Come trovare la felicità: al tempo della tecnica e della dittatura economica
Occidente: la tecnica e il capitalismo
Secondo qualcuno l’Occidente avrebbe già conquistato il mondo. Ci si riferisce al fatto che la tecnica e il capitalismo (si badi, non la democrazia) sono le due gambe della cultura occidentale, e che sarebbero state esportate fino a creare una grande società globale basata per l’appunto su i loro presupposti.
Dopo la caduta del muro di Berlino non soltanto la tecnica e l’economia hanno assunto il ruolo di despoti della nostra vita, ma è anche andato scomparendo il concetto di felicità. Lentamente, s’intende, ma inesorabilmente: dal dibattito pubblico è sparito ogni riferimento all’idea di felicità (gran parte della cultura di sinistra, un tempo, parlava dell’uomo e della sua felicità, ma anche la Costituzione degli Stati Uniti d’America, ovvero il massimo baluardo della cultura occidentale, la sancisce tra i diritti fondamentali.) Ma quel che è peggio anche dal dibattito privato. Nelle nostre vite non si parla più di amori, di benessere, di realizzazione personale, si parla invece di viaggi, acquisti di auto, acquisto di case, ovvero si monetizza sempre più il benessere e la realizzazione personale: come se la capacità di spesa fosse la cifra della realizzazione.
Dopo la caduta del muro di Berlino, dicevo, si è andata affermando un’equivalenza: tecnica più ricchezza uguale felicità. La ricerca della felicità è scomparsa dalla vita degli uomini, perché la felicità è la conseguenza della presenza della tecnica e del benessere economico.
Prendiamo l’Italia e la politica. Un tempo la politica dibatteva temi fondativi dell’essere umano, come il diritto all’aborto, l’università per tutti, la sanità ecc… In seguito abbiamo avuto una politica unicamente orientata alla crescita economica. Imprenditori, economisti, economisti e ancora imprenditori, hanno a più riprese governato il Paese, (o i suoi ministeri chiave) con l’obiettivo di migliorare le condizioni economiche della collettività. Significa che non si è ritenuto importante che la collettività fosse felice, ma che la collettività fosse, per quanto possibile, ricca.
Anche la corsa alla tecnica ha seguito questo trend. Pensiamo alle pubblicità dei televisori: per decenni si è insistito sul fatto che il televisore di ultima generazione ti facesse godere la partita di più e meglio del vecchio, ovvero che ti rendesse più felice. Abbiamo poi scoperto, sulla nostra pelle, che uno degli sprazzi di felicità più intensi del popolo italiano, ovvero la partita dei mondiali, (amici-pizza-birra) non è dato dal tv ultra piatto o ultra smart, ma dal resto. Infatti se l’Italia non partecipa ai mondiali, guardare sul tv ultra piatto o ultra smart le altre squadre non ci rende felici.
A controprova di questa tesi posso portare due elementi: l’ora di religione e il mercato dell’arte.
La Cei ha fatto sapere che i ragazzi che scelgono di frequentare l’ora di religione sono sempre di meno. Questo è molto eloquente, perché significa che molti giovani ritengono superflue le domande su Dio, il sacro, la vita e simili. Se come abbiamo detto la politica si appiattisce sull’economia, (e in effetti i giovani non sono più attratti dalla politica) e neppure la religione attrae come capacità di generare significati, dove trovare la felicità?
In ultimo (ma per ora) il mercato dell’arte. Indipendentemente dalle tendenze, dai modelli imposti dai galleristi e dalla (supposta) cronica mancanza di nuovi geni, gli artisti concordano su un punto: il mercato si sfilaccia, la gente non sa più emozionarsi davanti ad un’opera d’arte, tutti cercano soprattutto la provocazione. La provocazione è la cifra di molte tendenze artistiche, anche quando non c’è più nulla su cui provocare. Anche in questo caso, come si vede, il mercato, i volumi di vendita, il numero di visualizzazioni di un post, diventano predominanti, fino a schiacciare l’idea di felicità sul parametro della moneta.
Cos’è la felicità?
A questo punto urge una discussione. Come possiamo definire la felicità? Felicità è un moto dell’animo o una posizione più o meno in vista tra i pari? In altri termini, la felicità è qualcosa di intra psichico o è un costrutto relazionale, ovvero riflette ciò che possiamo permetterci come cose materiali o come aspetti inter soggettivi in un gruppo più o meno esteso di persone di riferimento?
Un tempo si diceva che la felicità fosse data dal superfluo, e si prendeva ad esempio il motorino. Una volta che uno ha soddisfatto i bisogni primari, quello che resta può garantire il superfluo. Chi poteva permettersi il motorino, secondo questa teoria, era felice.
In questo caso felicità sarebbe la disponibilità tecnica ed economica in riferimento al gruppo di pari.
Ma certamente tra chi legge questo articolo ci sarà qualcuno che non concorda con questa tesi, qualcuno che dice no, si può essere felici anche senza avere niente. E che cosa, allora, porta alla felicità?
Ebbene, che cosa sia la felicità, e che cosa conduca alla felicità, sono domande di senso dell’essere e sono a cavallo tra filosofia e psicologia: infatti non prevedono una risposta unica, ma tante quanti sono le persone che se le pongono. Pertanto come ognuno di noi saprebbe ben riconoscere una persona felice, ciascuno di noi ha comunque un’idea diversa su cosa sia la felicità. E proprio per questo è della massima importanza che si ponga questa domanda e che sappia trovare una risposta.
L’altro punto decisivo è dove trovare questa risposta. Se la risposta è ‘nella tecnica e nell’economia’ si apre uno scenario inquietante: anzitutto perché in quel modo la felicità non sarà mai afferrata una volta per tutte, ma anzi tenderà a sfuggirci continuamente. E poi perché al mondo ci sarà sempre qualcuno che avrà una combinazione tecnica/economia superiore alla nostra. In questo caso andremmo a legare la nostra felicità con le condizioni di altri, con il rischio di considerare la felicità un bene finito da conquistare con una competizione.
Se invece la risposta è ‘dentro di noi’ si apre tutto un altro scenario, che riguarda l’opportunità o la disponibilità di mettersi a cercarla. Credo che gran parte della filosofia si sia occupata di questo, quindi bisognerebbe darsi la pena di andare a leggere qualcosa.
C’è una terza eventuale risposta: ‘la felicità è per alcuni aspetti dentro di noi, per altri aspetti al di fuori di noi’. In questo caso la ricerca della felicità diventa possibile grazie a un dialogo ragionato e orientato con un esperto del campo, ovvero con lo psicoterapeuta. Egli legge dall’interno le disposizioni individuali di ciascuno, e le favorisce ‘per via di levare’ come diceva Sigmund Freud parafrasando Leonardo Da Vinci.
L’arte, il sacro, l’amore (non per se stessi).
Dunque io faccio psicologia, non filosofia. Ragionare sui massimi sistemi è essenziale all’uomo almeno quanto mangiare, non c’è dubbio: ma arriva il momento in cui l’uomo deve guardare dentro di sé, e trovare le sue proprie risposte. Inevitabilmente queste risposte avranno dei legami con la sua storia personale, e perché no? con la storia familiare che egli e la sua famiglia d’origine si raccontano.
Così il rapporto con l’arte, con ciò che è bello, ma anche il rapporto con Dio, con i defunti, ecc… diventano importanti in quanto legati ad un significato individuale che il soggetto ha imparato ad attribuire anche a partire dalle relazioni di accudimento primario che ha avuto.
Il sogno dell’infanzia, propriamente, di chi è? Poniamo: un bambino di otto anni sogna di giocare in serie A. Ci possiamo domandare: il sogno della serie A è suo? Oppure è il sogno degli adulti che egli ha intorno, che senza volerlo gli trasferiscono un loro desiderio? Il desiderio dell’adulto si trasferisce per esempio attraverso l’amabilità, o la desiderabilità, perciò un bambino può acquisire il sogno dell’adulto e farlo suo, nel tentativo di aderire alle aspettative, ovvero di essere più amato. Come si vede il rapporto con l’arte, con Dio, con la storia ecc… è certamente un fatto filosofico di maturazione individuale, ma non sappiamo quanto influenzato dalle dinamiche affettive originarie, ovvero dagli incroci tra aspettative genitoriali e investimenti filiali.
Per meglio dire non lo sappiamo fino a quando non lo indaghiamo. E così arriviamo al grande corto circuito del Novecento innescato da Sigmund Freud: la filosofia è in grado di attribuire significati soltanto dopo l’analisi dell’inconscio. Ovvero dopo che abbiamo stabilito se quello che facciamo o pensiamo sia propriamente nostro o una reminiscenza del passato.
Siamo così passati dal grande inganno occidentale, che intende la felicità come accumulo di competenze tecniche e di disponibilità economiche, al paradosso degli affetti, che imbriglia la nostra felicità nella felicità di qualcun altro, ovvero nel realizzarne le aspettative.
Vediamo quindi come la felicità sia un concetto complesso e altamente individuale, che va definito da persona a persona, soprattutto lasciando emergere gli aspetti più propriamente individuali della personalità, e eliminando quindi tutti i peggiori condizionamenti esterni.
E’ un viaggio lungo e accidentato, lo so. Ma ne vale la pena.