Come affrontare i colleghi arroganti?

Recentemente ho pubblicato su alcuni social network un sondaggio, nella cui domanda chiedevo: “Come affrontare i colleghi arroganti o presuntuosi?”. I risultati, che riporto di seguito, non sono stati sorprendenti, ma vanno analizzati.

Trattarli con ironia: 51 per cento 

Ignorarli: 30 per cento 

Avere un dialogo rispettoso: 16 per cento. 

Altre opzioni: 3 per cento. 

Escludendo i contatti che consigliano di ignorare queste persone, cosa evidentemente non sempre possibile, la grande maggioranza consiglia di utilizzare l’ironia, mentre una discreta percentuale pensa sia meglio trattare comunque queste persone con una certa rispettosa distanza.

Il collega timido/insicuro

Ora, queste due modalità di approccio vanno esaminate attentamente, perché non sono applicabili a tutti nello stesso modo. Possiamo riscontrare, infatti, almeno due tipi diversi di colleghi arroganti, presuntuosi, o egocentrici. Il tipo più comune è quello timido/insicuro: si tratta di quel collega che sa cosa fare, ma non sa come imporsi all’attenzione del team. 

Quesi individui possono risultare un po’ altezzosi, svalutanti, talvolta anche permalosi, ma sono complessivamente agganciabili nelle dinamiche organizzative. In questi casi l’ironia potrebbe essere un’ottima arma, perché smorza la tensione, e allo stesso tempo fa sentire l’individuo come percepito, ascoltato, preso in considerazione.  

L’ironia è molto potente nelle relazioni, saperla dominare apre tante porte. Mette chi la usa sullo stesso piano di chi ne è oggetto, contro la volontà di questi, ma lo fa bonariamente (il sarcasmo, invece, è sempre distruttivo), senza svalutare. Usare l’ironia è come dire: “Non darti tante arie, chi ti credi di essere? Anche io potrei fare di più, ma mi tocca lavorare con te. Quindi collaboriamo.” È una implicita richiesta di  alleanza. 

Il collega incompetente/in palese difficoltà  

Un altro tipo di collega arrogante è quello palesemente in difficoltà sul compito. Questi può essere manifestamente incompetente, perché privo di qualifiche o di esperienze, oppure incapace di entrare nelle logiche del team. Quando questo personaggio svaluta o è presuntuoso, non deve essere approcciato con ironia. L’ironia è ottima per sgonfiare il “pallone gonfiato”, ma è deleteria con chi è in difficoltà, perché lo fa sentire deriso. L’incompetente approcciato con ironia trova conferme alla tesi che sono tutti buoni a nulla, nonostante le loro competenze, tranne lui, che potrebbe dare lezioni soltanto attraverso il suo buon senso. 

In questi casi vale molto di più cercare un dialogo rispettoso, magari freddo e distante, privo di connotati emotivi, che possono essere sempre fraintesi. Se siamo di fronte ad un collega a cui mancano delle competenze, ricordiamo che ha pur sempre una testa pensante, e un buon pensatore può valere più di un tecnico cocciuto. 

Così trattare in maniera rispettosa un collega che (apparentemente) non ci rispetta, può avere dei risvolti inattesi. Se si sente comunque coinvolto, può abbassare le sue difese, e cominciare ad essere meno aggressivo e può socievole.   

Ci sono certamente altri tipi di colleghi arroganti, li prenderemo in considerazione in un secondo momento. Ed esamineremo in quella sede le modalità più adatte per poterli approcciare. Perché non è sempre possibile ignorarli, né tantomeno escluderli dalle dinamiche lavorative. 

L’individualismo narcisista

Nel nostro tempo è sempre più diffuso un tipo di individualismo che non ha a che vedere con la brama di potere, o con la volontà di primeggiare sugli altri, ma con una chiara pretesa di superiorità. Possiamo definire questo modo di vedere sé stessi in mezzo agli altri come “individualismo narcisista”, (o meglio, narcisistico). 

L’individualismo competitivo 

Il narcisismo è una modalità relazionale patologica, dal momento in cui la struttura di personalità di cui definisce i caratteri è considerata una formazione non adattativa. Nel linguaggio comune, non raramente si usano formule che alludono ad atteggiamenti narcisistici tutto sommato accettabili, quali ad esempio “avere un sano narcisismo”, o simili. Queste formule sono usate anche da noi “psi”, ma sappiamo bene che sono delle forzature semantiche: il narcisismo è, nella sua sostanza, qualcosa patologico, proprio perché determina l’incapacità di sintonizzarsi sulle frequenze dell’altro. 

L’individualismo sempre più estremo su cui abbiamo costruito il vivere tra i nostri simili, è cambiato nel corso del tempo. Negli anni in cui andavano ancora di moda termini come “comunismo”, “socialismo”, “collettivo”, e simili,  l’individualismo era la modalità di stare al mondo del soggetto occidentale, caratterizzato dal modello economico capitalista o competitivo. L’individualismo competitivo era intendere sé stessi come l’unica cosa importante al mondo, nonché l’unica cosa per cui valesse la pena scatenare competizioni feroci. 

Nei termini dell’individualismo competitivo possiamo certamente descrivere molti personaggi di spicco delle epoche precedenti alla nostra: i grandi imprenditori, per esempio, o i grandi leader politici dalla fama di uomini, o donne rudi, di ferro, o cose del genere. 

L’individualismo narcisista

Oggi vediamo mutuare la cifra genetica dell’individualismo, che diventa sempre più a carattere narcisistico. Il narcisismo, forma patologica molto diffusa, anche nelle sue varianti meno gravi, entra sempre più nelle nostre modalità relazionali, al punto di fondersi nell’individualismo.  

La pretesa individualista di svalutare le esigenze degli altri, in nome delle proprie, aveva una valenza economicista quando associata alla competizione capitalista, ma associata al narcisismo, determina a cascata effetti disastrosi. Il soggetto contemporaneo, come si vede ogni giorno, ha smesso di identificarsi nelle collettività o nei gruppi, e vede unicamente sé stesso come il terminale delle logiche del mondo. (Il funzionamento degli algoritmi, come abbiamo già spiegato, è uno dei fattori che rafforza questa percezione, in quanto l’algoritmo mette l’utente al centro dell’universo, ma senza dirglielo.)

Per uscire dal teorico, l’uomo di oggi ha smesso di andare a votare, pur continuando a lamentare la distanza della politica dalla propria vita. Atteggiamento massimamente narcisistico: la politica dovrebbe sapere quali siano i bisogni dei cittadini, senza che essi li segnalino tramite il voto. Questo è solo un esempio, ma po’ in tutte le attività umane vediamo diffondersi questo atteggiamento. 

La pretesa è quella di una superiorità a priori: io merito questa cosa a prescindere, non c’è neppure il bisogno di conquistarla con la competizione. Lo scivolamento dell’individualismo verso il narcisismo sta portando, per esempio, a numerose difficoltà relazionali, la cui massima esemplificazione può essere quella del rapporto con i social network, e con l’algoritmo, come abbiamo spiegato poco sopra. 

Il mio algoritmo mi abitua ogni giorno a non comunicare a nessuno le mie esigenze, perché le sa indovinare da solo. Se abbiamo un rapporto costante con il nostro smartphone, ne discende che la relazione con l’algoritmo è una delle più pervasive che intratteniamo. Ma non ne siamo totalmente consapevoli. Da qualche parte, però, è sempre attivo un confronto: nel mio rapporto con la politica, con i familiari, gli amici ecc… , chi non mi capisce come l’algoritmo, non merita la mia attenzione. 

Se l’individualismo competitivo ci aveva trasformati in tanti piccoli squali da contrattazioni di borsa, l’individualismo narcisistico ci sta trasformando in pigri egoisti, indolenti e un po’ viziati. Possiamo dire che questa sia l’unica forma di evoluzione che ci rende meno adatti ai mutamenti che stanno per arrivare.  

Liguria: vademecum per foresti

Riconosci un foresto in Liguria da come si muove, perché pare un babbano a Hogwarts. “Dove sono capitato?” sembra chiedersi ad ogni angolo. Lo vedi che si sforza di mostrare disinvoltura, ma è profondamente a disagio. “Sono tutti matti, o mi sfugge qualcosa?”. Il foresto (forestiero, in dialetto ligure) arriva in Liguria con delle aspettative irrealistiche, che logicamente finiranno illuse. L’aspetto paradossale di questo suo atteggiamento, è che raramente farebbe gli stessi errori visitando, poniamo, Venezia, Otranto o Erice. Il turista milanese, o torinese, ad esempio, in patria è abituato a parcheggiare lontano dallo stadio, dall’università o dal ristorante. Anzi, ha imparato a usare la mobilità dolce, i mezzi pubblici, persino a muoversi a piedi. Quando arriva in Liguria, invece, dà in escandescenze perché non trova parcheggio davanti alla spiaggia. O per altre cose di questo tipo. 

Ho pensato, così, a questo piccolo vademecum per foresti: per dire che anche in Liguria è necessario entrare in punta di piedi, con garbo e meraviglia. E non perché sia casa di altri, cosa che già basterebbe, ma perché è un territorio profondamente diverso da quello da cui proveniamo.

In Liguria non c’è solo il mare

La prima cosa ostica da imparare, per il foresto, è che in Liguria non c’è solo il mare. Chi arriva dalla città, sia chiaro, sogna la spiaggia. Ma soffermarsi sul mare, in Liguria, è come salire su una Ferrari e fissare il volante. Prendiamo un babbano che arrivasse a Hogwarts. Appena giunto vedrebbe anzitutto il castello, imponente e misterioso, e un sacco di gente strana aggirarsi nei suoi paraggi. Ma se non sapesse nulla del Mondo Magico, del Lago Nero, o non avesse mai sentito nominare Harry Potter, ne avrebbe certamente un’esperienza parziale, vuota, se non del tutto deludente. Allo stesso modo, vivere la Liguria non è unicamente frequentare le sue spiagge: il rapporto con il mare è solo una parte della cultura ligure. Direi di più, è una parte dell’identità profonda dei suoi abitanti. Che infatti continuiamo a non capire, se confondiamo per il tutto, cioè che è solamente uno dei loro confini. 

Il cosiddetto entroterra è ricco di sorprese di ogni tipo, soprattutto dal punto di vista culturale, artistico ed enogastronomico. Dalle grotte carsiche ai musei paleontologici, dai campi da golf a borghi infestati dalle streghe, per non dire dell’antica cultura dell’ulivo e dell’olio. Tutti questi sono aspetti che determinano la personalità, l’identità della Liguria, e di conseguenza anche dei suoi abitanti. 

E poi c’è la grande storia delle invasioni saracene, su cui torneremo fra poco. Ignorare questa pagina drammatica della storia, è il peggior delitto che possa compiere il foresto verso questa regione.  

I liguri detestano il caos

Il foresto milanese, o torinese, è per sua natura abituato a muoversi nel traffico, nella ressa, nel caos. Noi viviamo in circoscrizioni di 150 mila abitanti: ci spintoniamo per entrare in metropolitana, arriviamo alle mani per un parcheggio, facciamo la fila alla domenica per entrare in pasticceria. Tutto questo è sconosciuto a chi vive in miti cittadine di tre/quattromila abitanti. In alcuni paesi di Liguria ci si conosce tutti, per le strade non c’è mai nessuno, e quando vedi un’auto bianca laggiù, svoltare in una certa direzione, hai già capito che si tratta di Tizio che va a trovare Caio. 

Non è corretto dire che i liguri non siano accoglienti: piuttosto, detestano il caos. Immaginate la vostra città gonfiarsi di dieci volte (queste le proporzioni del turismo secondo le autorità) per due mesi all’anno: diciamo una Milano con trenta milioni di persone. La Liguria viene invasa in un periodo in cui fa caldo, e a tutti darebbe fastidio avere addosso gente sconosciuta, per giunta piena di pretese. 

Una di queste pretese, direi incredibile, è quella del parcheggio. Perché anche questa è una bella discrasia psicologica. Il turista pretende di arrivare in una città di poche migliaia di anime, e trovare parcheggi multipiano in riva al mare, adibiti per migliaia di automobili. E non solo una volta la giorno. Al mattino, per andare in spiaggia. Al pomeriggio, per l’aperitivo. E anche alla sera, per il gelato sul dondolo vista mare, come se anche tutti gli altri non avessero lo stesso desiderio. 

Per tornare all’esempio di Hogwarts, pensiamo al babbano, che abituato allo stadio si trovi, suo malgrado, ad una partita di Quiddich. Nel comprendere le situazioni, la cornice mentale è estremamente importante. Se qualcosa avviene in una cornice diversa dalla nostra, stentiamo a comprenderla. Come il babbano non ci capirebbe niente, non ci si raccapezzerebbe, allo stesso modo il foresto in Liguria stenta a comprendere il rapporto con gli spazi, che per lui è molto diverso.   

Inoltre c’è un aspetto culturale profondo, che nessuno tiene in debito conto. Alcuni borghi di Liguria sono stati vittime, nella storia, di svariate invasioni da parte dei corsari turchi e saraceni. Arrivavano di notte dal mare, mettevano a ferro e fuoco la città, rapivano gli uomini valorosi e le ragazze più giovani. Qualcuno può immaginare il terrore in cui vivevano le popolazioni colpite da simili episodi? I racconti, le leggende, che questi eventi hanno originato? I rapporti difficili con Genova, che avrebbe dovuto difenderli e non l’ha fatto, e tutta la coda di odio che possiamo soltanto supporre. Avere nella propria storia traumi di questo tipo, deve rendere piuttosto sensibili alle invasioni, per quanto benevole possano essere. 

I paguri non sono d’allevamento

Generazioni di bambini foresti sono cresciute con la pesca sportiva nelle acque liguri. 

Orate, cernie, scorfani, ma anche granchi, polpi, stelle di mare, e, naturalmente, paguri. Ora, avete mai visto un babbano a Hogwarts staccare un ritratto parlante per portarselo a casa? Ecco, la sensazione è un po’ la stessa. I quadri parlanti della saga Harry Potter non sono appesi ai muri della scuola per compiacere i visitatori, ma hanno una precisa ragione. Inoltre, nessuno ha mai lontanamente pensato di potarseli via. Allo stesso modo, la fauna marina della Liguria non è d’allevamento, non serve per aiutare il turista a fare colpo sulle ragazze. 

La pesca sportiva non è proibita, sia chiaro, l’hanno praticata un po’ tutti. Ma anche questo elemento del turismo andrebbe modulato ai volumi di afflusso. Perché la pesca massiva può portare a sbilanciamenti nelle popolazioni ittiche. Oggi siamo più consapevoli in tutte le cose che facciamo, dai trasporti all’alimentazione, dall’uso delle plastiche al consumo dell’acqua. Così anche il turismo può diventare più “responsabile”, basta provare a riflettere su comportamenti che un tempo non avevano nessuna ragione di essere messi in dubbio.  

Ecco, questo può essere un breve vademecum per affrontare la Liguria in maniera più ragionevole. E uscire da quella goffaggine tipica che prende il babbano, quando scende dall’omonimo Espresso, e raggiunge il grande castello di Hogwarts. 

Os Beatles Now and then: o fim dos tempos

A última canção dos Beatles – Now and then – dissolve a relação que liga a obra de arte à representação do tempo. Parece-nos, de facto, uma obra suspensa entre as eras que a marcam, e que usa a música, que é o tempo, para confundir referências temporais aos ouvintes.

O Tempo da Criação

Com De vez em quando os Beatles quebram todas as referências clássicas que ligam uma obra ao tempo, e dão-nos uma obra que é ao mesmo tempo uma grande ilusão psicodélica, um monumento à civilização virtual, uma sessão psicanalítica em associações livres. 

Comecemos pela criação. Da gestação ao nascimento do Agora e Depois, a cronologia biológica evapora-se. John Lennon gravou a demo em 1977, mas desde então tantos acidentes intervieram, que é impossível conectar o conteúdo dessa fita com o arquivo publicado pelas redes sociais em 2 de novembro de 2023. 

Vamos olhar mais de perto. Em 1995, um reencontro histórico, os restantes rapazes do Liverpool trabalharam em algumas canções que Lennon tinha deixado numa fita, incluindo Now and then. Os três lançaram duas faixas, conhecemo-lo bem, mas descartaram a terceira, a que estava em causa: a voz de João estava misturada ao piano, o resultado não os convenceu. Dessas sessões, no entanto, restam arpejos, acordes, linhas de baixo, das quais os três não se livram. Essas sessões devem ser inseridas no tempo da criação do Agora e Depois? E se assim for, ainda estamos a falar da canção concebida por João, ou de outra coisa, suspensa entre passado e futuro? 

Além disso, existe um passo intermédio, que é tudo menos negligenciável. Na com as gravuras estava escrito “para Paulo”, mas Lennon nunca a enviou ao amigo. Foi Yoko Ono quem deu a fita a Macca, meses depois da morte de John. Então vamos ver um pouco, Yoko Ono um dia no Edifício Dakota abre uma gaveta, encontra a fita, lê que é para Paul McCartney. O que faz a Viúva Lennon? Se seguisse o seu primeiro instinto, ao ver esse nome entraria em fúria, destruiria tudo e boa noite ao balde. Mas não, Yoko tem um suspiro, morde os lábios, abre a porta para os fantasmas do passado. Ela deixa passar algum tempo, Yoko Ono, e finalmente telefona para Paul. 

Sem contar que a fita poderia facilmente ter se perdido, o tormento interior de Yoko Ono e seu gesto entram no tempo da criação. De facto, devemos admitir que a dissolvem: porque sem essa fase a canção nunca teria visto a luz do dia. A escolha de Yoko, portanto, está fora das linhas do tempo criativas usuais, vai além delas, ou melhor, as lasca. 

Vamos a tempos mais recentes, estamos em 2022: Paul McCartney e a sua equipa têm novos programas de computador, sentem que o trabalho ainda não terminou, voltam à pista antiga. Com inteligência artificial conseguem isolar a voz de Lennon do piano, “cristalina”, diz Sir Paul incrédulo: o problema de 95 está superado! O canteiro de obras reabre, mas enquanto isso Harrison não está mais lá. Não importa, há os vídeos de 95, os arpejos, os acordes. Há desenhos de George, sua esposa concorda, eles serão bons para a capa. O baixo pode ressoar, Ringo é um mago nos coros, e depois há as coisas, muito: e por isso será Paul a fazer um solo de guitarra, ao estilo de George Harrison. Eh, quanta confusão! O trabalho está terminado, vamos dar uma olhada mais de perto: a voz é de Lennon, mas a música está lá a mando de Yoko, está lá graças à IA que separa as faixas, e graças ao fato de que na agitação de 8 de dezembro não se perdeu. Harrison está lá graças aos vídeos de 95, graças aos desenhos dados por sua esposa e graças ao talento de Paul. Quando o single sai é o dia dos mortos, e não é coincidência: de vez em quando vem do além, mais do que daqui. É por isso que podemos verdadeiramente dizer que é uma peça intemporal: é impossível recompor as fases da sua criação, a não ser dizendo que foi precisamente o Tempo, como um todo, que a entregou a nós. 

… 

De vez em quando: mas quando exatamente?

“Era uma vez, há muito tempo…” Foi assim que começaram os contos de fadas. A literatura define o tempo narrativo de várias maneiras, às vezes de forma mais explícita, às vezes menos, mas geralmente sempre com um curso linear. O príncipe Andreij ama secretamente Natasha, na época das guerras napoleônicas, o casamento de Renzo e Lucia não deve ser feito, na época da peste, Pisa é a reprovação do povo itálico, na época do conde Ugolino. Quer tenha sido há muito tempo, sem qualquer outra indicação, quer tenha sido precisamente no tempo de Napoleão, Dom Abbondio ou Dante, a história que se conta tem um antes, um durante, um depois. No máximo, como em alguns filmes de mistério, será capaz de contar um ou mais flashbacks, mas sempre dentro de um fragmento espaço-tempo definido. 

O artigo completo no site: www.fabioconvertino.it

Nuovi problemi sessuali: paura del corpo, della competizione e del politicamente scorretto.

Nella mia pratica quotidiana incontro sempre più frequentemente problemi sessuali, anche di forme diverse rispetto a quelle, per così dire, tradizionali. Disfunzioni erettili occasionali o episodi di eiaculazione precoce per gli uomini, difficoltà legate all’orgasmo o perdita dell’interesse sessuale per le donne, ecc… . 

La paura del corpo e il politicamente corretto

Una delle ragioni di quella che possiamo definire un’involuzione delle dinamiche relazionali, è certamente l’ondata di terrore per il corpo che si è propagata nel post pandemia da Covid-19. Le tecnologie oggi consentono relazioni asettiche, con scambio istantaneo di immagini e video privati, che alla lunga creano una bolla di comfort informatico. Da un lato, questi scambi mettono al riparo da rischi di contagio che inevitabilmente la prossimità umana comporta. Dall’altro, vediamo che il contatto in presenza non è più necessariamente l’inizio di una relazione, ma talvolta il passo successivo a scambi di messaggi, foto o video andati a buon fine. Così avviene che per alcuni il passaggio al corpo, e al corporeo, è una prova dei fatti (declamati,  millantati?) non facile da sostenere.  

E poi c’è la concomitante esplosione (sacrosanta) del politicamente corretto. Se da un lato, finalmente, tutti si sentono meno autorizzati a fare quelle odiose battute a doppio senso, quelle allusioni viscide, che da sempre mettono in imbarazzo non solo chi ne è il bersaglio, il rovescio della medaglia è un raffreddamento generale della self confidence. I più timidi (di ogni genere) possono sentirsi sotto esame ogni volta che fanno qualche approccio, e più in generale possono percepire su di sé giudizi o aspettative che un tempo non si pensava di avere. 

Fuga dalla competizione

Ad un livello più profondo, i nuovi problemi legati alla relazione, e che si manifestano soprattutto nell’attività sessuale, sono associati ad una sempre maggiore difficoltà di entrare in competizione. Vediamo comunemente, ormai, condotte di evitamento attivo della competizione, in ogni ambito della vita del nostro Paese. I politici in crisi di consensi cambiano partito, anziché impegnarsi a recuperare voti con quello a cui sono iscritti. Sportivi professionisti chiedono ai procuratori di cambiare società o campionato, quando sentono di non avere fiducia da parte dell’ambiente, anziché mettersi di impegno per mostrare il loro valore. E via di questo passo. 

La tendenza a pretendere a priori un certo tipo di riconoscimento, prima ancora di aver dimostrato di meritarlo, è parte di molti atteggiamenti che a vario titolo abbiamo definito egocentrici, egoistici, individualistici, narcisistici ecc… . Ossia atteggiamenti di chi non è disposto a conquistare qualcosa, perché ritiene gli sia dovuta. 

Se nella coppia in una crisi questo può portare, nei casi più gravi, a scontri violenti, nella coppia in divenire può definire difficoltà sul piano sessuale. Perché devo impegnarmi a fare qualcosa che mi è dovuta? Perché devo raggiungere, conquistare, sedurre? L’intimità necessita di un certo impegno, ma probabilmente non tutti lo sanno. Anche di questo si parla sempre troppo poco, e, malauguratamente, anche sempre troppo a vanvera. 

Tiki-Taka e autolesionismo

Hanno fatto il giro del mondo le immagini di Pep Guardiola, allenatore del Manchester City, e guru mondiale del Tiki-Taka, vittima di piccoli gesti autolesivi

I benpensanti hanno subito accusato il famoso personaggio di non essere pago della sua fortuna, ma si sa, e proprio qui vediamo che non è una frase fatta, i soldi, di per sé, non danno la felicità. Nell’impossibilità di commentare i comportamenti e la psiche di Guardiola, perché non è mio paziente, e anche nel caso non avrei certo potuto farlo, vorrei però fare alcune riflessioni sulla rabbia, l’aggressività e l’autolesionismo

Aggressività passiva

Il famoso allenatore ci racconta una cosa molto chiaramente. A tutti i livelli è bene sviluppare una buona consapevolezza della nostra parte oscura, e trovare vie adeguate di espressione e manifestazione di rabbia e aggressività. Perché l’autolesionismo è una modalità estrema di espressione di queste emozioni, e soprattuto individua in noi stessi il colpevole di qualcosa di terribile. Qualcosa per cui meritiamo una punizione. 

Ognuno di noi ha una certa quota di arrabbiature quotidiane, e il modo in cui le superiamo fa la differenza sull’andamento della nostra giornata. 

Una modalità poco conosciuta di espressione della rabbia è l’aggressività passiva. Ci sono situazioni in cui siamo contenuti, bloccati, ma gettiamo saette con gli occhi, o con battute al veleno. Oppure ancora con sarcasmo pungente, colpendo persone che non hanno nessuna colpa. L’aggressività passiva è un modo molto disadattativo di superare la tensione. 

Autolesionismo

Un modo ancora peggiore, è l’autolesionismo. Colpire noi stessi significa anzitutto riconoscere di non essere adeguati alla sfida che stiamo affrontando, perché una sfida non ci può destabilizzare così profondamente. Ma soprattutto significa ammettere di essere stati talmente cattivi da meritare una punizione. 

Pep Guardiola ha confessato un piccolo gesto autolesivo, quello di ferirsi lievemente la fronte con le unghie, per sua fortuna è al riparo da gesti più eclatanti. Ma alcuni individui arrivano a graffiarsi violentemente il viso, a procurarsi tagli sulle braccia, a sfidare la morte in gare pericolose, o anche di peggio. Ciascuno di noi deve avere un buon rapporto con la sua rabbia, viverla ed esprimerla in termini adeguati e non distruttivi. In fin dei conti la rabbia ci racconta qualcosa di noi stessi, ci dice che siamo insoddisfatti, e capire dove e come lo siamo, non è cosa da poco. 

Sadismo e Tiki-Taka

Resta un altro step, quello sportivo. Qualcuno mi ha persino chiesto se il Tiki-Taka non sia, in fondo, una modalità di gioco passivo aggressiva, in cui l’avversario viene sfinito, quasi deriso, senza una vera logica razionale, una sorta di perversione sadica? È una domanda a cui non so rispondere, perché esula dall’ambito della psicologia sportiva. 

Posso dire, invece, che ogni forma di arte, ogni filosofia, ogni concezione estetica assomigliano intimamente a chi le ha ideate. E sono amate anche da chi, in qualche modo ci si rivede. Ma di questo parleremo in un’altra sede. 

Come riconoscere la depressione “sotto soglia”?

Depressione” è uno di quei termini entrati nel linguaggio comune che a volte vengono utilizzati in maniera impropria: ad esempio per spiegare situazioni, condizioni, o stati d’animo, che non necessariamente identificano la patologia psichiatrica cui si riferiscono. 

Depressione sotto soglia

Avviene così che uno studente possa dire di essere un po’ depresso dopo la bocciatura ad un esame, che un economista possa definire depresse alcune aree del mondo, o che uno storico possa riconoscere come depressi gli inglesi dopo il referendum per la Brexit. Espressioni, queste, che potrebbero essere enunciate anche in altri modi, senza scomodare le categorie della salute mentale. 

Di conseguenza a quest’uso talvolta non appropriato della terminologia “psy”, può avvenire anche la situazione inversa, ossia che un individuo viva uno stato che nella sostanza è depressivo, ma che non viene riconosciuto come tale. Una condizione che ricalchi gli aspetti psichici, ma non i sintomi clinici della depressione, invece, può comunque essere considerata una depressione sotto soglia

Può avvenire, ad esempio, che un individuo attivo, impegnato, e con tanti amici, viva una lunga fase di involuzione. Oppure che uno sportivo entri in un tunnel di tedio, che pur senza inchiodarlo al letto, lo rallenti facendogli sentire tutto estremamente pesante. Oppure ancora, che un individuo per il resto sano, diventi improvvisamente inappetente, malinconico, non interessato alla vita sessuale. 

Sogni, film, romanzi, ci parlano del nostro vuoto

La depressione sotto soglia è una condizione in cui i sintomi clinici più importanti sono tutto sommato compensati, mentre il soggetto vive comunque un senso di vuoto, di inutilità o di tristezza. Questi possono emergere, per esempio, nei sogni, o nei film che sceglie di guardare, o nei romanzi che decide di leggere. 

L’insonnia è un indicatore molto importante, lo sappiamo, perché quando dormiamo le difese razionali si abbassano. Ma anche gli interessi artistici lo sono, perché nell’arte sentiamo riverberare cose che a livello razionale fatichiamo a dire. 

Essere attratti esclusivamente da un certo genere di film, di romanzi, o di musica, (l’horror, per esempio, o il death metal), è certamente un indicatore di disposizioni individuali molto marcate, che sarebbe utile non derubricare a priori a meri gusti artistici.  

Il calo del desiderio nelle coppie stabili: leggerlo, gestirlo, comunicarlo.

Non sempre il calo del desiderio è sinonimo di crisi di coppia. Questa dinamica nelle relazioni affettive è molto diffusa, più di quanto si potrebbe pensare: in genere viene vissuta con paura e vergogna, ma soltanto raramente è il preludio di una separazione, per le ragioni che fra poco vedremo. E proprio per queste ragioni, è bene che venga affrontata individualmente, da caso a caso, senza generalizzare, perché le motivazioni che la inducono possono essere molto diverse. 

Calo “orizzontale” e “verticale”

Anzitutto è bene dividere il problema del calo del desiderio in almeno due grandi capitoli. Da un lato metterei il calo del desiderio in generale, che potremmo qui definire “orizzontale”, ossia la perdita di interesse per la vita sessuale in sé. In questo caso un individuo non sente attrazione verso il partner, ma neppure verso altre persone. Dall’altro lato, invece, metterei la perdita dell’interesse per la persona amata, e potremmo definire questo calo come “verticale”. In quest’altro caso l’individuo sente attrazione per altre persone, oppure anche per altre persone, e questa cosa lo inquieta, al punto da renderlo confuso sul da farsi, cioè non è sicuro di voler interrompere la relazione. 

Il calo orizzontale potrebbe essere dovuto ad una serie di cause non necessariamente legate all’altra persona, intendo se non marginalmente. Ossia, un individuo può vivere una fase di forte stress lavorativo, o un lutto familiare, oppure ancora l’effetto ritardato di uno di questi eventi. Altrimenti può attraversare una fase depressiva, o essere colpito da ansia e avere attacchi di panico, ecc… In tutti questi casi l’attività sessuale, in quanto attività di relazione con gli altri, potrebbe subire una diminuzione, così come la vita sociale nel suo insieme. Vale a dire le cene con gli amici, le serate in discoteca, e così via. A tutti è capitato di essere meno socievoli in determinati frangenti della vita, e sappiamo che non avere voglia di vedere quel determinato amico per un certo periodo, non corrisponde automaticamente a voler rompere l’amicizia con lui. 

Il calo verticale, invece, merita un discorso diverso. Scoprire che il partner non è più oggetto di fantasie, mentre lo diventa, invece, un altro individuo, potrebbe essere una cosa molto difficile da gestire. Ma anche in questi casi non è necessariamente l’inizio della fine. In genere siamo attratti da qualcuno anche per ragioni “mentali”, ossia perché ci affascina al di là dell’aspetto fisico. Per esempio si muove in un certo modo, è molto acuto nel parlare, cose di questo tipo. Avere un’infatuazione “mentale” per una persona può determinare il calo dell’interesse per il partner. 

Altri agenti perturbanti potrebbero essere l’orientamento religioso, o politico, oppure la scoperta di essere attratti da persone con orientamenti sessuali diversi. Anche in questi esempi non è possibile generalizzare, e proprio per questo ho sottolineato come ogni caso vada valutato e affrontato separatamente. 

Comunicazione social

Qualche parola a parte va spesa riguardo alla comunicazione in coppia. Sembrerebbe scontato ritenere che se abbiamo un calo di desiderio, il partner dovrebbe automaticamente accorgersene. Le cose, purtroppo, non stanno in questi termini. Gli amanti vivono sovente nell’illusione di saper capire l’altro da uno sguardo, a volte da un gesto. Ma sovente quello che crediamo di cogliere, non è che la nostra stessa volontà, proiettata nell’altro. Così è molto importante, ancorché difficile, trovare canali di comunicazione adeguati, o, per meglio dire, efficaci. Ma per fare questo, se mi passate la polemica, i consigli standardizzati dei social network non sono sempre sufficienti. 

Il collega è un narcisista? Ecco cosa fare, e non fare, per difendersi al meglio.

Il narcisismo è una delle reazioni più diffuse alle turbolenze che stiamo attraversando in questi anni. Come diciamo sempre, esistono vari tipi di narcisisti, non tutti ugualmente pericolosi o dannosi per gli altri, ma va da sé che doverci convivere, come in una relazione affettiva, amicale, o tra colleghi in ufficio è talvolta altamente frustrante.

Origini del narcisismo

La frantumazione degli equilibri politici, economici, sociali a cui eravamo abituati in passato, sta determinando una progressiva frammentazione del sé e dell’identità individuale. Questo è molto chiaro dagli orientamenti di voto che vengono espressi alle elezioni (meno polarizzati di un tempo), dalla partecipazione alle manifestazioni religiose (meno assidua), dalla fiducia nel futuro (in caduta libera), e da tutta una serie di altri fenomeni popolari che certamente il lettore può facilmente individuare intorno a sé. 

Per adattarsi a ciò, sono ovviamente possibili diverse reazioni, ma in questo nostro tempo dell’individualismo una delle più comuni è la formazione di tratti di personalità narcisistici. Ossia, un po’ estremizzando, “Le cose vanno male perché nessuno capisce il mio valore.”

Vivere a contatto di un narcisista è cosa estremamente difficile, perché se da un lato questi crede di necessitare ammirazione incondizionata, dall’altro mostra scarsa empatia verso chiunque. Così avere in ufficio un/una collega narcisista può essere un elemento di disgregazione degli equilibri d’équipe, ammesso, ovviamente, che ne esistano. 

Come difendersi?

La reazione più immediata che questi colleghi possono scatenare, infatti, è la creazione (involontaria?, inconscia?) di coalizioni esclusive, che coinvolgano da una parte loro i fans (ovviamente ne avranno) e dall’altra i loro detrattori. Questo tipo di reazione è altamente esaltante per il narcisista, che si sente al centro di contese collettive, ma è anche estremamente pericolosa, in ottica di funzionamento di squadra, perché fa perdere di vista la mission organizzativa.

Una reazione individuale, invece, che qualcuno potrebbe essere portato a ricercare, è quella della rivalsa: sbugiardare le posizioni del narcisista nel momento in cui mostrano la loro fallacia. Ora, siamo tutti d’accordo che questo sarebbe un piatto al sapore di vendetta, per alcuni certamente gustosissimo, ma anche in questo caso farebbe deragliare il gruppo di lavoro rispetto agli obiettivi per cui è sorto. 

Inoltre, mai umiliare un narcisista. Le sue reazioni potrebbero essere sconsiderate, proprio in virtù della rigidità con cui si pone verso gli altri, e dell’ammirazione che pretende di avere come il migliore tra i presenti.

L’eiaculazione precoce è un problema? Ecco cosa puoi fare.

Circa un uomo su tre è incorso, almeno una volta nella vita, in questo spiacevole inconveniente. L’eiaculazione precoce è qualcosa di più di un semplice disturbo, perché tocca nell’intimo chi ne soffre, avvilisce la coppia, e soprattutto ferisce il/la partner, che poi è la vera vittima di questa problematica di cui non ha colpa.  

Sei troppo bella 

La prima cosa che si fa, quando si presenta un episodio di eiaculazione precoce, è cercare delle scuse. Credo sia certamente comprensibile dal punto di vista umano, e direi anche una inevitabile e genuina difesa della propria virilità. Sarebbe penoso, infatti, dover ammettere delle responsabilità, in una situazione già di per sé così fortemente imbarazzante. 

Ma a volte, come dice il detto, la toppa è peggio del buco. Questo perché cercare delle scuse blinda la posizione di chi invece dovrebbe fare autocritica, e trovare il modo per superare questo impasse. Lo mette al sicuro, gli consente di cadere in piedi dicendo “non è colpa mia”. Inoltre, e questa è davvero la peggiore delle conseguenze, la classica accusa, travestita da complimento, “sei troppo bella”, scarica le colpa sul/la partner, che si vede beffata due volte. 

Alcune/i di questi partner, infatti, reagiscono con ironia, altri scrivendo subito alle amiche, o peggio a potenziali amanti, ma altri ancora iniziano a covare un senso di inadeguatezza, di sfiducia, di bassa autostima.  

Cosa fare?

L’eiaculazione precoce, quando non è occasionale, è sovente un fatto di significati. Tutti attribuiamo un significato a quello che facciamo, intendo anche significati impliciti, non del tutto chiari neppure a noi stessi, se non nel loro aspetto più generale, per non dire superficiale. 

Così frequentiamo un ristorante dimenticando (apparentemente) che in quella via si sono incontrati i nostri genitori, oppure amiamo un profumo che ci lega a qualche ricordo d’infanzia, che però non sappiamo definire con precisione, e così via. 

Quando l’apparato genitale è privo di disturbi organici, la disfunzione è molto probabilmente legata a qualche significato profondo che a tutta prima ignoriamo. 

Al di là dei consigli pratici che si trovano su ogni sito, quindi, diventa importante indagare proprio quel significato: non solo è il vero responsabile del nostro comportamento, ma è la garanzia certificata che si ripeterà nuovamente, anche con un’altra persona. E non importa quale scusa riusciremo a inventare, o quale lusinga a immaginare. 

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