Pensiero debole: prove di bilancio

Negli anni Ottanta, quando Gianni Vattimo propose il filtro del pensiero debole, il mondo sembrava avviato a una fase di declino delle grandi certezze. Il crollo di muri e ideologie, il tramonto delle narrazioni totalizzanti, la diffidenza nei confronti delle verità assolute: tutto questo si rifletteva in una filosofia che non pretendeva più di fondare sistemi rigidi, ma si apriva alla pluralità dei punti di vista, era “possibilista”.

Oggi, a distanza di decenni, viviamo in un’epoca che sembra muoversi in direzione opposta. Il populismo, nelle sue varie forme, predica verità indubitabili, semplificate, ridotte a slogan. Nel tumulto della geopolitica contemporanea, l’incertezza non è più vista come uno spazio di libertà e dialogo, ma come una minaccia da respingere con dogmi rassicuranti. Quale bilancio possiamo fare, allora, del pensiero debole? Cosa ne è rimasto, in questo ritorno delle garanzie autoritarie? 

Un pensiero che accoglie il diverso

Uno degli aspetti più interessanti del pensiero debole, e delle sue diverse declinazioni in psicologia e sociologia (Giorgio Girard, ad esempio), è stato il suo invito a guardare l’altro senza pregiudizi, con l’apertura mentale di chi non pretende di imporsi, ma accetta la propria versione come una delle possibili. Non che si trattasse di un relativismo nichilista, piuttosto di una forma di disincanto, una disposizione mentale, che nel riconoscere la complessità del mondo, faceva della Verità la meta di un viaggio, più che il prodotto di una pubblicità. 

In questo senso, il pensiero debole si è rivelato strumento prezioso per approcciare l’altro, il diverso da noi. Ci ha insegnato a guardarlo con dubbio, curiosità, piuttosto che paura. In un’epoca di globalizzazione turbolenta, ha aiutato a costruire ponti piuttosto che muri. 

La fragilità di fronte al ritorno dei dogmi

Tuttavia, il post modernismo ha avuto anche i suoi limiti, e con lui il pensiero debole. Ci siamo convinti che la storia fosse finita, che tutti volessero vivere all’occidentale, che la nostra scettica, ma serafica, apertura verso gli altri fosse la stessa che altri avevano verso di noi. L’11 settembre 2001 è stata la campanella che ha segnato la fine della lezione, ma l’illusione ci piaceva, e siamo andati avanti. Siamo così arrivati agli attentati di Parigi, per scoprire che no, gli altri non ridono della religione come facciamo noi. 

La rinuncia alle grandi narrazioni e la critica alle verità precostituite, hanno lasciato spazio, in breve, a nuove forme di dogmatismo. Oggi vediamo come i populismi sfruttino proprio la necessità dell’uomo di avere certezze, per potersi muoversi nel suo quotidiano. La cultura debolista degli anni Novanta bollava questo fenomeno come regressivo, ma aveva torto. In una lezione universitaria divenuta celebre, qualcuno domandò al Prof. Girard, collega e amico di Gianni Vattimo, per quale motivo la gente avesse bisogno di verità, se il pensiero debole affermava il contrario. Il docente rispose stizzito, nel brusio degli studenti, che quella era una domanda epidermica. Ecco, quella domanda epidermica oggi è diventata la nuova pelle della società, e il pensiero debole sembra sbiadire come un ricordo di gioventù.

Inoltre, la sfiducia nei confronti dei sistemi forti ha spesso portato a un indebolimento delle istituzioni democratiche. Se tutto è relativo, se ogni discorso è solo un punto di vista, allora diventa più difficile difendere principi fondamentali come i diritti umani, la libertà di espressione, la giustizia sociale,ecc… . In quegli anni andava di gran moda un’espressione, oggi sparita dalle locuzioni popolari: “Chi l’ha detto che si fa così? Dove sta scritto?” Paradossalmente, il pensiero debole ha aperto ad una maggiore tolleranza, ma ha anche lasciato spazio a narrazioni semplificate e autoritarie. Oggi, qualunque meme di Instagram afferma, qualsiasi influencer offre verità indubitabili, ogni politico sa come andrà a finire.  

Quale futuro per il pensiero debole?

Cosa può offrire, oggi, il pensiero debole? Io direi: la capacità di dubitare, senza paralizzarci, di accettare la complessità, senza cedere alla paura, di riconoscere il valore del dialogo, anche quando sarebbe più facile rifugiarsi nelle certezze assolute.

Amo ricordare la lezione di un illuminato uomo di Chiesa, che consigliò di fidarsi dei pensatori deboli, proprio perché portati, per natura, a non chiudersi a priori. Ecco, direi che questa sia la lezione migliore che si possa trarre dalla filosofia debolista. Cercare il confronto con chi la pensa diversamente da noi, piuttosto che restare nella cerchia ristretta delle nostre – rassicuranti – conoscenze.

Se il pensiero debole ci insegna a dubitare, possiamo cominciare anzitutto a dubitare delle nostre scelte strategiche. Chissà che non ci venga in mente qualche risposta davvero alternativa. 

Fine della modernità, caos globale, Intelligenza Artificiale

È più facile definire le epoche storiche a posteriori, durante il loro svolgimento, infatti, non riusciamo a coglierle nel loro insieme. Questo vale anche per le epoche individuali: arriva un giorno in cui possiamo dire con certezza che gli anni trascorsi dal tale evento della nostra vita, al talaltro, possono appartenere ad una certa fase, distinta da quella successiva. 

La fine della modernità 

Negli ultimi decenni, tuttavia, si sono susseguiti i tentativi di cogliere con definizioni il presente narrativo, con l’intento di definirne i contorni, e possibilmente di prevederne le evoluzioni. Tutte le espressioni usate, a partire dagli anni Sessanta, hanno avuto come suffisso protagonista la “modernità”. C’è stato il post moderno, all’incirca da quando Umberto Eco fondava il Gruppo 63, fino a quando Gianni Vattimo ci parla di pensiero debole. E poi c’è stato l’iper moderno, grosso modo da quando Zygmunt Bauman ha coniato la sua definizione di società liquida (idealmente possiamo pensare all’11 settembre 2001), fino alla pandemia da Covid-19. I riferimenti storici non ingannano, in quanto il possibilismo relativista del soggetto post moderno, debole, e orfano di storia, cominciò ad andare in crisi proprio in quel giorno di settembre, e non smise di farlo fino agli attentati del Bataclan, quando il populismo semplicista e generalizzante aveva ormai conquistato tutti i campi del pensare in pubblico. 

Modernità”, quindi scompariva man mano da tutti i discorsi sul nostro presente, e soprattutto da tutte le definizioni del soggetto contemporaneo. Se “moderno” era un’allusione al positivismo scientista, e l’uomo che lo abitava era certamente tecnocentrico, ma indubbiamente razionale e ottimista, il presente che stiamo cominciando a vivere è la negazione di ogni forma di modernità. E infatti non è più l’ordine, ma il caos, a imporsi in ogni campo, non è più la ragione, ma l’istinto di sopravvivenza, a dominare il dibattito pubblico, non è più la mente umana, ma la mente delle macchine (meraviglioso paradosso linguistico) a guidare la nostra azione. 

Il tempo del caos, della frammentazione, dell’identità sfocata, coincide con l’epoca dell’Intelligenza Artificiale

Finalmente la guerra: nostra vecchia passione

L’Intelligenza Artificiale (mai definizione fu più fuorviante, l’IA, o AI dall’acronimo inglese, non crea – per il momento – ma assembla), è la protagonista di questo stralcio di secolo, e definisce in maniera plastica la nostra resa nei confronti della storia. Se possiamo demandare alle macchine i ragionamenti, i calcoli, persino le diagnosi mediche, possiamo finalmente dedicarci a quanto di più umano esista al mondo: l’odio, la divisione, la guerra.  

La frammentazione psichica del soggetto occidentale, causata dall’involuzione economica, dalla crisi (per l’appunto) dei modelli culturali (arte, politica, religione), dalla perdita dell’egemonia sul resto del mondo, determina lo scivolamento verso condotte difensive arcaiche. Identificare l’identità individuale con il territorio, cosa fuorviante per definizione, regredire a forme di difesa/attacco primordiali, la paura di tutte quelle diversità che invece prima ci stimolavano e incuriosivano, definiscono l’atomizzazione della nostra psiche profonda. Ossia, ci traghettano dalla fase dell’identità liquida, in cui si poteva intuire una pur vaga parvenza di forma, ad una fase senza forma, e lo stato caotico della mente non può che essere quello psicotico

Nello stato psicotico la confusione tra interno ed esterno è totale, e di conseguenza lo è anche la confusione tra nemico interno e nemico esterno. Il paziente psicotico è quello che sente la voce del suo persecutore seguirlo ovunque, anche quando è a chilometri di distanza, è quello che vede un pericolo in tutte le persone che incontra, perché non ha imparato la differenza tra le paure che si porta dietro, e i veri pericoli del mondo, è quello che crede stiano parlando di lui, anche quando ognuno è intento a pensare alle proprie cose. 

Ancora tu: l’Umanesimo

Questa condizione esistenziale, come si vede, è quella che meglio predispone all’odio, al conflitto, alla divisione. Tutte cose in cui, noi umani, eccelliamo in massimo grado. Come uscirne? Ecco, allora, che si apre una risposta, che per ragioni di spazio qui non possiamo che accennare. L’uomo occidentale ha approfondito l’arte della guerra, e ne è maestro. Ma ha anche approfondito gli studi umanistici, e anche in questo è (stato) maestro. Questi studi umanistici, però, ad oggi, risultano un po’ datati, e sono inadatti, per dare risposte adeguate in questo caos. 

La rifondazione dell’Umanesimo è un’idea che Julia Kristeva, linguista e psicoanalista, propose a Joseph Ratzinger, nella giornata di dialogo interreligioso, appuntamento voluto da Giovanni Paolo II

Nelle due righe qui sopra c’è un progetto, vi invito a rileggerle. Umanesimo, Julia Kristeva, dialogo, Ratzinger, Giovanni Paolo II. 

La coppia, il lavoro, ma anche l’arte, la politica, e non solo, devono esser riviste, ridefinite, anzi rifondate. Questo è l’unico vero antidoto alla frammentazione del sé, alla psicosi collettiva, in definitiva, alla guerra totale. 

Ma non c’è molto tempo, il precipizio è già sotto di noi.  

I grandi della Nazionale di calcio. Roberto Baggio: Divin Codino.

Roberto Baggio è nato a Caldogno (VC) il 18 febbraio 1967. Relativamente alla sua carriera in Nazionale, oggetto di questo scritto, si potrebbe affermare che sia stato uno dei più grandi, anzi forse proprio il più grande, dei giocatori azzurri. Roberto Baggio merita questa valutazione sia a partire dalla qualità delle giocate espresse in azzurro, sia relativamente ai traguardi raggiunti. Un terzo posto a Italia 90 e un secondo posto a Usa 94, risultati che, a guardare bene, potevano essere ben altri, questione di centimetri. Infatti fu ai rigori che quelle squadre dovettero arrendersi, e quando si perde ai rigore si può ben dire che alla vittoria ci si sia andati davvero molto vicini. 

Temperamento in campo

Il Divin Codino, appellativo valsogli dall’abitudine di tenere i capelli lunghi legati con un elastico, è stato un giocatore più amato dai compagni che dagli allenatori, e, per la sua sportività, molto apprezzato anche dai tifosi avversari. In campo è stato anzitutto un leader nel compito, e ha espresso un temperamento a volte arrendevole di fronte all’aggressività altrui. La sua indole pacifica ne ha fatto un signore, come abbiamo detto, di sportività, ma anche di altruismo. Qualità, quest’ultima, ben riassunta dall’immagine di Italia 90, che lo vide lasciare a Salvatore Schillaci il rigore di Bari, rigore che permise all’attaccante siciliano di confermarsi capocannoniere del torneo. 

Roberto Baggio fece parlare molto di sé, ma soprattutto fece sognare gli appassionati italiani, e per questo ricevette una lunga serie di soprannomi e appellativi: senza dubbio frutto più dell’amore che l’ambiente riversava su di lui, che dell’invidia di pochi detrattori, di cui, si sa, il mondo del calcio è sempre stato pieno. Raffaello, Bagg10, Coniglio Bagnato, ma anche, più dispregiativamente, Filosofo, (infatti era, ed è tutt’ora, Buddista). Nessuno di questi, però, definisce meglio il suo temperamento in campo di Nove e Mezzo, affibbiatogli, con grade perfidia, da Michel Platini.

Nove e Mezzo richiamerebbe qualcosa di non compiuto totalmente, un ruolo a metà strada tra il centrocampista e il centravanti. Anche su questo, però, ci sarebbe da discutere, perché oggi, come in tutte le attività che facciamo, i classici ruoli del Novecento sono saltati, e non esistono più giocatori che si muovono soltanto in una zona del campo, o a cui sia richiesta soltanto una fase di gioco. E forse proprio per questo la storiografia calcistica dovrebbe recuperare la figura di Roberto Baggio, Nove e Mezzo, come un precursore dei tempi, più che come una via di mezzo tra il regista e l’attaccante.  

Nove e mezzo, in ogni caso, determinava oltre alla posizione, anche il suo rapporto con i compagni, con le dinamiche di gioco, e più in generale con quello che qui abbiamo chiamato il temperamento in campo. Perché questo stare un po’ qui e un po’ li, questo andare una volta con il dribbling verso il centro per cercare il tiro, e un’altra verso il fondo per fare il cross, non poteva che avere un impatto determinante, sulla squadra, sui compagni e ovviamente sugli avversari, che non avevano la benché minima idea di come fermarlo.  

Purtroppo ci pensò la fragilità del suo fisico, a fermarlo. In un’epoca in cui gli allenamenti non erano ancora pensati ad personam, e l’intera rosa faceva gli stessi esercizi, con lo stesso numero di ripetizioni. 

L’immagine presso il pubblico

Roberto Baggio è stato, come detto, amatissimo dal pubblico della Nazionale di calcio. Il gol preferito dai tifosi è stato probabilmente quello contro la Cecoslovacchia, a Italia 90, ma gli appassionati conservano del Codino un ricordo che va al di là dei gol e dei premi. 

La serenità con cui scendeva in campo, la correttezza, la dignità con cui ha attraversato i momenti bui della carriera, uniti alla determinazione e alla professionalità, hanno fatto di lui non solo una bandiera della Nazionale, ma anche un campione fuori dal campo. 

Baggio ha cambiato molte volte casacca, per questo non può essere identificato con nessuna delle grandi squadre del nostro campionato. Ma può essere identificato con la Nazionale, per la quale ha pianto e gioito. Se il pubblico ama sognare a occhi aperti, Baggio è l’uomo dei sogni del calcio italiano. 

Nella moderna, e sterile, diatriba tra tecnici, su chi sia (stato) più bravo tra Maradona e Messi, spesso si dimentica di segnalare che Maradona faceva sognare le masse. E non solo perché a quel tempo non c’erano i social media, su cui guardare e riguardare i video, ma proprio perché il suo calcio era allegria, follia geniale, gioia fanciullesca. Ecco, Roberto Baggio è stato, pur con tutt’altro carattere, il nostro Maradona: l’uomo che faceva sognare il pubblico. 

Si può aggiungere un’ultima considerazione. Umberto Eco ha sostenuto, e sono d’accordo con lui, che i romanzi, e i film, più amati sono quelli senza lieto fine. Il lieto fine è banale, scontato, non ha niente a che vedere con la vita reale. Quando l’eroe muore in battaglia, e il pubblico piange per lui, ecco che lì arriva l’effetto catartico dell’arte. Perché è lì che il pubblico sente di non essere solo. Quando l’eroe vive le sventure dell’uomo qualunque, l’uomo qualunque viene riscattato. Io penso che il rigore sbagliato a Pasadena sia l’evento che ha proiettato Baggio nella nostra memora collettiva. L’evento che ha detto agli italiani: se la vostra vita è pesante, c’è qualcuno che porta un peso ancora superiore, e questi è lui, il genio fragile del calcio. La sua sfortuna, da quel pomeriggio, ricalcando la nostra, ci consola un po’. E ci fa sentire meno soli. 

Come affrontare i colleghi arroganti?

Recentemente ho pubblicato su alcuni social network un sondaggio, nella cui domanda chiedevo: “Come affrontare i colleghi arroganti o presuntuosi?”. I risultati, che riporto di seguito, non sono stati sorprendenti, ma vanno analizzati.

Trattarli con ironia: 51 per cento 

Ignorarli: 30 per cento 

Avere un dialogo rispettoso: 16 per cento. 

Altre opzioni: 3 per cento. 

Escludendo i contatti che consigliano di ignorare queste persone, cosa evidentemente non sempre possibile, la grande maggioranza consiglia di utilizzare l’ironia, mentre una discreta percentuale pensa sia meglio trattare comunque queste persone con una certa rispettosa distanza.

Il collega timido/insicuro

Ora, queste due modalità di approccio vanno esaminate attentamente, perché non sono applicabili a tutti nello stesso modo. Possiamo riscontrare, infatti, almeno due tipi diversi di colleghi arroganti, presuntuosi, o egocentrici. Il tipo più comune è quello timido/insicuro: si tratta di quel collega che sa cosa fare, ma non sa come imporsi all’attenzione del team. 

Quesi individui possono risultare un po’ altezzosi, svalutanti, talvolta anche permalosi, ma sono complessivamente agganciabili nelle dinamiche organizzative. In questi casi l’ironia potrebbe essere un’ottima arma, perché smorza la tensione, e allo stesso tempo fa sentire l’individuo come percepito, ascoltato, preso in considerazione.  

L’ironia è molto potente nelle relazioni, saperla dominare apre tante porte. Mette chi la usa sullo stesso piano di chi ne è oggetto, contro la volontà di questi, ma lo fa bonariamente (il sarcasmo, invece, è sempre distruttivo), senza svalutare. Usare l’ironia è come dire: “Non darti tante arie, chi ti credi di essere? Anche io potrei fare di più, ma mi tocca lavorare con te. Quindi collaboriamo.” È una implicita richiesta di  alleanza. 

Il collega incompetente/in palese difficoltà  

Un altro tipo di collega arrogante è quello palesemente in difficoltà sul compito. Questi può essere manifestamente incompetente, perché privo di qualifiche o di esperienze, oppure incapace di entrare nelle logiche del team. Quando questo personaggio svaluta o è presuntuoso, non deve essere approcciato con ironia. L’ironia è ottima per sgonfiare il “pallone gonfiato”, ma è deleteria con chi è in difficoltà, perché lo fa sentire deriso. L’incompetente approcciato con ironia trova conferme alla tesi che sono tutti buoni a nulla, nonostante le loro competenze, tranne lui, che potrebbe dare lezioni soltanto attraverso il suo buon senso. 

In questi casi vale molto di più cercare un dialogo rispettoso, magari freddo e distante, privo di connotati emotivi, che possono essere sempre fraintesi. Se siamo di fronte ad un collega a cui mancano delle competenze, ricordiamo che ha pur sempre una testa pensante, e un buon pensatore può valere più di un tecnico cocciuto. 

Così trattare in maniera rispettosa un collega che (apparentemente) non ci rispetta, può avere dei risvolti inattesi. Se si sente comunque coinvolto, può abbassare le sue difese, e cominciare ad essere meno aggressivo e può socievole.   

Ci sono certamente altri tipi di colleghi arroganti, li prenderemo in considerazione in un secondo momento. Ed esamineremo in quella sede le modalità più adatte per poterli approcciare. Perché non è sempre possibile ignorarli, né tantomeno escluderli dalle dinamiche lavorative. 

L’individualismo narcisista

Nel nostro tempo è sempre più diffuso un tipo di individualismo che non ha a che vedere con la brama di potere, o con la volontà di primeggiare sugli altri, ma con una chiara pretesa di superiorità. Possiamo definire questo modo di vedere sé stessi in mezzo agli altri come “individualismo narcisista”, (o meglio, narcisistico). 

L’individualismo competitivo 

Il narcisismo è una modalità relazionale patologica, dal momento in cui la struttura di personalità di cui definisce i caratteri è considerata una formazione non adattativa. Nel linguaggio comune, non raramente si usano formule che alludono ad atteggiamenti narcisistici tutto sommato accettabili, quali ad esempio “avere un sano narcisismo”, o simili. Queste formule sono usate anche da noi “psi”, ma sappiamo bene che sono delle forzature semantiche: il narcisismo è, nella sua sostanza, qualcosa patologico, proprio perché determina l’incapacità di sintonizzarsi sulle frequenze dell’altro. 

L’individualismo sempre più estremo su cui abbiamo costruito il vivere tra i nostri simili, è cambiato nel corso del tempo. Negli anni in cui andavano ancora di moda termini come “comunismo”, “socialismo”, “collettivo”, e simili,  l’individualismo era la modalità di stare al mondo del soggetto occidentale, caratterizzato dal modello economico capitalista o competitivo. L’individualismo competitivo era intendere sé stessi come l’unica cosa importante al mondo, nonché l’unica cosa per cui valesse la pena scatenare competizioni feroci. 

Nei termini dell’individualismo competitivo possiamo certamente descrivere molti personaggi di spicco delle epoche precedenti alla nostra: i grandi imprenditori, per esempio, o i grandi leader politici dalla fama di uomini, o donne rudi, di ferro, o cose del genere. 

L’individualismo narcisista

Oggi vediamo mutuare la cifra genetica dell’individualismo, che diventa sempre più a carattere narcisistico. Il narcisismo, forma patologica molto diffusa, anche nelle sue varianti meno gravi, entra sempre più nelle nostre modalità relazionali, al punto di fondersi nell’individualismo.  

La pretesa individualista di svalutare le esigenze degli altri, in nome delle proprie, aveva una valenza economicista quando associata alla competizione capitalista, ma associata al narcisismo, determina a cascata effetti disastrosi. Il soggetto contemporaneo, come si vede ogni giorno, ha smesso di identificarsi nelle collettività o nei gruppi, e vede unicamente sé stesso come il terminale delle logiche del mondo. (Il funzionamento degli algoritmi, come abbiamo già spiegato, è uno dei fattori che rafforza questa percezione, in quanto l’algoritmo mette l’utente al centro dell’universo, ma senza dirglielo.)

Per uscire dal teorico, l’uomo di oggi ha smesso di andare a votare, pur continuando a lamentare la distanza della politica dalla propria vita. Atteggiamento massimamente narcisistico: la politica dovrebbe sapere quali siano i bisogni dei cittadini, senza che essi li segnalino tramite il voto. Questo è solo un esempio, ma po’ in tutte le attività umane vediamo diffondersi questo atteggiamento. 

La pretesa è quella di una superiorità a priori: io merito questa cosa a prescindere, non c’è neppure il bisogno di conquistarla con la competizione. Lo scivolamento dell’individualismo verso il narcisismo sta portando, per esempio, a numerose difficoltà relazionali, la cui massima esemplificazione può essere quella del rapporto con i social network, e con l’algoritmo, come abbiamo spiegato poco sopra. 

Il mio algoritmo mi abitua ogni giorno a non comunicare a nessuno le mie esigenze, perché le sa indovinare da solo. Se abbiamo un rapporto costante con il nostro smartphone, ne discende che la relazione con l’algoritmo è una delle più pervasive che intratteniamo. Ma non ne siamo totalmente consapevoli. Da qualche parte, però, è sempre attivo un confronto: nel mio rapporto con la politica, con i familiari, gli amici ecc… , chi non mi capisce come l’algoritmo, non merita la mia attenzione. 

Se l’individualismo competitivo ci aveva trasformati in tanti piccoli squali da contrattazioni di borsa, l’individualismo narcisistico ci sta trasformando in pigri egoisti, indolenti e un po’ viziati. Possiamo dire che questa sia l’unica forma di evoluzione che ci rende meno adatti ai mutamenti che stanno per arrivare.  

Liguria: vademecum per foresti

Riconosci un foresto in Liguria da come si muove, perché pare un babbano a Hogwarts. “Dove sono capitato?” sembra chiedersi ad ogni angolo. Lo vedi che si sforza di mostrare disinvoltura, ma è profondamente a disagio. “Sono tutti matti, o mi sfugge qualcosa?”. Il foresto (forestiero, in dialetto ligure) arriva in Liguria con delle aspettative irrealistiche, che logicamente finiranno illuse. L’aspetto paradossale di questo suo atteggiamento, è che raramente farebbe gli stessi errori visitando, poniamo, Venezia, Otranto o Erice. Il turista milanese, o torinese, ad esempio, in patria è abituato a parcheggiare lontano dallo stadio, dall’università o dal ristorante. Anzi, ha imparato a usare la mobilità dolce, i mezzi pubblici, persino a muoversi a piedi. Quando arriva in Liguria, invece, dà in escandescenze perché non trova parcheggio davanti alla spiaggia. O per altre cose di questo tipo. 

Ho pensato, così, a questo piccolo vademecum per foresti: per dire che anche in Liguria è necessario entrare in punta di piedi, con garbo e meraviglia. E non perché sia casa di altri, cosa che già basterebbe, ma perché è un territorio profondamente diverso da quello da cui proveniamo.

In Liguria non c’è solo il mare

La prima cosa ostica da imparare, per il foresto, è che in Liguria non c’è solo il mare. Chi arriva dalla città, sia chiaro, sogna la spiaggia. Ma soffermarsi sul mare, in Liguria, è come salire su una Ferrari e fissare il volante. Prendiamo un babbano che arrivasse a Hogwarts. Appena giunto vedrebbe anzitutto il castello, imponente e misterioso, e un sacco di gente strana aggirarsi nei suoi paraggi. Ma se non sapesse nulla del Mondo Magico, del Lago Nero, o non avesse mai sentito nominare Harry Potter, ne avrebbe certamente un’esperienza parziale, vuota, se non del tutto deludente. Allo stesso modo, vivere la Liguria non è unicamente frequentare le sue spiagge: il rapporto con il mare è solo una parte della cultura ligure. Direi di più, è una parte dell’identità profonda dei suoi abitanti. Che infatti continuiamo a non capire, se confondiamo per il tutto, cioè che è solamente uno dei loro confini. 

Il cosiddetto entroterra è ricco di sorprese di ogni tipo, soprattutto dal punto di vista culturale, artistico ed enogastronomico. Dalle grotte carsiche ai musei paleontologici, dai campi da golf a borghi infestati dalle streghe, per non dire dell’antica cultura dell’ulivo e dell’olio. Tutti questi sono aspetti che determinano la personalità, l’identità della Liguria, e di conseguenza anche dei suoi abitanti. 

E poi c’è la grande storia delle invasioni saracene, su cui torneremo fra poco. Ignorare questa pagina drammatica della storia, è il peggior delitto che possa compiere il foresto verso questa regione.  

I liguri detestano il caos

Il foresto milanese, o torinese, è per sua natura abituato a muoversi nel traffico, nella ressa, nel caos. Noi viviamo in circoscrizioni di 150 mila abitanti: ci spintoniamo per entrare in metropolitana, arriviamo alle mani per un parcheggio, facciamo la fila alla domenica per entrare in pasticceria. Tutto questo è sconosciuto a chi vive in miti cittadine di tre/quattromila abitanti. In alcuni paesi di Liguria ci si conosce tutti, per le strade non c’è mai nessuno, e quando vedi un’auto bianca laggiù, svoltare in una certa direzione, hai già capito che si tratta di Tizio che va a trovare Caio. 

Non è corretto dire che i liguri non siano accoglienti: piuttosto, detestano il caos. Immaginate la vostra città gonfiarsi di dieci volte (queste le proporzioni del turismo secondo le autorità) per due mesi all’anno: diciamo una Milano con trenta milioni di persone. La Liguria viene invasa in un periodo in cui fa caldo, e a tutti darebbe fastidio avere addosso gente sconosciuta, per giunta piena di pretese. 

Una di queste pretese, direi incredibile, è quella del parcheggio. Perché anche questa è una bella discrasia psicologica. Il turista pretende di arrivare in una città di poche migliaia di anime, e trovare parcheggi multipiano in riva al mare, adibiti per migliaia di automobili. E non solo una volta la giorno. Al mattino, per andare in spiaggia. Al pomeriggio, per l’aperitivo. E anche alla sera, per il gelato sul dondolo vista mare, come se anche tutti gli altri non avessero lo stesso desiderio. 

Per tornare all’esempio di Hogwarts, pensiamo al babbano, che abituato allo stadio si trovi, suo malgrado, ad una partita di Quiddich. Nel comprendere le situazioni, la cornice mentale è estremamente importante. Se qualcosa avviene in una cornice diversa dalla nostra, stentiamo a comprenderla. Come il babbano non ci capirebbe niente, non ci si raccapezzerebbe, allo stesso modo il foresto in Liguria stenta a comprendere il rapporto con gli spazi, che per lui è molto diverso.   

Inoltre c’è un aspetto culturale profondo, che nessuno tiene in debito conto. Alcuni borghi di Liguria sono stati vittime, nella storia, di svariate invasioni da parte dei corsari turchi e saraceni. Arrivavano di notte dal mare, mettevano a ferro e fuoco la città, rapivano gli uomini valorosi e le ragazze più giovani. Qualcuno può immaginare il terrore in cui vivevano le popolazioni colpite da simili episodi? I racconti, le leggende, che questi eventi hanno originato? I rapporti difficili con Genova, che avrebbe dovuto difenderli e non l’ha fatto, e tutta la coda di odio che possiamo soltanto supporre. Avere nella propria storia traumi di questo tipo, deve rendere piuttosto sensibili alle invasioni, per quanto benevole possano essere. 

I paguri non sono d’allevamento

Generazioni di bambini foresti sono cresciute con la pesca sportiva nelle acque liguri. 

Orate, cernie, scorfani, ma anche granchi, polpi, stelle di mare, e, naturalmente, paguri. Ora, avete mai visto un babbano a Hogwarts staccare un ritratto parlante per portarselo a casa? Ecco, la sensazione è un po’ la stessa. I quadri parlanti della saga Harry Potter non sono appesi ai muri della scuola per compiacere i visitatori, ma hanno una precisa ragione. Inoltre, nessuno ha mai lontanamente pensato di potarseli via. Allo stesso modo, la fauna marina della Liguria non è d’allevamento, non serve per aiutare il turista a fare colpo sulle ragazze. 

La pesca sportiva non è proibita, sia chiaro, l’hanno praticata un po’ tutti. Ma anche questo elemento del turismo andrebbe modulato ai volumi di afflusso. Perché la pesca massiva può portare a sbilanciamenti nelle popolazioni ittiche. Oggi siamo più consapevoli in tutte le cose che facciamo, dai trasporti all’alimentazione, dall’uso delle plastiche al consumo dell’acqua. Così anche il turismo può diventare più “responsabile”, basta provare a riflettere su comportamenti che un tempo non avevano nessuna ragione di essere messi in dubbio.  

Ecco, questo può essere un breve vademecum per affrontare la Liguria in maniera più ragionevole. E uscire da quella goffaggine tipica che prende il babbano, quando scende dall’omonimo Espresso, e raggiunge il grande castello di Hogwarts. 

Os Beatles Now and then: o fim dos tempos

A última canção dos Beatles – Now and then – dissolve a relação que liga a obra de arte à representação do tempo. Parece-nos, de facto, uma obra suspensa entre as eras que a marcam, e que usa a música, que é o tempo, para confundir referências temporais aos ouvintes.

O Tempo da Criação

Com De vez em quando os Beatles quebram todas as referências clássicas que ligam uma obra ao tempo, e dão-nos uma obra que é ao mesmo tempo uma grande ilusão psicodélica, um monumento à civilização virtual, uma sessão psicanalítica em associações livres. 

Comecemos pela criação. Da gestação ao nascimento do Agora e Depois, a cronologia biológica evapora-se. John Lennon gravou a demo em 1977, mas desde então tantos acidentes intervieram, que é impossível conectar o conteúdo dessa fita com o arquivo publicado pelas redes sociais em 2 de novembro de 2023. 

Vamos olhar mais de perto. Em 1995, um reencontro histórico, os restantes rapazes do Liverpool trabalharam em algumas canções que Lennon tinha deixado numa fita, incluindo Now and then. Os três lançaram duas faixas, conhecemo-lo bem, mas descartaram a terceira, a que estava em causa: a voz de João estava misturada ao piano, o resultado não os convenceu. Dessas sessões, no entanto, restam arpejos, acordes, linhas de baixo, das quais os três não se livram. Essas sessões devem ser inseridas no tempo da criação do Agora e Depois? E se assim for, ainda estamos a falar da canção concebida por João, ou de outra coisa, suspensa entre passado e futuro? 

Além disso, existe um passo intermédio, que é tudo menos negligenciável. Na com as gravuras estava escrito “para Paulo”, mas Lennon nunca a enviou ao amigo. Foi Yoko Ono quem deu a fita a Macca, meses depois da morte de John. Então vamos ver um pouco, Yoko Ono um dia no Edifício Dakota abre uma gaveta, encontra a fita, lê que é para Paul McCartney. O que faz a Viúva Lennon? Se seguisse o seu primeiro instinto, ao ver esse nome entraria em fúria, destruiria tudo e boa noite ao balde. Mas não, Yoko tem um suspiro, morde os lábios, abre a porta para os fantasmas do passado. Ela deixa passar algum tempo, Yoko Ono, e finalmente telefona para Paul. 

Sem contar que a fita poderia facilmente ter se perdido, o tormento interior de Yoko Ono e seu gesto entram no tempo da criação. De facto, devemos admitir que a dissolvem: porque sem essa fase a canção nunca teria visto a luz do dia. A escolha de Yoko, portanto, está fora das linhas do tempo criativas usuais, vai além delas, ou melhor, as lasca. 

Vamos a tempos mais recentes, estamos em 2022: Paul McCartney e a sua equipa têm novos programas de computador, sentem que o trabalho ainda não terminou, voltam à pista antiga. Com inteligência artificial conseguem isolar a voz de Lennon do piano, “cristalina”, diz Sir Paul incrédulo: o problema de 95 está superado! O canteiro de obras reabre, mas enquanto isso Harrison não está mais lá. Não importa, há os vídeos de 95, os arpejos, os acordes. Há desenhos de George, sua esposa concorda, eles serão bons para a capa. O baixo pode ressoar, Ringo é um mago nos coros, e depois há as coisas, muito: e por isso será Paul a fazer um solo de guitarra, ao estilo de George Harrison. Eh, quanta confusão! O trabalho está terminado, vamos dar uma olhada mais de perto: a voz é de Lennon, mas a música está lá a mando de Yoko, está lá graças à IA que separa as faixas, e graças ao fato de que na agitação de 8 de dezembro não se perdeu. Harrison está lá graças aos vídeos de 95, graças aos desenhos dados por sua esposa e graças ao talento de Paul. Quando o single sai é o dia dos mortos, e não é coincidência: de vez em quando vem do além, mais do que daqui. É por isso que podemos verdadeiramente dizer que é uma peça intemporal: é impossível recompor as fases da sua criação, a não ser dizendo que foi precisamente o Tempo, como um todo, que a entregou a nós. 

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De vez em quando: mas quando exatamente?

“Era uma vez, há muito tempo…” Foi assim que começaram os contos de fadas. A literatura define o tempo narrativo de várias maneiras, às vezes de forma mais explícita, às vezes menos, mas geralmente sempre com um curso linear. O príncipe Andreij ama secretamente Natasha, na época das guerras napoleônicas, o casamento de Renzo e Lucia não deve ser feito, na época da peste, Pisa é a reprovação do povo itálico, na época do conde Ugolino. Quer tenha sido há muito tempo, sem qualquer outra indicação, quer tenha sido precisamente no tempo de Napoleão, Dom Abbondio ou Dante, a história que se conta tem um antes, um durante, um depois. No máximo, como em alguns filmes de mistério, será capaz de contar um ou mais flashbacks, mas sempre dentro de um fragmento espaço-tempo definido. 

O artigo completo no site: www.fabioconvertino.it

Nuovi problemi sessuali: paura del corpo, della competizione e del politicamente scorretto.

Nella mia pratica quotidiana incontro sempre più frequentemente problemi sessuali, anche di forme diverse rispetto a quelle, per così dire, tradizionali. Disfunzioni erettili occasionali o episodi di eiaculazione precoce per gli uomini, difficoltà legate all’orgasmo o perdita dell’interesse sessuale per le donne, ecc… . 

La paura del corpo e il politicamente corretto

Una delle ragioni di quella che possiamo definire un’involuzione delle dinamiche relazionali, è certamente l’ondata di terrore per il corpo che si è propagata nel post pandemia da Covid-19. Le tecnologie oggi consentono relazioni asettiche, con scambio istantaneo di immagini e video privati, che alla lunga creano una bolla di comfort informatico. Da un lato, questi scambi mettono al riparo da rischi di contagio che inevitabilmente la prossimità umana comporta. Dall’altro, vediamo che il contatto in presenza non è più necessariamente l’inizio di una relazione, ma talvolta il passo successivo a scambi di messaggi, foto o video andati a buon fine. Così avviene che per alcuni il passaggio al corpo, e al corporeo, è una prova dei fatti (declamati,  millantati?) non facile da sostenere.  

E poi c’è la concomitante esplosione (sacrosanta) del politicamente corretto. Se da un lato, finalmente, tutti si sentono meno autorizzati a fare quelle odiose battute a doppio senso, quelle allusioni viscide, che da sempre mettono in imbarazzo non solo chi ne è il bersaglio, il rovescio della medaglia è un raffreddamento generale della self confidence. I più timidi (di ogni genere) possono sentirsi sotto esame ogni volta che fanno qualche approccio, e più in generale possono percepire su di sé giudizi o aspettative che un tempo non si pensava di avere. 

Fuga dalla competizione

Ad un livello più profondo, i nuovi problemi legati alla relazione, e che si manifestano soprattutto nell’attività sessuale, sono associati ad una sempre maggiore difficoltà di entrare in competizione. Vediamo comunemente, ormai, condotte di evitamento attivo della competizione, in ogni ambito della vita del nostro Paese. I politici in crisi di consensi cambiano partito, anziché impegnarsi a recuperare voti con quello a cui sono iscritti. Sportivi professionisti chiedono ai procuratori di cambiare società o campionato, quando sentono di non avere fiducia da parte dell’ambiente, anziché mettersi di impegno per mostrare il loro valore. E via di questo passo. 

La tendenza a pretendere a priori un certo tipo di riconoscimento, prima ancora di aver dimostrato di meritarlo, è parte di molti atteggiamenti che a vario titolo abbiamo definito egocentrici, egoistici, individualistici, narcisistici ecc… . Ossia atteggiamenti di chi non è disposto a conquistare qualcosa, perché ritiene gli sia dovuta. 

Se nella coppia in una crisi questo può portare, nei casi più gravi, a scontri violenti, nella coppia in divenire può definire difficoltà sul piano sessuale. Perché devo impegnarmi a fare qualcosa che mi è dovuta? Perché devo raggiungere, conquistare, sedurre? L’intimità necessita di un certo impegno, ma probabilmente non tutti lo sanno. Anche di questo si parla sempre troppo poco, e, malauguratamente, anche sempre troppo a vanvera. 

Tiki-Taka e autolesionismo

Hanno fatto il giro del mondo le immagini di Pep Guardiola, allenatore del Manchester City, e guru mondiale del Tiki-Taka, vittima di piccoli gesti autolesivi

I benpensanti hanno subito accusato il famoso personaggio di non essere pago della sua fortuna, ma si sa, e proprio qui vediamo che non è una frase fatta, i soldi, di per sé, non danno la felicità. Nell’impossibilità di commentare i comportamenti e la psiche di Guardiola, perché non è mio paziente, e anche nel caso non avrei certo potuto farlo, vorrei però fare alcune riflessioni sulla rabbia, l’aggressività e l’autolesionismo

Aggressività passiva

Il famoso allenatore ci racconta una cosa molto chiaramente. A tutti i livelli è bene sviluppare una buona consapevolezza della nostra parte oscura, e trovare vie adeguate di espressione e manifestazione di rabbia e aggressività. Perché l’autolesionismo è una modalità estrema di espressione di queste emozioni, e soprattuto individua in noi stessi il colpevole di qualcosa di terribile. Qualcosa per cui meritiamo una punizione. 

Ognuno di noi ha una certa quota di arrabbiature quotidiane, e il modo in cui le superiamo fa la differenza sull’andamento della nostra giornata. 

Una modalità poco conosciuta di espressione della rabbia è l’aggressività passiva. Ci sono situazioni in cui siamo contenuti, bloccati, ma gettiamo saette con gli occhi, o con battute al veleno. Oppure ancora con sarcasmo pungente, colpendo persone che non hanno nessuna colpa. L’aggressività passiva è un modo molto disadattativo di superare la tensione. 

Autolesionismo

Un modo ancora peggiore, è l’autolesionismo. Colpire noi stessi significa anzitutto riconoscere di non essere adeguati alla sfida che stiamo affrontando, perché una sfida non ci può destabilizzare così profondamente. Ma soprattutto significa ammettere di essere stati talmente cattivi da meritare una punizione. 

Pep Guardiola ha confessato un piccolo gesto autolesivo, quello di ferirsi lievemente la fronte con le unghie, per sua fortuna è al riparo da gesti più eclatanti. Ma alcuni individui arrivano a graffiarsi violentemente il viso, a procurarsi tagli sulle braccia, a sfidare la morte in gare pericolose, o anche di peggio. Ciascuno di noi deve avere un buon rapporto con la sua rabbia, viverla ed esprimerla in termini adeguati e non distruttivi. In fin dei conti la rabbia ci racconta qualcosa di noi stessi, ci dice che siamo insoddisfatti, e capire dove e come lo siamo, non è cosa da poco. 

Sadismo e Tiki-Taka

Resta un altro step, quello sportivo. Qualcuno mi ha persino chiesto se il Tiki-Taka non sia, in fondo, una modalità di gioco passivo aggressiva, in cui l’avversario viene sfinito, quasi deriso, senza una vera logica razionale, una sorta di perversione sadica? È una domanda a cui non so rispondere, perché esula dall’ambito della psicologia sportiva. 

Posso dire, invece, che ogni forma di arte, ogni filosofia, ogni concezione estetica assomigliano intimamente a chi le ha ideate. E sono amate anche da chi, in qualche modo ci si rivede. Ma di questo parleremo in un’altra sede. 

Come riconoscere la depressione “sotto soglia”?

Depressione” è uno di quei termini entrati nel linguaggio comune che a volte vengono utilizzati in maniera impropria: ad esempio per spiegare situazioni, condizioni, o stati d’animo, che non necessariamente identificano la patologia psichiatrica cui si riferiscono. 

Depressione sotto soglia

Avviene così che uno studente possa dire di essere un po’ depresso dopo la bocciatura ad un esame, che un economista possa definire depresse alcune aree del mondo, o che uno storico possa riconoscere come depressi gli inglesi dopo il referendum per la Brexit. Espressioni, queste, che potrebbero essere enunciate anche in altri modi, senza scomodare le categorie della salute mentale. 

Di conseguenza a quest’uso talvolta non appropriato della terminologia “psy”, può avvenire anche la situazione inversa, ossia che un individuo viva uno stato che nella sostanza è depressivo, ma che non viene riconosciuto come tale. Una condizione che ricalchi gli aspetti psichici, ma non i sintomi clinici della depressione, invece, può comunque essere considerata una depressione sotto soglia

Può avvenire, ad esempio, che un individuo attivo, impegnato, e con tanti amici, viva una lunga fase di involuzione. Oppure che uno sportivo entri in un tunnel di tedio, che pur senza inchiodarlo al letto, lo rallenti facendogli sentire tutto estremamente pesante. Oppure ancora, che un individuo per il resto sano, diventi improvvisamente inappetente, malinconico, non interessato alla vita sessuale. 

Sogni, film, romanzi, ci parlano del nostro vuoto

La depressione sotto soglia è una condizione in cui i sintomi clinici più importanti sono tutto sommato compensati, mentre il soggetto vive comunque un senso di vuoto, di inutilità o di tristezza. Questi possono emergere, per esempio, nei sogni, o nei film che sceglie di guardare, o nei romanzi che decide di leggere. 

L’insonnia è un indicatore molto importante, lo sappiamo, perché quando dormiamo le difese razionali si abbassano. Ma anche gli interessi artistici lo sono, perché nell’arte sentiamo riverberare cose che a livello razionale fatichiamo a dire. 

Essere attratti esclusivamente da un certo genere di film, di romanzi, o di musica, (l’horror, per esempio, o il death metal), è certamente un indicatore di disposizioni individuali molto marcate, che sarebbe utile non derubricare a priori a meri gusti artistici.  

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