Categoria: Crescita personale

  • Z: Generazione solitudine

    Z: Generazione solitudine

    Noi sappiamo in cosa credere, siamo i ragazzi di oggi noi”. Così cantava Luis Miguel a Sanremo nel 1985, in una delle canzoni più iconiche degli anni Ottanta. La fiducia, l’entusiasmo, la sfrontatezza giovanile si respiravano ovunque in quel tempo, tempo che da lì a poco avrebbe visto la vittoria del modello occidentale nella Guerra Fredda. Oggi le cose sono notevolmente cambiate, soprattutto per le giovani generazioni (Gen Z e dintorni), che come al solito pagano il prezzo più alto di ogni cambiamento. 

    Duemila e non più duemila

    Ai nostri giorni l’Occidente si avvita in una spirale senza fine, e la fiducia nel futuro è un ricordo antico, se è vero che la disillusione galoppa in tutte le sue forme. Le tre promesse occidentali (democrazia, crescita economica, pace) che avrebbero dovuto sancire la fine della storia, e indurre tutti gli umani a diventare come noi, sono entrate tra le leggende dei secoli, come quella del Mille e non più Mille, quella del Prete Gianni o quella di Agilla e Trasimeno. 

    La prima conseguenza di questa situazione riguarda la politica. Milioni di cittadini disertano ormai sistematicamente le urne, non per negligenza, ma per deficit di vera rappresentanza. La seconda riguarda direttamente la salute mentale: psicopatologia e abuso di stupefacenti dilagano, definendo la nostra società come tra le più instabili emotivamente, e forse anche le più infelici, al mondo.

    Come dicevo, sono le giovani generazioni a pagare il prezzo più alto di questa involuzione. Chi ha vissuto il 1989 ricorda che l’entusiasmo per la caduta del Muro di Berlino contagiava tutti, anche chi, amando troppo la Germania, preferiva ce ne fossero due (Cit.). I nati dopo di allora, invece, hanno assistito unicamente allo scivolamento. 11 settembre 2001, Lehmann Brothers, crisi dello spread, Covid-19, guerra in Ucraina. 

    Il sacrificio di Isacco

    La Generazione Z (per comodità narrativa, ma possiamo estendere la riflessione a tutti quelli che hanno memoria unicamente del nuovo secolo) si è trovata con il cerino in mano. I bagordi (che non furono per tutti) sono passati, e la storia, che vive di fatti, chiede a questi ragazzi di fare la loro parte. Nello specifico, chiede spirito di sacrificio. Questo vocabolo desueto, che negli anni Ottanta suonava come una bestemmia, è tornato prepotentemente di moda nel parlare comune, riferito soprattutto ai giovani (categoria generica, bonne à tout faire). 

    “I giovani sono senza ideali”, sento dire, “Non amano il sacrificio”. Espressione di origine religiosa, “sacrificio” indica l’atto di immolare una vittima agli dei per garantirsene il favore. Perché, quindi, questi giovani, che hanno visto solo il declino, dovrebbero amarlo? Ecco il dramma peggiore di questa generazione: la solitudine

    La pretesa che chi paga per tutti lo faccia con gioia, è un (ennesimo) paradosso occidentale. Abramo trascina sul monte Moriah suo figlio Isacco, per compiere l’estremo sacrificio a Dio, ma Isacco ne è contento? O è, suo malgrado, vittima degli eventi? Allo stesso modo Gen Z è stretta tra due fuochi. Gli imperativi della storia, e le aspettative della società. 

    Chiedere sacrificio a questi ragazzi potrebbe assomigliare, alcune volte, a spremere un limone: dopo il primo bicchiere, il succo è finito. Ossia, molto probabilmente, Gen Z sta già pagando il cambiamento in atto, più di quanto taluni vorrebbero ammettere. Quando Luis Miguel cantava Ragazzi di oggi era quindicenne, aveva tutto il mondo davanti a lui, e davvero sapeva in cosa credere. La Generazione Z, al contrario, Internet a parte, non è così fortunata. Per questo, credo, andrebbe accusata di meno, e sostenuta un po’ di più.

  • La fine dell’Io-pubblicità: oggi, chi siamo?

    La fine dell’Io-pubblicità: oggi, chi siamo?

    L’Io-pubblicità

    Il tramonto del modello politico-socio-economico del capitalismo di stampo americano ci lascia senza identità. La convinzione che il benessere fosse legato al PIL, ossia alla produzione e al consumo di beni, con quella correlazione più o meno diretta tra il suo aumento e il miglioramento delle condizioni di tutti, ci aveva trasformati, nonostante gli avvertimenti, in compratori seriali. Potremmo dire che, ad un certo punto della nostra vita, la tv abbia condizionato i nostri bisogni a tal punto da creare una vera e propria forma di Io-pubblicità.

    Lo spostamento della produzione nei Paesi più svantaggiati, poi, ci ha man mano lasciati soli in questo processo. Inizialmente produttori, siamo rimasti meri consumatori di beni prodotti altrove. E il nostro Io-pubblicità, quel famoso “me lo merito, merito io” della merendina confezionata, ha pian piano cominciato a sgonfiarsi, laddove i vantaggi del nostro identificarci con la dittatura del PIL, non ricadevano più su di noi. Ecco, allora, che l’Io-pubblicità è entrato in crisi, rendendoci sempre più rancorosi, e alla ricerca di altri modi per auto definirci. 

    E dove cercare, quindi, una nuova forma di identità? Sulla base di cosa poter definire chi siamo, chi vorremmo essere domani, e cosa cambiare rispetto a ieri?

    Come nell’Argentina del dopo crisi economica, anche qui ha preso a tornare attuale la  vicenda culturale, scientifica e umana di Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi. Sin dalle sue prime battute, il testo freudiano, e il movimento da lui inaugurato, ruota attorno alla definizione michelangiolesca di scultura, quel “via di levare” che la differenzia dalla altre forme artistiche. Levare è per Freud, (e per tutti noi, suoi nipoti) sinonimo di liberare. Svincolare dai condizionamenti, dalle paure, dalle nevrosi, indotte, inevitabilmente, da altri. 

    Michelangelo: per via di levare

    Se l’Io-pubblicità era il risultato del mettere, dell’aggiungere, (fino a soverchiare) bisogni fittizi, al punto che Vittorio Sgarbi arrivò a dire che è il superfluo a rendere felici (Sgarbi quotidiani), la psicoterapia di stampo psicoanalitico inverte questo paradigma. L’identità di ciascuno di noi è ciò che resta dopo aver tolto ciò che gli altri vorrebbero che fossimo. Sin da bambini sentiamo entusiasmo intorno a noi quando facciamo alcune cose, e questo può trasformarsi in un progetto identitario. Fino a quando, da adulti, non sappiamo se siamo più simili a come volevano, o a come avremmo voluto noi. Ricordo di un paziente piuttosto bravo a giocare a calcio, ma interessato più che altro al tennis. Un amico di famiglia disse ai suoi genitori, quando era bambino, di andarne fieri, perché grazie a lui si sarebbero molto arricchiti. Quella battuta divenne quasi una profezia: il giovane entrò in una spirale di aspettative familiari, volte rinforzare ogni tentativo di fare carriera nel calcio, a scapito della passione tennistica. 

    Questo esempio fa capire cosa intendo per levare. Abbandonare la logica consumistica che non ci alimenta più, dovrebbe aiutarci ad andare verso una ridefinizione della nostra identità come uno spogliarci delle pretese, o dei desideri, altrui. Potrebbe costare fatica, non c’è dubbio. Ma correremmo il rischio, finalmente, di essere felici. 

  • Madri maiuscole, figli minuscoli

    Madri maiuscole, figli minuscoli

    La madre che incombe sul bambino, limita la sua libertà, sceglie i suoi amici e si suoi svaghi. Danièle Brun la chiamava Mère Majuscule (aveva letto Freud), John Lennon la definiva Mother Superior, (ce l’aveva in casa). Al di là delle sfumature (più idealizzata quella dell’ex Beatles), questi termini esprimono tutti una relazione – asimmetrica – e un destino. Il grado di autonomia di un bambino con una madre maiuscola, o, peggio, con una badessa superiora, non è solo limitato nello spazio, ma anche nella definizione della propria traiettoria di crescita.

    She won’t let you fly, but she might let you sing…

    La madre presente, al punto da costituire un ostacolo per la crescita del bambino, appare un paradosso nell’epoca dell’indipendenza individualista. Tuttavia, in alcune occasioni, la madre è legata da un doppio filo al figlio. Teme di esserne abbandonata, o che egli cresca al di fuori dei suoi canoni di riferimento. Può essere che la madre abbia dentro un vuoto, che in qualche modo il figlio riempie, almeno parzialmente. Un vuoto esistenziale, ad esempio vede in lui qualcuno che vedrà un futuro che lei ha sempre sentito nebuloso o minaccioso. Oppure un vuoto relazionale, ossia la madre ha dubbi sull’uomo che ha accanto, il padre del bambino, che può essere un violento, oppure un uomo senza direzione, oppure ancora che non sente di amare fino in fondo.  

    Le madri maiuscole tengono il bambino nel raggio di azione del loro sguardo, ed egli impara a muoversi, per quieto vivere, all’interno di questa zona di consenso. Ma inevitabilmente, il bisogno di legare a sé il figlio, porta la madre ad attuare atteggiamenti che esprimono (o negano) il permesso di allontanarsi, anche da qualcosa di altro. È quell’uomo ideale che loro hanno in mente, ma che il padre del bambino non è riuscito ad essere. Così, la delusione per una vita di coppia insoddisfacente, entra nel rapporto con il figlio, che diventa, agli occhi della donna, l’uomo che il marito non è stato. 

    Il figlio non percepisce queste cose, che il più delle volte restano sotto traccia, mai razionalizzate, né tanto meno verbalizzate, ma le sente attraverso l’approvazione dello sguardo materno. Un madre maiuscola è tale se ha vicino qualcosa di minuscolo, e questi è il figlio, che, per ricevere l’approvazione, si conforma alle aspettative. 

    “…Mother should I build a wall?

    Se il bisogno di conformarsi all’idea materna è più forte di ogni spinta indipendentista, il figlio è purtroppo in grado di rinunciare ai propri progetti di vita. Quando la delusione della madre risale al rapporto di coppia, il bambino può sviluppare una specie di intelligenza relazionale, e nel tentativo di non dare anche lui una delusione alla donna che lo accudisce, può trasformarsi nel “bravo bambino”. 

    A questo punto incorre in due pericoli, altrettanto insidiosi. Può sviluppare un falso sé, una maschera, e continuare a mostrare pubblicamente l’immagine gradita alla madre maiuscola, mentre segretamente vive la sua vita. Oppure può tagliare ogni legame con la propria storia, e accettare il destino impostogli. In entrambi i casi non sarà un ragazzo felice. Ma questo, ha una qualche importanza? 

  • Dario Fabbri e la Geopolitica Umana: il ritorno dell’inconscio nella cultura occidentale.

    Dario Fabbri e la Geopolitica Umana: il ritorno dell’inconscio nella cultura occidentale.

    Apprezzo molto gli sforzi di Dario Fabbri, e del movimento culturale da lui creato, di chiarire le dinamiche storiche attraverso una nuova teoria geopolitica. Non sono un cultore della materia, e non commenterò nel merito, ma posso affermare che il successo di popolarità del suo lavoro è dato anche da una piccola, ma coraggiosa, innovazione. Egli rimette l’inconscio al centro del funzionamento degli esseri umani, e anzi ne evidenzia il ruolo di guida, per quanto sotto traccia, di tutta la loro condotta. 

    Geopolitica umana, o inconscio?

    Il lavoro dello studioso romano muove dalla convinzione che i popoli abbiano un’ identità profonda che ne determina le scelte strategiche, scelte che sarebbero indotte, più da aspetti istintuali, primordiali, che dalla ragione, o, peggio, dai leader, questi ultimi, a suo parere, totalmente irrilevanti. 

    Ora, posto che, come detto, non ho titoli per commentare scientificamente questa posizione, vorrei, però, evidenziare quanto segue. Ciò che Fabbri chiama la “cifra antropologica” di un popolo, o di un individuo, si avvicina molto a quello che la psicoanalisi definisce inconscio. Ossia, l’assunto per cui il nostro comportamento è fortemente influenzato da quella parte della nostra mente che sfugge all’attenzione (diretta) della nostra mente. 

    La cultura scientista di cui siamo intrisi, che muove dalla necessità di trovare certezze che tornino utili al nostro vivere quotidiano, più che da quella di sviluppare competenze strategiche, ha man mano espulso l’inconscio dal nostro orizzonte. Tuttavia l’inconscio continua a esistere, e a influenzarci, anche quando lo ignoriamo, e bravo Fabbri ad averlo fatto notare. Affermare che non siamo realmente padroni di noi stessi, perché i condizionamenti interni ci guidano al di là del nostro volere razionale, infatti, converge con gli assunti di base della Geopolitica Umana

    Per quale motivo, quindi, Fabbri deve arrendersi a questa verità? La psicoanalisi è stata un terremoto nella storia del pensiero. Non tanto perché abbia portato novità alla logica, all’epistemologia, e alle altre arti parti della filosofia. Ma perché ha prodotto uno sguardo diverso sull’uomo che indaga, e sulla mente, che egli usa per compiere tale operazione. Se l’io non è padrone in casa sua (Freud), se le nostre scelte non sono veramente libere, perché condizionate dall’inconscio, il dipartimento di filosofia si trasferisce nella stanza di analisi. Non c’è più una metafisica, potrebbe dire qualcuno, ma ci sono tante metafisiche quanti sono i soggetti pensanti, e così via. 

    Rileggere i movimenti della storia in base a costrutti culturali arcaici, preverbali, ossia a quegli asset identitari che assorbiamo dall’ambiente prima ancora che sia la nostra mente a produrli, è posizione molto saggia. Ci ricorda che persino quando ci iscriviamo all’università, non sappiamo se lo stiamo facendo per noi stessi, o per soddisfare l’aspettativa che altri hanno su di noi.  

    Conflitti interiori

    L’inconscio agisce dentro di noi, ma non è altro da noi. È quella serie di discorsi che abbiamo sempre avuto in fondo alla nostra anima, anche quando non li abbiamo voluti ascoltare. È il nonno che diceva: “Conta sempre il resto del negoziate, non farti fregare”. O l’allenatore che gridava da bordo campo: “Sei un idiota, non arriverai mai in Serie A!”. L’inconscio è una narrazione, una teoria su noi stessi, e che difficilmente riusciamo ad abbandonare, anche quando affermiamo con tutte le forze di volerlo fare. 

    E allora come affrontare questo inconscio? Qui la mia visione di terapeuta si discosta da quella di Fabbri, che ritiene, sostanzialmente, non ci sia niente da fare. Se i condizionamenti sono freni che vengono dal passato, se li sentiamo stridere con il nostro presente, se ci fanno soffrire, allora si possono smontare. Freud amava citare Michelangelo, che vedeva già la sua opera d’arte nel blocco di marmo. Basta levare il marmo in eccesso, diceva, per liberarne la scultura imprigionata. Così Freud aveva trovato una teoria, e poi una tecnica, che agiva “per via di levare”, ossia che non intendeva la cura come un “mettere” qualcosa nella mente del paziente, ma soltanto come un togliere il marmo in eccesso. 

    Se Fabbri ha avuto il merito di riportare l’inconscio in primo piano nella cultura occidentale, però, a questo punto non possiamo fermarci. Dobbiamo ammettere che con la giusta teoria, e la giusta tecnica, saremo in grado di superare ogni impasse, di smontare ogni freno che arriva dal passato, di liberare la nostra scultura imprigionata nel blocco di marmo. Per fare questo sarà necessario abbandonare un po’ di quella cultura scientista di cui siamo intrisi, e tornare a familiarizzare con i concetti più classici della psicoanalisi. Chissà che in questa epoca di smarrimento, non ci aiuti a trovare una strada, o quantomeno una direzione in cui cercarla. 

  • Fine della verità e frammentazione psichica

    Fine della verità e frammentazione psichica

    Come già osservato a più riprese, attraversiamo una fase di decostruzione della verità e del senso dell’essere. La cosa investe anche psicologicamente il soggetto contemporaneo, e non solo nella sua azione pubblica, ma anche nella sua dimensione privata. La conseguenza di questa polverizzazione del vero e del riconoscibile, è una frammentazione della nostra soggettualità. Registriamo quotidianamente da un lato una diffusione esponenziale della patologia mentale, anche grave, da un altro il ricorso smisurato a sostanze stupefacenti o alcolici, da un altro ancora alla disperata ricerca di punti fermi su cui costruire, o ridefinire, la nostra identità, come ad esempio quello della squadra di calcio o del luogo di nascita. Proprio quest’ultimo punto diventa, oltrepassata una certa “normale tollerabilità”, addirittura paradossale, se è vero che lo stesso Dante Alighieri affermava di avere per patria il mondo. 

    Thruth!

    Il presidente americano Donal J. Trump ha fondato, nel 2022, un proprio social network, a cui ha dato nome Truth, verità. Posto che un presidente degli Stati Uniti sia di per sé una voce autorevole, e per alcuni dovrebbe comunque dire sempre la verità, il fatto che abbia chiamato “Verità” un social network, la dice lunga sul rapporto che abbiamo sviluppato con questo concetto, già di per sé indefinibile. Perché se un presidente afferma di dire la verità sul suo social, verrebbe da chiedergli: quante verità pensi che esistano? Nel mondo le verità sono tante, siamo d’accordo, ma dovrebbe andare da sé che per ciascuno di noi ce ne sia una sola, ed evidentemente non è così. 

    La mia generazione ha studiato sui libri di Gianni Vattimo e Umberto Eco, ai tempi del pensiero debole, del post modernismo, e del crepuscolo della verità. Ora, dobbiamo ammettere che il crepuscolo è stato superato da un pezzo, e ai giorni nostri sulla verità è calata ampiamente la notte. Più della formula di Bauman “società liquida”, quindi, credo dovremmo dotarci del concetto di “frammentazione”. Il mondo è in via di frammentazione, e con lui lo è anche la nostra identità, sulla scorta di quel meccanismo che la psicoanalisi ha individuato come reazione al trauma e al traumatico. 

    Se pensiamo alla politica internazionale, siamo praticamente privi di punti di riferimento, diversamente, ad esempio, dagli anni della Guerra Fredda. All’epoca stavi con gli Stati Uniti o con l’Unione Sovietica, le due cose si escludevano a vicenda, generando conseguenze. Soprattutto, questa dicotomia ti aiutava a definirti, a fissare la tua identità. Poi è crollato il Comunismo, e in Italia, ad esempio, è arrivato Berlusconi. Non ci siamo più divisi più tra capitalisti e socialisti, ma eravamo comunque divisi tra pro e contro il Cavaliere, e insomma, anche lì la politica ci aiutava a fare una “scelta di campo”, a compattare la nostra identità. 

    Oggi la politica si è frammentata, a livello internazionale come locale, ed è difficile prendere una posizione netta e definitiva. Anzi, è diventato molto facile cambiare partito, o anche schieramento. La frammentazione ha investito la Policy, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.  Anche l’economia si è fortemente frammentata. Le classi sociali non esistono più nei termini di qualche anno fa, economicamente gli italiani sembrano essere scivolati in un incubo alla Stephen King, da cui nessuno riesce a svegliarli. E così, a ruota, la frammentazione ha colpito ogni settore della nostra vita, fino al lavoro e allo sport, dove non esistono più posizioni e mansioni di una volta, siamo chiamati a ricoprire diversi ruoli, con le conseguenze che ciascuno di noi conosce benissimo. 

    Frammentazione psichica 

    Secondo lo psicoanalista ungherese Sandor Ferenczi, la frammentazione può essere la reazione ad un trauma, o ad un evento impensabile. In termini pop, siamo frammentati quando a tutta prima prendiamo una posizione, ma poi ci pensiamo sù, ci vengono in mente altre argomentazioni, e la nostra idea vacilla. 

    Un esempio straordinario di quanto siamo frammentati, è la guerra fra Russia e Ucraina. Se torniamo ai primi tempi di questa guerra, ricordiamo che l’opinione pubblica, a parte poche eccezioni, prese posizione immediata per Kiev. Su ogni organo di stampa, sui social network e davanti ai caffè, gli italiani avevano una posizione netta, chiara e incrollabile. Durò alcuni mesi, poi emerse la frammentazione, e le posizioni si polverizzarono in miriadi di atteggiamenti differenti: chi continuava a sostenere l’Ucraina, chi attribuiva le colpe della guerra alla Nato, chi appoggiava direttamente le istanze russe, sostenendo che, in fondo, fossero legittime. La difficoltà di prendere una posizione in merito a questa, come ad altre questioni, (femminicidio/patriarcato, svolta green, istruzione pubblica, e potrei continuare) denota un problema identitario, una frammentazione della nostra identità. 

    Seguendo il modello psicoanalitico di Ferenczi, come dicevo, potremmo sostenere che questa frammentazione sia la conseguenza di un macro trauma, o una serie di traumi, a cui non siamo riusciti a trovare un buon adattamento. Il mio mestiere non è quello storico, se non dello storico delle persone, ma posso indicare in almeno un paio di grandi cambiamenti sociali, i traumi a cui fatichiamo a fare fronte: la rivoluzione digitale e la fine del mondo a guida occidentale

    La moltiplicazione delle opportunità comunicative avvenuta in questi venticinque/trent’anni, in cui siamo passati dal primo personal computer casalingo con masterizzatore (era il non plus ultra), ai social network, definisce la perdita del rapporto con la verità, come accennavo più sopra, e lo scivolamento delle certezze identitarie. 

    La rivoluzione digitale è certamente traumatica per gli umani. Comporta, tanto per cominciare, l’indebolimento del rapporto con i media, e infatti siamo noi per primi ad essere coinvolti nel processo di decriptazione delle informazioni. Il web ci offre contenuti sulla base dell’algoritmo, non sulla base della veridicità, che lui per primo non è stato progettato a riconoscere. Così abbiamo sulla stessa schermata i post del Corriere della Sera e di opinionisti impreparati: la Home Page dei social network è una dichiarazione di guerra alla nostra stabilità mentale. Per non parlare, inoltre, dei cambiamenti legati alle relazioni affettive o amicali. C’è stato un tempo in cui i giochi di sguardi si facevano nel buio delle discoteche. Oggi i like sono pubblici, e se il mio amico ne avrà più di me, potrei uscirne molto male.

    Il secondo punto coinvolge in maniera particolarmente profonda il nostro processo di strutturazione. Nel mondo contadino, o cittadino, del medioevo, del Settecento, e così via, non avevamo molti stimoli a metterci in dubbio. Le persone strane venivano bollate di stregoneria e relegate ai margini, i matti venivano chiusi nei manicomi, e la vita era meno complessa. All’epoca del boom americano, in cui tutti sognavamo a stelle e strisce, non eravamo (molto) frammentati. Fatta la scelta est/ovest, collocavamo noi dalla parte del bene, del giusto e del trendy, e gli altri dall’altra parte. 

    Al tempo attuale scopriamo che la stragrande maggioranza dell’umanità ci considera dei viziati, degli scrocconi, quando non degli approfittatori, e non vede l’ora di prendere le distanze da noi, e dal nostro modo di vivere. Anche questo è un trauma che mina le basi della nostra identità, che frantuma il nostro Sé in pezzi ignoti fra loro. E infatti sentiamo colpa per la fame nel mondo, pur sprecando molto cibo, per il cambiamento climatico, pur facendo post sui social che bruciano energia, e via di questo passo. 

    Quale identità? L’inganno del territorio

    Come affrontare, dunque, questa frammentazione? Quale identità perseguire, a quale Sé dover dare conferma? È qui che la cosa si complica, infatti siamo portati a ricercare risposte semplici, rapide, anche per dare soluzione a problemi complessi, ma questo non è assolutamente verosimile. Un inganno molto comune è quello dell’idealizzazione del territorio di provenienza, artificio cognitivo che comporta la confusione tra il normale senso di appartenenza e la struttura dell’identità

    Il mondo dell’enogastronomia conosce molto bene la differenza tra prodotti simili provenienti da territori diversi. Un vino toscano è profondamente diverso da un vino siciliano, per profumo, gusto, corposità, ecc… ma lo è anche un vino toscano del chianti, rispetto, poniamo, ad un vino di Grosseto. Nel caso dei prodotti enogastronomici, quella terra, quel clima, quel tipo di umidità, ne determinano l’identità profonda. Per gli esseri umani le cose non possono essere assimilabili, eppure molti continuano a identificare loro stessi con il luogo di nascita. Ricordiamo tutti quei brexiters che orgogliosamente gridavano: “Io sono inglese, non britannico”, per buona pace dei fans delle Spice Girls o dei Queen, che si sentivano simili ai loro eroi, pur se italiani, francesi o tedeschi. 

    Gli umani nascono in un territorio, ma non da un territorio, poggiano i piedi sulla terra, ma non vi sono ancorati all’interno. Il nutrimento che prendiamo dal luogo natale, è un nutrimento anzitutto psichico, spirituale, molto più che fattuale. L’appartenenza, più che ad una regione fisica, è ad una famiglia, una rete di affetti, un complesso di dinamiche relazionali che ci hanno visto crescere. 

    Dante Alighieri, artista, e italiano, che dovremmo conoscere meglio, diceva: “Io che ho il mondo per patria, come i pesci hanno il mare, benché abbia bevuto all’Arno prima di mettere i denti…”. Perché Dante riteneva che la sua patria fosse il mondo? Era un grande intellettuale, non c’è dubbio, ma evidentemente sapeva, o quantomeno sentiva, che l’unità del Sé non si può fondare sugli aspetti idealizzati di un territorio di provenienza, che, per quanto magnifico, avrà anche dei difetti. 

    Se in seguito ai traumi che il nostro tempo ci fa attraversare, abbiamo visto frammentare la nostra identità, insieme alle certezze che da sempre ci portiamo dietro, il processo di ricostruzione deve partire da dentro di noi, da ciò che siamo, da quello che in cuor nostro avremmo voluto essere. Considerando che la traiettoria di crescita, raramente sarebbe stata diversa se fossimo nati in un’altro luogo. 

  • Dio perdona…io no! Tradimento, orgoglio, perdono.

    Dio perdona…io no! Tradimento, orgoglio, perdono.

    Il perdono è uno dei capisaldi della nostra tradizione religiosa, cosa che si riverbera anche nel diritto, in cui per un condannato sono previsti sconti di pena, indulto, riabilitazione penale, ecc… . Abbiamo la tendenza, tuttavia, a considerare il perdono più come una cosa che gli altri debbano a noi, che come un movimento da parte nostra verso chi ci ha mancato di rispetto.

    Il perdono di Dio e dello Stato

    Dio pedona… io no! Questo titolo di un film dell’amata coppia Bud Spencer e Terence Hill, è molto eloquente nel discorso che stiamo facendo. Il Cattolicesimo è spesso ritenuta la religione del peccato. A torto, a mio avviso, perché più che in altre confessioni, o quantomeno in maniera diversa, ruota attorno al concetto di perdono. Dio perdona chi si rimette nelle sue mani, tramite le modalità previste dalla teologia. Non spetta ai teologi sindacare, non è nel potere dei fedeli contrattare. Il perdono di Dio fa parte della nostra storia religiosa e culturale, al punto che nessuno se ne sente offeso, o ne tenta una qualche forma di revisione. 

    Anche lo Stato perdona, in tutto o in parte, chi ha commesso dei reati contro la legge, e anche in questo caso nessuno, in genere, mostra risentimento. Anzi, chi ha fatto un reato è sovente portato a credere che il diritto non faccia abbastanza, che dovrebbe perdonare di più, che le pene sono troppo severe, ecc… . Il perdono verso di noi, in altre parole, non è mai troppo, non è mai a sproposito, anzi è sempre meritatissimo. Anche nelle forme più alte di errore, come quelle del peccato nei confronti di Dio, o di reato verso la legge dello Stato. 

    Lo stesso vale per le offese che rechiamo ad amici, conoscenti, colleghi, partner, e via dicendo. Il credito che riteniamo di avere è pressoché illimitato, sono sempre gli altri a dover fare uno sforzo, venirci incontro, apprezzare i nostri passi verso di loro.

    Io perdono, ma non dimentico 

    Il discorso cambia, e di parecchio, quando siamo noi a dover perdonare per un torto subito. In questi casi, la cosa migliore che si possa sentire è: “Io perdono, ma non dimentico.” Che poi è un modo per dire che non se ne parla proprio. Perché questa disparità di posizione? Perché perdoniamo in quantità minore, e più faticosamente, di quanto vorremmo essere perdonati? Va detto che un’eccessiva predisposizione al perdono, soprattutto nell’ambito della vita di coppia, può talvolta risultare sospetta. Se perdoniamo con leggerezza un partner fedifrago, ad esempio, possiamo dare l’idea di non tenerci abbastanza, oppure di avere qualcosa da nascondere, oppure ancora di essere troppo dipendenti, e accettare qualunque compromesso pur di non perdere la relazione. Tuttavia il perdono non riguarda solo il tradimento in coppia, e  dobbiamo ammettere che, in generale, perdonare è più difficile che chiedere, o aspettarsi, il perdono. 

    Per quanto pacifica, la cosa è talmente paradossale, che merita una piccola riflessione. Anzitutto, chi ci ferisce, lo fa in buona o cattiva fede? E poi, poteva fare diversamente? Avrebbe saputo resistere? Ha seguito se stesso, il suo istinto, oppure no? Queste domande, e altre simili che queste ci suscitano, ci portano in una direzione. Quanto è veramente responsabile chi ci offende con il suo comportamento? 

    Sul perdono, e la difficoltà di perdonare, partirei anzitutto da noi stessi, da cosa avremmo fatto noi al posto dell’altro, e da come vorremmo essere trattati, per giungere poi ad un’altra conclusione. Il perdono, è utile ricordare (Lacan, Kristeva), non si riferisce all’offesa, o al reato, ma alla persona: è un atto relativo all’altro. Non riguarda il furto, l’aggressione o la rapina, ma l’individuo che li ha commessi. Così in coppia, non perdoniamo il tradimento, ma chi lo ha fatto. 

    Il per-dono è un dono a noi stessi

    Inoltre, il perdono libera il futuro. Restare ancorati all’evento che ci ha feriti, che è comunque passato, vuol dire non ripartire. Ecco, allora, la conclusione cui volevo giungere: il per-dono all’altro, sostanzialmente, è un dono fatto a noi stessi. Chiudere quella porta, è autorizzarci a guardare oltre, ad andare avanti. È allora forse questa la difficoltà? Restare fermi al torto subito è uno stop forzato, un drammatico alibi per non continuare a crescere senza l’altra persona. 

    Sta forse qui la ragione per cui vorremmo che, invece, a parti invertite, ci perdonassero tutto? Non riusciamo a capire per quale motivo si ostinino a non ripartire, quando è tutto chiaro, quando tutto è superato, quando ormai tutto è inesorabilmente chiuso nel passato?    

  • Guerra, clima, economia. Come sopravvivere al caos?

    Guerra, clima, economia. Come sopravvivere al caos?

    Abbiamo già definito la condizione attuale, quella che è andata definendosi dopo la pandemia da Covid-19 e la guerra di Ucraina, come la grande frammentazione. Per frammentazione psichica intendiamo la frantumazione della psiche in parti consce e inconsce, che può avvenire in seguito ad un trauma. Nella fattispecie, abbiamo detto di come la nostra opinione sui fatti del mondo sia nella sostanza ambivalente e non definitiva, e di come questa ambivalenza sia il frutto del trauma che ci ha investiti in questa fase storica. Ad esempio, qualcosa dentro di noi ci dice, a tutta prima, che dovremmo stare da una certa parte, e ne siamo assolutamente convinti. Poi, però, dopo averci pensato sù,  cominciamo a non esserne più così sicuri: qualcos’altro ci dice che potremmo stare benissimo anche dall’altra parte. Ecco, servita la frammentazione. 

    Frullato di verità e populismo

    Lo spezzettamento della verità, direi anzi, il frullato di verità, (come quello che ci viene offerto dai social network), corrisponde al frullato della nostra identità, che infatti è sempre meno definita sotto tanti punti di vista. Avete mai notato che nello sport, pensiamo al calcio, ma non solo, non esistono più i ruoli predefiniti? Oggi si dice che un difensore deve sapere fare anche il centrocampista, che l’attaccante deve avere compiti difensivi, e via dicendo. Vale lo stesso nel tennis, nel ciclismo, e così via. Nel nostro lavoro quotidiano, in cui siamo chiamati a ricoprire diversi ruoli, funziona allo stesso modo, in virtù della frammentazione delle logiche produttive, e di conseguenza delle mansioni operative. 

    Il social network è l’emblema del frullato di verità, perché per funzionare ha bisogno di un algoritmo. Se apro un social network, mi appare un elenco di stimoli che in qualche modo confermano le mie preferenze. Ma se, senza volerlo, induco l’algoritmo a propormi un contenuto affine e parzialmente alternativo, oppure è l’algoritmo stesso che decide di gettarmi sabbia negli occhi, il social network mi apparirà come un frullato di contenuti, dal gusto più o meno omogeneo, ma che non assomiglia a nessun elemento conosciuto. Ossia, avrà reso la verità come qualcosa di non afferrabile.  

    In questa nebbia, va da sé che il populismo diventi una lanterna. Il populismo è la scomposizione di un teorema in micro vignette, la soluzione di un problema complesso in poche semplici operazioni. 

    Dal caos al desiderio

    Una soluzione che parta dal basso, invece, e che investa la nebbia nel suo processo di formazione, è quella della rifondazione dell’Umanesimo. Nel discorso che interessa qui, dobbiamo dirci che la fine del desiderio, del sogno e della speranza, è la vera responsabile della disperazione contemporanea. La frammentazione psichica indotta dal trauma socio-politico che ci circonda, e il frullato della verità favorito dalle innovazioni informatiche, non vanno aggrediti con il populismo, ma con la rifondazione dell’Umanesimo. Nella fattispecie, con la rinascita del desiderio

    Sappiamo bene di come gli Italiani abbiano smesso di frequentare la chiesa, di andare a votare, e più in generale di credere nel futuro. La disperazione ci circonda a tutti i livelli, e i dati sul consumo di alcol e droghe, non fa che confermare queste considerazioni. C’è inoltre l’elemento della violenza di genere, che nasconde un grave vuoto interiore, per non dire una recrudescenza psicopatologica, a dispetto di letture sociologiche e semplicistiche. 

    L’importanza di avere qualcosa in cui credere, non è di valore unicamente spirituale (che non sarebbe comunque poco), ma identitario. Muoversi con una prospettiva metafisica, spirituale, inseguire un ideale, è qualcosa che riempie di significato ogni istante della nostra vita. Avere fiducia nella politica e nella rappresentanza democratica, per essere più espliciti, non consente solo di partecipare alla vita pubblica, fornisce anche una ragione per sperare di cambiare domani ciò che oggi non ci piace. E infatti un elettorato che diserta le urne, perché privo di fiducia nel sistema politico, è un elettorato amareggiato, senza sogni, disperato, preda, di conseguenza di suggestioni e fascinazioni. 

    Ecco perché insistiamo sulla necessità di investire in qualcosa che dia significato personale, al di là della corsa individualista all’apparire. Lo sport, l’arte, l’associazionismo, tutto quello che può farci alzare nel cuore della notte per raggiungere un meeting, una biennale, una manifestazione, è un modo per sconfiggere il vuoto interiore, e riempirlo di sogni, ambizioni, significati. In una parola, di desideri.   

  • Il bello e dannato (e anche un po’ furbo): istruzioni per l’uso

    Il bello e dannato (e anche un po’ furbo): istruzioni per l’uso

    Vorrei fare il punto su una figura piuttosto diffusa e, al tempo, fortemente distruttiva delle relazioni affettive, che potremmo chiamare il “bello e dannato”. Questo individuo tende a spargere intorno a sé un fascino seduttivo, a provocare premure e preoccupazioni, ma allo stesso tempo a minare l’autostima e la stabilità in chi lo avvicina, e in qualche modo se ne invaghisce. Questo particolare personaggio (useremo il maschile, ma non è solo maschio) ha la capacità innata di illudere, mantenersi equidistante, e infine di deludere l’altro, ma con la drammatica conseguenza di gettare scompiglio, a volte anche contro la sua stessa intenzione volontaria. 

    Sex appeal

    Il bello e dannato è un individuo appetibile dal punto di vista erotico, che appare un po’ in crisi per alcune sfortunate circostanze, e che fa capire, a chi lo avvicina, che con un piccolo aiuto potrebbe uscirne più forte di prima. Le reazioni emotive di chi cade in questa trappola, di conseguenza, si mescolano alla speranza di poterlo agganciare sentimentalmente, nella fantasia di come potrebbe essere “grazie al mio aiuto”. 

    Sovente il bello e dannato è tormentato, cerca un equilibrio che non trova, e la tendenza a mandare in confusione gli altri, non è necessariamente dolosa. La sua sofferenza lo porta, talvolta, ad abusare di alcolici o droghe, a cercare emozioni forti, ad adottare condotte rischiose, se non autolesive. È questa inquietudine che riversa sugli altri, nella ricerca (questa sì, autentica) di un catalizzatore che riesca a calmare la sua irrequietezza. 

    Le sue modalità di richiesta di aiuto, tuttavia, non sono chiare. Saltano su vari livelli, da quello amicale a quello amoroso, talvolta passando da una seduttività erotica molto forte, che gli serve, tra l’altro, per controllare la situazione. La conseguenza è che chi entra in questo vortice vive una condizione borderline, ossia è molto vicino alla meta, ma anche sull’orlo di una delusione fortissima. 

    Vittima designata

    La vittima preferita di questi soggetti è una persona che cerca delle conferme. Chi  attraversa a sua volta delle difficoltà di natura relazionale, può vedere nel bello, ma raggiungibile, un riscatto alle proprie sofferenze. La vittima ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un’occasione più unica che rara, che, se saprà sfruttare, potrà garantirgli parecchi gradi di successo: aiutare definitivamente questo individuo, conquistarlo, e sistemare, al contempo, la propria situazione sentimentale.

    Questo quadro, però è tutt’altro che auspicabile, perché si basa su uno sbilanciamento di potere, e su una seduzione psicologica. Il bello e dannato, infatti, non cerca una relazione paritaria, ma un bidone in cui svuotare tutte le sue frustrazioni. Non cerca un vero aiuto, ma ha bisogno, anzitutto, di avere saldamente in mano le redini della relazione, che può indirizzare a suo piacimento in qualunque direzione. Inoltre c’è una variabile di ulteriore vulnerabilità, rappresentata dalle compagnie. Può capitare che amici o conoscenti possano gettare benzina sul fuoco, e dare consigli sbagliati, a chi è già sopraffatto da mille dubbi. 

    Il personaggio che abbiamo definito come bello e dannato, quindi, fa leva (involontariamente?) sulle fragilità altrui. Sono queste fragilità, pertanto, che devono essere tenute sotto controllo, quando si cade nella trappola che abbiamo delineato. Ed è proprio a queste fragilità che occorre dare risposte, prima di offrire un soccorso a chi, molto probabilmente, non ha nessuna intenzione di riceverne. 

  • Studentessa e lavoratore: crescere insieme quando le strade divergono

    Studentessa e lavoratore: crescere insieme quando le strade divergono

    Un tipo di coppia che ha certamente fatto parte delle nostre vite, in maniera diretta o indiretta, è quella in cui due ragazzi che si frequentano dai tempi della scuola, prendono diverse strade di crescita. Uno continua gli studi, l’altro entra nel mondo del lavoro. Questo caso è esemplare, perché smonta la tesi romantica dell’amore come unione delle anime, al di là del background socio-economico-culturale. Ed è per questo che va usato come lente per osservare anche altre dinamiche di coppia

    Il lavoratore

    Entrare nel mondo del lavoro modifica la percezione che uno dei due ha della coppia, e devo dire istigato in questo anche dai suoi familiari. Avere un’occupazione, se non altro in una prima fase, determina indipendenza economica, maggiore libertà, possibilità di guardare al futuro in maniera progettuale. Il partner lavoratore ha quindi la possibilità di sostenere il partner studente, ma anche di averne, di conseguenza, una visione di subalternità. Se il lavoratore è la colonna della coppia, è quello più forte. 

    Il lavoratore guarda alle prossime vacanze, progetta svaghi, magari investe del denaro in una casa. Alla lunga, può cominciare a sentirsi in credito, senza dirlo. Sotto sotto possono nascere delle incomprensioni, un senso di rivalsa, “Ecco tu fai tutte queste cose grazie a me”. Il più delle volte, però, come è giusto che sia in una coppia, le energie investite sono a fondo perduto. Se faccio qualcosa per l’altra persona, non può essere nell’attesa di una sua restituzione. Così, sostenere lo studente con regali, pagando le vacanze, facendo investimenti che ricadano sulla coppia, dovrebbe essere fatto di cuore, pensando unicamente che ciò che è bene per l’altro, sarà di conseguenza anche un bene per me.  

    Lo studente

    Niente di più forzato, e, talvolta, di più illusorio. Il partner studente pensa alla sua carriera universitaria, si circonda di nuovi amici, ha tutti i giorni nuovi problemi. L’università riguarda anzitutto sé stesso, il suo futuro, la sua crescita professionale. Inevitabilmente riguarda anche l’altro, ma di riflesso. E poi durante gli studi, il mondo del lavoro sembra lontano, non se ne ha un’idea nitida, e il ventaglio di professioni possibili, modifica di molto le prospettive. 

    Lo studente affronta una scalata socio-culturale (oggi non più economica), rispetto al livello diploma che lo lega al compagno. Per questo potrebbe vedersi quasi come un eroe, e sentire che quello che gli altri gli (le) danno, è sostanzialmente dovuto. Per molti universitari, inoltre, allargare il sapere non ha la conseguenza di renderli più saggi, ma soltanto più altezzosi e arroganti. Questa cosa forse li accomuna ai colleghi di corso, e infatti nel rapporto quotidiano nessuno di loro ha mai questa percezione. Ma quando ciò è vero, il solco che si scava con il partner lavoratore è sempre più profondo e insuperabile. 

    Prospettive sovrapponibili

    Il background socio-economico-culturale, come dicevamo all’inizio, non è sempre determinante, a volte l’amore è veramente un’unione romantica di anime. Ma molto spesso no, questo non basta. Il rapporto di coppia deve basarsi anche sulla condivisione di valori, di narrazioni condivise, di prospettive sovrapponibili sulla vita e sul futuro. Crescere insieme quando le strade divergono, come nel caso che abbiamo definito della studentessa e del lavoratore, è molto pericoloso. Ci vuole intelligenza, da entrambe le parti, senso pratico e pazienza. E soprattuto la costanza di considerare sempre anche l’altro nei progetti che ogni giorno aggiorniamo riguardo noi stessi. 

  • Femminicidio: patriarcato? Disperato

    Femminicidio: patriarcato? Disperato

    Altro femminicidio, stavolta una studentessa di 21 anni. I nomi si confondono nelle statistiche, ormai è difficile persino dare un volto alle vittime e ai loro carnefici. Trovare il coraggio di guardare in faccia alla realtà, tuttavia, significa non banalizzare o semplificare il malessere che può generare tali sciagure. Viviamo una società disperata, senza sogni, e la colpa del femminicidio non può essere (solo) del patriarcato. Nella frammentazione di cui tanto abbiamo parlato, che è anche politica e sociale, oltreché psicologica, dilaga l’angoscia, il nulla (nichilismo, ancora tu!), ma quello che spaventa è quanto le giovani generazioni siano intaccate da questa devastazione.

    Disperati

    Imputare la responsabilità del femminicidio (quale: tutti? Solo alcuni?) al patriarcato, è come imputare all’automobile la responsabilità dei morti sulle strade: si resta nel giusto, senza dubbio, ma fino a quando non si scoprono morti sulle moto, sui monopattini, e così via. Il codice della strada garantisce la sicurezza totale di ogni utente, automobilisti e non, se tutti lo rispettassero non ci sarebbero problemi. Allo stesso modo dobbiamo riconoscere che i giovani italiani non hanno speranza, non hanno sogni di futuro, sono pervasi dal vuoto esistenziale, e questo si riflette nelle loro relazioni reciproche. 

    Sia chiaro che dire “i giovani” non ha di per sé nessun senso, infatti estenderei il ragionamento a tutti noi. Qui però parliamo di giovani, perché in questa fascia d’età la piaga del femminicidio è, se possibile, ancora più drammatica. Cosa spinge un ventenne ad accoltellare una coetanea che vuole lasciarlo? Quale ferita è così profonda da non poter essere rimarginata, a vent’anni? Davvero crede di non poter trovare un’altra ragazza, magari una che voglia condividere con lui più di quanto voglia fare questa, cui lui ora toglie la vita? 

    Vuoto esistenziale

    Ovviamente non abbiamo a disposizione le risposte di questi imputati, e infatti il nostro non deve essere un processo a loro come individui. Vogliamo invece interrogarci sul vuoto, sulla mancanza di visione futura, che accomuna tutta la loro generazione. Sulla speranza di poter incidere sul futuro, se vogliamo: sulla speranza di un domani migliore. 

    Sono dati comprovati che gli Italiani frequentano sempre meno la chiesa, e votano sempre in minore percentuale. Ora, quale speranza nell’avvenire può avere chi non crede in niente? Abbiamo perso la fiducia nei politici, d’accordo, ma la fiducia nella politica, ossia nella possibilità di poter dire la nostra su che mondo vorremmo, è tutt’altra cosa. Siamo una generazione apatica, sempre più chiusa in sé stessa, preda del mondo virtuale, che ci sta togliendo anche la voglia di sognare. 

    Persino i più privilegiati hanno paura: multimilionari hanno facce truci, usano termini sempre più aggressivi. E cosa dovrebbero fare i giovani? Respirano quest’aria, in cosa dovrebbero credere? E infatti in un mondo di influencer, persino OnlyFans è diventato attraente. Vediamo profonda indulgenza su quella che è pur sempre una forma di mercimonio del proprio corpo. Qualcuno si meraviglia? Assolutamente no, altro aspetto inquietante. 

    Dobbiamo perciò evitare di individuare risposte facili a questo problema complesso e drammatico. Ci aveva avvisato Michael Ende, con il suo romanzo La Storia Infinita: se saremo preda dell’angoscia e della disperazione, niente e nessuno potrà venirci a salvare dal baratro finale. E il baratro, mi sa, è dietro l’angolo.