  

Il 10 del calcio è il leader per eccellenza. Punto di riferimento per i compagni, la mente del gioco: imposta, manda gli altri in rete, e se necessario finalizza. Sovente il 10 è anche il rigorista della squadra, ovvero quello che si assume le responsabilità maggiori. Queste responsabilità di conseguenza diventano gloria, e la sua visibilità aumenta. Il 10 è il comandante delle operazioni. 

Questi sono gli aspetti che abbiamo definito tecnici e/o tattici, ovvero che sono relativi al ruolo in campo del numero 10. Incendiano la fantasia del pubblico del calcio ad ogni latitudine. Ovunque, infatti, un appassionato sarà portato ad identificarsi con il comandante, con il regista delle operazioni, con il metronomo dei tempi di gioco. E’ un fatto di immedesimazione immaginativa, o di neuroni specchio, se preferite. In ogni stadio, di qualunque categoria, i cuori battono per quel giocatore che, in mezzo al campo, continua ricevere palloni dai compagni, come se fosse l’unico a capirci qualcosa. 

L’altro aspetto è quello romantico/idealista. Tutti i riferimenti immaginativi del regista, le componenti legate al suo ruolo così importante ai fini del raggiungimento dello scopo principe del gioco del calcio, si fondono con le fantasie che un particolare giocatore scatena. Così un atleta prestante fisicamente scatena fantasie di scontri fisici, di duelli cavallereschi con gli avversari, mentre un giocatore molto tecnico suscita fantasie di altro tipo. E i tifosi amano immaginare i loro eroi fare colpi sensazionali contro i rivali di sempre: nessuno sogna di battere una squadra sconosciuta o amica. Questo significa solo una cosa, che le componenti romantico/idealistiche del tifo sportivo sono molto più rilevanti di quanto alcuni presidenti vorrebbero ammettere. 

Negli sport di squadra, pertanto, il pubblico viene sedotto in maniera diversa dai diversi ruoli in campo. I ruoli degli sport denotano elementi tecnico e/o tattici che riguardano direttamente l’obiettivo di gioco, e che scatenato l’identificazione immaginativa del tifoso con il ruolo all’interno di un gruppo di lavoro. E denotano anche elementi di tipo più direttamente romantico e idealista, che fanno scattare le molle della fantasia. 

Psicologia ambientale: l’uomo in montagna. (Svolta green e turismo consapevole)

Lo stato d’animo influenza l’ambiente. Per questo bisognerà ripensare anche al turismo

L’egocentrismo narcisista fa dell’uomo il padrone della natura. Lo vediamo nel turismo di massa, (o d’assalto) privo di etica, il cui fine è unicamente ludico. Non c’è relazione con il luogo visitato, non c’è interesse per la sua conservazione (non c’è in vero, necessariamente, un intento distruttivo, ma che si debba negare che ci sia è già un paradosso).

La svolta green ci impone ci ripensare anche al turismo, al tipo di rapporto che abbiamo con i luoghi che visitiamo. La psicologia ambientale ci insegna che le condizioni ‘ambientali’ influiscono su di noi più di quello che crediamo, e così sarà vero anche il contrario: il nostro stato d’animo, il nostro atteggiamento, influenzano l’ambiente in cui ci muoviamo.  

Ce ne accorgiamo in alcune drammatiche occasioni, quando il rapporto con la natura sfugge di mano, e da padrone l’uomo si scopre ospite indesiderato. La mia riflessione non è moralista, (ovvero etica) ma è di carattere psicologico. C’è un atteggiamento dietro ad ogni azione che compiamo, e questo atteggiamento determina in gran parte l’esito di quella azione. Faccio un esempio: un ragazzo va in discoteca e invita a parlare una per volta tutte le ragazze presenti nel locale. In questo caso il suo atteggiamento verso l’esperienza discoteca è molto chiaro. Questo atteggiamento influenzerà fortemente la sua esperienza: quando arriverà l’ora di chiusura, infatti, egli avrà ballato poco, ma avrà fatto molte conoscenze. La stessa cosa è vera anche per il turismo. A Roma normalmente non ci tuffiamo nella fontana di Trevi: sappiamo infatti che non è quello lo spirito giusto con cui si va a Roma. 

Perciò dobbiamo chiederci ‘qual è lo spirito più corretto con cui vivere la montagna?’ (O il mare, i laghi, ecc… .) 

La risposta a questa domanda è una risposta di consapevolezza psicologica, non di etica filosofica. Con quale atteggiamento vado a fare una determinata gita? Cosa mi aspetto da questa esperienza? Faccio come il ragazzo in discoteca o come il turista davanti alla Fontana di Trevi? 

Ecco una situazione in cui svolta green e psicologia si danno la mano per migliorare il benessere dell’individuo, della società e dell’ambiente. 

Perché un leader è meglio di un trascinatore? L’esempio degli sport di squadra.

In tema di leadership è molto importante la differenza tra leader e trascinatore. Prendiamo ad esempio gli sport di squadra: un leader sovente è anche un trascinatore, ma non tutti i trascinatori sono dei leaders.

Molti credono che saper portare una squadra alla vittoria sia capacità di leadership. Che anche dare l’esempio sia leadership, che compattare lo spogliatoio sia segno di leadership, ecc… . Queste caratteristiche sono parzialmente anche quelle del leader, non c’è dubbio, ma sono soprattutto tipiche di un trascinatore. 

Il condottiero amato dal pubblico, che si ‘prende la squadra sulle spalle’, che suona la carica, quello è un trascinatore. 

Sia chiaro, il trascinatore è utilissimo ad un gruppo; inoltre è molto amato dal pubblico. 

Ma il trascinatore non è necessariamente anche un leader. 

Nella concezione contemporanea il leader non è solo uno che dà l’esempio: il leader induce gli altri a fare cose, ad agire come corpo unico. 

Il leader per esempio determina un comportamento senza richiederlo. Oppure induce un pensiero, (di gruppo) o al momento opportuno sa indurre cambiamento. Il leader porta un gruppo a pensare prima ancora dei singoli, ad essere entità autonoma, un qualcosa di più della somma degli individui.

La differenza è sostanziale: negli sport di squadra, ma non solo, è meglio un leader che un trascinatore

Considerazioni inattuali sull’organizzazione e gestione delle risorse umane: gestire il personale tra pensiero forte e pensiero debole. (Da un lavoro del 1998)

Indice:

  • L’azienda post-moderna.
  • Valutare i collaboratori: la riscoperta del potenziale.
  • Il compito impossibile nei servizi: ovvero il paradigma del molteplice.

L’azienda post-moderna

Ciò che è Grande è necessariamente
oscuro agli uomini Deboli.
Ciò che può essere reso chiaro all’Idiota
non merita la mia attenzione.

(William Blake)

L’epoca di continue evoluzioni e rivolgimenti nella quale stiamo imparando a vivere si presenta in modo totalmente diverso rispetto alle epoche che l’hanno preceduta. Si può affermare questo per almeno due ordini di motivi: il primo è che, come detto, oggi tutto cambia rapidamente: ideologie politiche, filosofie, tecnologie, equilibri sociali, tutto vive nello spazio di un lasso di tempo appena sufficiente a progettare una prospettica differente. Il secondo motivo è che chiunque può riflettere su questa epoca, e prenderne coscienza. La società medievale o rinascimentale, tanto per intenderci, sono rimaste per secoli uguali a loro stesse, e certamente i contadini o gli artigiani del tempo non potevano o non sapevano riflettere su questo.
Partendo da questa duplice condizione alcuni filosofi hanno ravvisato in questi anni un cambiamento non tanto all’interno della società, quanto piuttosto un cambiamento della società stessa. Secondo questi studiosi starebbe avvenendo il passaggio da una società tipicamente industriale ad una società che essi definiscono post-industriale.
Uno degli elementi della società post-industriale è, come vedremo meglio nella terza sezione, il ruolo di predominio (diciamo così, o economicamente di maggior prestigio) dei servizi sull’industria. Ma in senso lato si intende fare riferimento a tutta una serie di connotati tipici del nostro modo di vivere che erano del tutto assenti, per esempio, nell’Italia degli anni Cinquanta, o negli Usa degli anni Venti.
A livello sociologico questi connotati tipici sono ben riassunti dal paradigma della ‘società di massa’, a livello artistico dal paradigma del ‘postmoderno’, a livello politico dal paradigma della ‘fine della storia’, ecc…

Soggetto tipico di questa nuova società è il cosiddetto ‘pensatore debole’ (soggetto debole a me non piace, perché l’individuo non è debole, lo è la posizione del suo pensiero). Il pensiero debole (si veda Vattimo 1983, e altri) è tipico di colui che, avendo percepito la potenziale contraddizione insita nella natura delle cose, ha imparato a dubitare sistematicamente di tutto, non accettando più assiomi fondamentali come dogmi, e quindi non avendo a disposizione verità assolute, certezze metafisiche, risposte pronte, indubitate, definitive.
Nel linguaggio di Fukuyama, Liotard, Derrida, Vattimo o Thriller espressioni come società di massa, postmoderno, deregulation economica, fine della storia, postindustriale e altre sono pressoché sinonimi. Sono infatti adatte da sole ad indicare la situazione cui essi vogliono riferirsi: l’habitat del pensatore debole.
Tale habitat è costituito dal mondo occidentale odierno, in cui esistono centinaia di lavori differenti, decine di diversi corsi da laurea, molteplici alternative di voto politico e…ampie gamme di scelta su dove passare le vacanze. In questo mondo occidentale qualunque attività umana viene giocata sulla molteplicità, sul pluralismo, e non esiste più un Vero e un Falso, tutto è relativo e soggettivo. E’ su questo palcoscenico che interpreta la propria esistenza il pensatore debole, il quale si accetta nella sua umana limitatezza di non avere più risposte indebitate su nulla.
I due elementi, la società plurale e il soggetto indebolito che vive al suo interno, agiscono l’uno sull’altro come un meccanismo a feedback, rinforzandosi a vicenda: quanto più la società sarà in grado di proporre versioni alternative tutte ugualmente accettabili su un determinato argomento, tanto più il soggetto dovrà necessariamente relativizzare i propri punti di vista (indebolirsi). Del resto, quanto più i soggetti saranno non univocamente diretti e accetteranno come precondizione al loro esistere l’astensione da ogni presa di posizione, (così come proposto da Nietzsche e Heidegger) tanto più la società si presenterà come nebulosa e indistinta.

Come nessun elemento della società può esistere senza essere influenzato da questo fenomeno, così anche l’azienda deve adeguarsi ai nuovi scenari culturali.
In un celeberrimo fil dal titolo ‘Tempi moderni’, Charlie Chaplin descriveva con sarcasmo la condizione dell’operaio nella catena di montaggio. Quello era il modernismo. Se oggi i tempi sono postmoderni quel modo di impostare il sistema produttivo è superato. La variabilità dei mercati e la continua innovazione renderebbero desuete le modalità produttive di Charlie Chaplin.
Per Frederick Taylor l’operaio non doveva pensare, doveva sapere avvitare bulloni. Oggi invece sappiamo che il successo commerciale di un prodotto è dato anche dalla buona motivazione di chi concorre a produrlo.
Da quando scriveva Taylor ad oggi è passato un secolo (breve) di storia: Hitler, Stalin, il Sessantotto…e i Rolling Stones.
Oggi esistono comitati di bioetica in quanto è diventato possibile brevettare sequenze genetiche, laddove fino a metà del secolo le donne non avevano neppure diritto di voto. Nel 1997 il Premio Nobel per la Letteratura è andato a Dario Fo, un giullare: forse davvero nella vecchia Europa un’epoca è conclusa.
E’ quantomeno auspicabile che le aziende sappiano interpretare questo momento di transizione e che si adeguino prima che sia troppo tardi. Delineare linee guida non può fare parte di questo mio lavoro, ma ritengo necessario caldeggiare ai vertici di ogni azienda di tenere in debito conto le idee da cui abbiamo tratto spunto per queste riflessioni. Pena l’esclusione, ad opera del sistema, dal mercato e dalla vita produttiva in cui è inserita.

Valutare i collaboratori: la riscoperta del potenziale.

Così percorro l’arco della vita,
torno da dove venni.

(Friederich Hoelderlin)

La valutazione dei collaboratori è momento gestionale topico all’interno della vita aziendale. Il dover giudicare l’operato delle persone che contribuiscono in maniera sostanziale al funzionamento dell’impresa, e che magari sono amici o colleghi stimati, è infatti attività tanto psicologicamente onerosa, quanto fondamentale e irrinunciabile. Elemento particolarmente disagiante di tale attività è che essa grava quasi interamente sui quadri, i quali possono non avere le competenze o la voglia di farla fino in fondo. Per questo essi hanno elaborato metodologie proprie, prendendo un po’ da varie fonti, mettendo insieme Freud, Kant, Weber, insomma facendo un ‘di tutto un po’, non sempre totalmente funzionale. L’oggettività in questi casi è nodo fondamentale, nonché prerequisito gnoseologicamente necessario in una visione neo empirista della disciplina. Così Auteri e Busana riassumono le metodologie e i criteri comunemente utilizzati per formulare giudizi sui collaboratori all’interno di un continuum ideale ai cui estremi situano da un lato tecniche a giudizio soggettivo e dall’altro tecniche a giudizio oggettivo. Brevemente la sintesi è la seguente:
1. Valutazione dell’individuo nella sua globalità così come viene percepito dal valutatore. Giudizio espresso confrontando le caratteristiche del collaboratore con un modello comportamentale di carattere complessivo.
2. Valutazione dell’individuo non nella sua globalità ma analiticamente attraverso il confronto tra il suo modo di lavorare e una serie di fattori pre definiti.
3. Valutazione formale dei risultati di lavoro accanto ai relativi comportamenti organizzativi. L’oggettività è maggiore che nei precedenti metodi in virtù di una valutazione più spostata sui risultati.
4. Valutazione del risultato raggiunto a fronte di un obiettivo assegnato. Il capo diretto definisce consensualmente con un collaboratore un risultato che questi dovrà raggiungere, e la valutazione sarà quindi inerente a ciò che è stato realizzato di quanto assegnato.

Nel continuum tecniche soggettive – tecniche oggettive il quarto criterio risulta agli autori come particolarmente oggettivo. Secondo Auteri e Busana, quindi, la tecnica migliore per giudicare l’operato di un individuo è quella di verificare in modo empirico le ‘corrispondenze’ tra obiettivi prefissati e risultati raggiunti. Definendo meglio e schematizzando i due studiosi definiscono i punti 1 e 2 come ‘tecniche di valutazione dei meriti’, in quanto inerenti al persona, e i punti 3 e 4 come ‘tecniche di valutazione delle prestazioni’, in quanto valutative dei compiti svolti.
All’interno di un panorama socio-culturale in cui predomina la molteplicità degli orientamenti, mi sembra di poter ritenere eccessivamente rigido e meccanicistico considerare come unica via alla valutazione la mera considerazione dei risultati raggiunti. In una visione ‘debole’, sfaccettata, della questione credo che si possa evocare la presenza di altri scenari come sfondo al passaggio input-output. Continuando la metafora informatica, ad esempio, una volta inserito un input in un PC, le probabilità di ottenere un determinato output saranno certamente dipendenti dalla qualità dell’hardware. Ma in caso di non raggiungimento del risultato sarebbe un errore di Simplicio non considerare l’eventualità di un problema di programmazione, di un malfunzionamento della tastiera, o di un blackout improvviso.
Allo stesso modo valutare un collaboratore essenzialmente dagli obiettivi che è riuscito a conseguire tra quelli prefissati, potrebbe trarre in inganno circa le giuste attribuzioni delle cause per cui non ha raggiunto gli altri. Una crisi valutaria in un Paese fornitore di materie, il cambiamento di uno scenario politico, una scoperta biomolecolare, o anche la fine di una moda, sono tutte condizioni capaci, da sole, di fare saltare i piani di mercato di un’azienda.
A mio avviso, quindi, il quadro – Salviati dovrebbe cercare di sollevare il velo di Maya della conoscenza sensibile, per raggiungere shopenhauerianamente il reale valore – noumeno del collaboratore e delle sue azioni. In questo modo avrebbe la possibilità di conoscere più intimamente i motivi di un eventuale fallimento della strategia concordata, e anche di percepire molto prima la capacità potenziale del suo subordinato. I vantaggi di conoscere il primo di questi elementi sono per lo più operativi, ma potrebbero essere anche economici: sarebbe meglio evitare di inviare alla concorrenza un collaboratore scartato su basi erronee. I vantaggi di conoscere il secondo elemento, il valore potenziale, sono anch’essi molto importanti, ma assumono tale importanza in un’ottica gestionale di medio periodo per la vita dell’azienda: il potenziale di un individuo è la possibilità stimata che egli possa fare fronte a impegni più difficili rispetto a quello appena portato a termine.

La necessità di valutare le capacità potenziali di un collaboratore sono cresciute di pari passo con l’affermarsi dei sistemi di valutazione incentrati sul risultato, considerati più oggettivi (categorie 3 e 4 di Auteri – Busana). Questo nuovo sistema valutativo che possiamo considerare più maturo, è indice di una presa di coscienza degli orizzonti interpretativi proposti dai senatori deboli: i dati immediati cessano di essere espressione di verità univoche, tutto si problematizza, e anche nel valutare chi ci sta di fronte è necessario considerare visioni in trasparenza, appunto, di orizzonte.
Del resto credo sia possibile affermare che in un rapporto lavorativo così importante, intenso, duraturo, come quello tra quadro e collaboratore, sia della massima importanza che il primo sappia bene fino a che punto potersi spingere nelle richieste al secondo, ovvero fino a punto potersi fidare di lui.

Lo spazio a mia disposizione è estremamente esiguo in questa sede, e la complessità e l’ampiezza degli argomenti trattati sono tali da escludere una completa ed esaustiva trattazione in poche righe. Nonostante questo, però, cedo di aver indicato alcuni punti interessanti e di avere fornito spunti per considerazioni che, per quanto ‘inattuali’, possono aggiungere qualcosa alla già vasta letteratura di questo campo.

Il compito impossibile nei servizi: ovvero il paradigma del molteplice.

Imagination is more important
Than knowledge

(Albert Einstein)

La nostra società, che in questa trattazione ho definito come ‘di massa’, ma soprattutto ‘post-moderna’ o ‘postindustriale’, assume tale definizioni nel confronto con altre società che non hanno ancora raggiunto la fase industriale. In Italia assistiamo da più di un decennio ad un fenomeno che non si presta a diversità di interpretazioni, cioè la progressiva diminuzione della forza lavoro impiegata nell’industria e conseguente aumento di quella impiegata nel settore terziario. Grande calderone in cui convergono le attività più diverse, il terziario è comunque definito come il settore dei servizi. Pertanto elemento caratteristico e determinante della società occidentale è la cultura del servizio.
Conseguentemente con queste premesse è facile capire come il ‘servizio’ sia un concetto non direttamente identificabile come una specifica attività, ma al contrario vi sia una vasta gamma di ‘cose’ genericamente definibili come servizi.
In alcune occasioni il compito che un servizio si trova a dover realizzare risulta essere particolarmente difficile, se non addirittura proibitivo. Si parla in questi casi di servizio dal compito impossibile. In questo lavoro ho provocatoriamente preferito affrontare i diversi argomenti di discussione mantenendo vivo e riconoscibile, anche solo fra le righe, il confronto tra un’ottica di ‘pensiero forte’ e una di ‘pensiero debole’ che ho sposato. (E lo posso affermare in virtù del mio pensiero forte.) I dibattiti, nella loro brevità, sono stati tuttavia condotti cercando di fornire da un lato alcune proposte teoriche univoche e definitive, (prospettiva forte) e dall’altro eventuali considerazioni o soluzioni più volutamente indistinte, opinabili, ermeneutiche (prospettiva debole). Il campo dei compiti impossibili nei servizi mi è sembrato, tra quelli studiati da questa disciplina, come particolarmente suscettibile di una visione, per così dire, ideografica, al punto che l’ho definito, nel titolo, il paradigma del molteplice.
Importanti spunti di riflessioni sono stati tratti da un lavoro di Sergio Capranico (1992) nel quale l’autore presenta rischi e difficoltà di chi opera nei servizi dal compito impossibile.
I compiti impossibili sono quelli di operatori che si occupano di pazienti con gravi patologie mediche o psichiatriche, magari ad esito infausto, di anziani non autosufficienti, portatori di handicap ecc… . La nuova cultura sanitaria assistenziale impone, anche eticamente, che tutti vengano curati per quanto possibile, e che a tutti venga fornita una buona assistenza. Ma il Ministero non prescrive come comportarsi con queste persone. Sovente la disperazione spinge i pazienti e/o i loro famigliari a idealizzare le capacità degli operatori, a sperare in riabilitazioni praticamente impossibili. Gli operatori investiti di tali aspettative, forse per il fenomeno della dissonanza cognitiva, corrono il rischio essi stessi di illudersi sulle proprie possibilità. Tutto questo, chiaramente, può portare a distorsioni della realtà che non giovano a nessuno, e comunque non a chi ne avrebbe più bisogno.
Citando Fornari (1962) Capranico ricorda come le azioni velleitarie collusive finalizzate a degenerare la realtà siano, in una psicanalisi con uno schizofrenico, sostanzialmente di due tipi.
1. La posizione magico-etica volta a proiettare parti del mondo interno sul mondo esterno: le forse della natura sono governate dalle leggi morali dell’uomo e non da leggi proprie, quindi se le azioni di un individuo saranno buone, la natura si comporterà bene con lui.
2. L’identificazione con l’oggetto frustrante volta a controllare l’angoscia di impotenza.

Secondo Capranico, dunque, queste posizioni portano a responsabilizzazione illusoria ovvero sono antitetiche alla responsabilità. Per il nostro autore il corretto e responsabile atteggiamento di fronte ai compiti impossibili è quello di combattere in modo attivo l’assenza di abilità nei confronti del compito e questo può essere perseguito cercando altre abilità. O meglio scomponendo il compito impossibile in parti possibili, o più precisamente:

  • Attraverso l’affermazione di valori: se occuparsi di malati gravi viene percepito come un valore positivo, la delusione per l’insuccesso tecnico può venire stemperata dal riconoscimento sociale.
  • Attraverso una struttura di aiuto reciproco: gli operatori fanno gruppo fra loro e trovano gratificazioni alternative.
  • Attraverso la stimolazione di studio, sperimentazione e ricerca, al fine di raggiungere la abilità necessarie a trasformare il compito impossibile in compito possibile.

Nei compiti impossibili l’informazione scientifica a disposizione è scarsa, laddove non inutile, e comunque insufficiente rispetto agli obiettivi di cura e riabilitazione. In questa situazione, ecco il paradigma del molteplice, ciò che viene richiesto agli operatori è la capacità di sviluppare abilità e comportamenti non codificati, al fine di far fronte in modo creativo ad una situazione incerta e di difficile interpretazione. (Per inciso si può qui ricordare che ogni processo educativo non sia tanto scienza quanto arte). In un mondo ipertecnologico, in cui ogni singola operazione professionale richiede un alto grado di specializzazione, le ideologie fenomenologico – ermeneutiche non trovano molto spazio. Né tantomeno molti sostenitori. In questo caso invece, in cui mancano precise sistemazioni scientifiche e rigorosi assiomi di comportamento, il campo si presenta proprio come postulato dai teorici del pensiero debole: non esistono situazioni uguali, ma soltanto simili, gli oggetti di studio non sono dati aprioristicamente, ma sono dipendenti dal soggetto conoscente, (due operatori di fronte allo stesso caso vedrebbero e farebbero cose diverse). Come comportarsi quindi in questi casi? Il fisico tedesco Albert Einstein diceva che l’immaginazione è più importante della conoscenza. Lo scienziato non potrà scoprire nulla di nuovo se sarà legato a vecchi schemi di pensiero: soltanto quando darà spazio alla sua parte immaginativa potrà forse giungere ad una nuova soluzione di un problema.
Così nei compiti impossibili bisogna imparare a pensare e agire in modo creativo. E se in modo creativo si seguono le ricette di Capranico il compito potrà diventare possibile.
Questo fondere pensiero forte e pensiero debole può sembrare una sintesi degli opposti, e forse in effetti lo è, ma certo non vuole essere una nuova filosofia: nel Novecento gli uomini sono stati molto bravi a costruire nuove filosofie, molto meno a risolvere problemi.