Giovani e giochi estremi. Quali sono le cause, quali le soluzioni?
Giochi estremi
‘Dottore, se incontra uno scatolone sulla sua strada non lo investa, dentro potrei esserci io!’. Così anni fa un paziente mi disse del suo modo di sfidare la sorte. Quel ragazzo mi raccontò delle abitudini che aveva con i suoi amici: attraversare di notte i binari al passaggio del treno, sdraiarsi sulla mezzeria degli stradoni poco illuminati, gareggiare in auto nella nebbia. A tutta prima credetti che quella fosse l’esperienza di pochi temerari, invece col tempo ho scoperto che è una condotta molto diffusa, soprattutto tra giovani e giovanissimi.
Quali sono le ragioni che inducono i giovani a fare giochi estremi? E quali soluzioni si possono individuare per ostacolare questa pratica pericolosa?
Vorrei provare a fare un discorso complesso e inclusivo, che sia anzitutto alternativo alle ipocrisie che in genere circondano i giovani. Essi, come noto, attraversano inquietudini e smarrimenti: è così da sempre e anche in futuro così sarà. Alcune modalità con cui affrontano il malessere sono palesemente inadeguate, e i giochi estremi sono una di queste. Molto di quello che scriverò si può estendere ad altri loro comportamenti potenzialmente masochistici o autolesionisti. Con una precisazione: le motivazioni individuali di questi comportamenti, ossia la competizione con i pari, il dolore per la perdita di un affetto, ecc… non possono essere generalizzate, pertanto prevedono soluzioni individuali, che possono essere cercate in un lavoro focalizzato sul singolo. Tenterò qui di fare un’analisi culturale, collettiva, e pertanto di immaginare risposte collettive di tipo socio/culturale.
La fine delle ideologie
Per definire quali sono le ragioni che portano ai giochi estremi e quali soluzioni la società dovrebbe provare a costruire, vorrei accennare brevemente alle ideologie e alla loro fine.
Per tutto il Novecento le ideologie, ma anche l’appartenenza religiosa, hanno fatto da collante al senso di smarrimento dell’uomo. Supporre che ci sia da qualche parte un’alternativa al mondo così come lo vediamo, credere che questa alternativa possa dipendere da scelte collettive come per esempio il voto politico, o la diffusione di alcuni valori spirituali, ha un effetto diretto sulla gestione dell’ansia e delle angosce degli esseri umani.
La nostra generazione, però, ha vissuto la fine delle ideologie. Il cosiddetto ‘comunismo’ è crollato nel 1989, (ovvero negli anni tra il 1985 e il 1991) quando quella cultura mise in moto un percorso di autocritica, che finì per smontarne alcuni dei suoi miti più radicati. Si scoprì per esempio che molti Paesi di quell’area erano degli Stati totalitari, e che poiché era difficile controllare il consenso dei cittadini, quel consenso doveva essere imposto. Per la nostra cultura occidentale fu un nodo difficile da sciogliere, e infatti molti attraversarono delle crisi profonde. Per molti intendo molti individui, non solo partiti politici o testate giornalistiche. L’ideologia comunista sparì dalle piazze e dalle scritte sui muri, ma anche dai salotti bene e dalle Smemoranda dei liceali, lasciando di fatto defluire incontrollata l’angoscia e la rabbia legate alle iniquità della società.
Ci fu uno sbilanciamento nell’altra direzione. A quel punto tutti pensarono che l’unico modello di sviluppo fosse quello capitalistico: concorrenza tra privati e disimpegno dello Stato. L’euforia tuttavia durò poco. Negli anni tra il 2008 e il 2011 la nostra generazione vide anche la fine del ‘capitalismo’, almeno il capitalismo Thatcher- Reaganiano degli anni Ottanta. La fine di quel capitalismo fu sancita da una condizione paradossale, ma soprattutto, per quanto riguarda questo scritto, profondamente patogena: lo Stato non aiuta le aziende in rosso, i pensionati, i disoccupati perché nel capitalismo non si fa. Ma lo Stato è pronto a salvare le banche in crisi, le grandi aziende partecipate e le squadre di calcio perché altrimenti l’effetto domino sarebbe catastrofico.
Pulsioni incontrollate
Evidentemente non è mia intenzione, in queste righe, discutere dell’opportunità o meno di queste scelte, il mio obiettivo è mettere in evidenza l’aspetto ‘patogeno’ di questa condizione. Essa crea malessere: non solo fisico, economico e sociale, ma precipita la società di massa nel vuoto ideologico. L’ideologia infatti è un sistema di regole chiuso, perciò una regola che vale solo a volte, non è ideologia. Per la prima volta nella storia della società di massa i cittadini sono privi di grandi sistemi di pensiero che convogliano le energie psichiche, e se vogliamo anche le pulsioni distruttive dell’io in progetti, in ipotesi future, in piani di azione.
Milioni di cittadini hanno la capacità di fare rete attraverso le nuove tecnologie e il collante tra loro diventano gli interessi individuali, (come potrebbe essere altrimenti?) Ovvero si formano aggregati di accounts che condividono gli stessi problemi o le stesse esigenze, e fanno squadra. A questi individui non si può dare torto: cercano soluzioni a problemi che nessuno sa risolvere, o che, peggio ancora, apparentemente nessuno ha l’interesse di risolvere.
Questo è, grosso modo, quello che è avvenuto negli ultimi anni nel mondo degli adulti, e che sta continuando ad avvenire. Volgiamo ora lo sguardo al mondo dei ‘giovani’, ammesso che sulla definizione ‘giovani’ chi legge converga quantomeno in linea di massima.
Adolescenza
L’adolescente sperimenta una forma di pensiero inesistente nelle fasi di sviluppo precedenti, ossia il pensiero ipotetico deduttivo. Vale a dire che è in grado di immaginare un presente (o un futuro se preferite) diverso semplicemente ipotizzando di cambiare alcune condizioni. Per la psiche dell’adolescente le grandi ideologie del Novecento erano l’humus per lo sviluppo e la formazione. Dai movimenti americani contro la guerra del Vietnam alle folle oceaniche per i festival rock, dalle grandi aggregazioni studentesche ai picchetti a Mirafiori, ideologia significava alternativa, per lo meno nell’immaginario collettivo. Resta il fatto quindi, che quando c’erano le ideologie i giovani avevano delle alternative. Non dico che fosse meglio, infatti non lo era, né che fosse più facile, infatti non lo era. Ma avevano delle alternative.
Ora c’è il vuoto e in quanto tale il vuoto si presta ad essere riempito in qualunque modo. Con le droghe, per esempio, con l’internet addiction, o con i giochi estremi.
Vediamo migliaia di giovani alla forsennata ricerca di nuovi idealismi, di nuove battaglie da combattere. Li vediamo scagliarsi contro il mondo dei grandi, polemizzare. E’ già qualcosa, non lo nego, ma è ancora poco. Perché l’ideologia forniva l’alternativa, l’invettiva no.
Così vengo alla risposta alla prima domanda, quali sono le ragioni che inducono i giovani a fare giochi estremi? Ecco, una è certamente il vuoto. Martin Heidegger riteneva che il vuoto fosse correlato con l’angoscia; Michael Ende, più poeticamente, che fosse l’inizio della fine della voglia di sognare. Per entrambi ‘vuoto’ è un termine negativo, il preludio alla perdita di ogni istinto vitale.
Un vuoto di desiderio
Con Lacan sono portato a dire che il vuoto dell’attuale generazione sia anzitutto un vuoto di ‘desiderio’. Le ideologie fornivano delle (ipotetiche) alternative, suscitavano un desiderio di cambiamento, perché il cambiamento era immaginabile. Oggi sembra non esserci nessuna speranza di cambiare lo stato delle cose, se non un disperato (per l’appunto) tentativo di rincorrere qualcosa che sembra già tardi per ricorrere.
Desiderare qualcosa è ‘sognare’ come potrebbe essere se non fosse com’è. Riguarda per esempio un regalo di Natale, ma anche una vacanza, un acquisto, un amore. Quando non si investe una cosa di aspettative, di attese, di immaginazione, quella cosa appare insipida, metallica, per l’appunto vuota.
Veniamo alla seconda domanda: cosa fare, quali soluzioni individuare contro il dilagare dei giochi estremi? Di conseguenza a quanto sopra esposto, la soluzione è rinnovare il percorso verso il desiderio. Non intendo un patetico ‘tornare indietro’ che non avrebbe nessun fondamento storico. Intendo un percorso ragionato che porti a strategie di costruzione di senso dell’essere, ovvero strategie per evitare che il vuoto dilaghi, che non trovi terreno fertile. Perché il vuoto esistenziale, non intendo il vuoto clinico, quello della depressione maggiore, che ha radici nelle profondità della psiche, il vuoto esistenziale è una stanchezza cronica, una sfiducia di base verso tutto. Con Julia Kristeva credo che la svolta della nostra epoca dovrebbe essere quella di rifondare l’umanesimo. Mettere l’uomo al centro della nostra cultura, stabilire una volta per tutte che l’uomo, con le sue necessità e le sue aspirazioni, deve essere al centro del progetto comune. Sembra un’ovvietà, ma evidentemente non è così. Se molti giovani rischiano quotidianamente la vita con i giochi estremi, se il vuoto dilaga negli stomaci, se abbiamo perso la pazienza di desiderare qualcosa, è perché al centro di quello che facciamo non c’è l’uomo.
Non è una risposta meccanicistica e immediata, mi rendo conto, ma del resto il lavoro che faccio non è meccanicistico e non prevede soluzioni pronte all’uso. Nello spirito di come opero ogni giorno, la proposta che faccio è anzitutto un cambio di prospettiva, un progetto alternativo. E prima si comincia ad attuare il cambio di prospettiva, prima un progetto sarà ultimato.