Dio perdona…io no! Tradimento, orgoglio, perdono.

Il perdono è uno dei capisaldi della nostra tradizione religiosa, cosa che si riverbera anche nel diritto, in cui per un condannato sono previsti sconti di pena, indulto, riabilitazione penale, ecc… . Abbiamo la tendenza, tuttavia, a considerare il perdono più come una cosa che gli altri debbano a noi, che come un movimento da parte nostra verso chi ci ha mancato di rispetto.

Il perdono di Dio e dello Stato

Dio pedona… io no! Questo titolo di un film dell’amata coppia Bud Spencer e Terence Hill, è molto eloquente nel discorso che stiamo facendo. Il Cattolicesimo è spesso ritenuta la religione del peccato. A torto, a mio avviso, perché più che in altre confessioni, o quantomeno in maniera diversa, ruota attorno al concetto di perdono. Dio perdona chi si rimette nelle sue mani, tramite le modalità previste dalla teologia. Non spetta ai teologi sindacare, non è nel potere dei fedeli contrattare. Il perdono di Dio fa parte della nostra storia religiosa e culturale, al punto che nessuno se ne sente offeso, o ne tenta una qualche forma di revisione. 

Anche lo Stato perdona, in tutto o in parte, chi ha commesso dei reati contro la legge, e anche in questo caso nessuno, in genere, mostra risentimento. Anzi, chi ha fatto un reato è sovente portato a credere che il diritto non faccia abbastanza, che dovrebbe perdonare di più, che le pene sono troppo severe, ecc… . Il perdono verso di noi, in altre parole, non è mai troppo, non è mai a sproposito, anzi è sempre meritatissimo. Anche nelle forme più alte di errore, come quelle del peccato nei confronti di Dio, o di reato verso la legge dello Stato. 

Lo stesso vale per le offese che rechiamo ad amici, conoscenti, colleghi, partner, e via dicendo. Il credito che riteniamo di avere è pressoché illimitato, sono sempre gli altri a dover fare uno sforzo, venirci incontro, apprezzare i nostri passi verso di loro.

Io perdono, ma non dimentico 

Il discorso cambia, e di parecchio, quando siamo noi a dover perdonare per un torto subito. In questi casi, la cosa migliore che si possa sentire è: “Io perdono, ma non dimentico.” Che poi è un modo per dire che non se ne parla proprio. Perché questa disparità di posizione? Perché perdoniamo in quantità minore, e più faticosamente, di quanto vorremmo essere perdonati? Va detto che un’eccessiva predisposizione al perdono, soprattutto nell’ambito della vita di coppia, può talvolta risultare sospetta. Se perdoniamo con leggerezza un partner fedifrago, ad esempio, possiamo dare l’idea di non tenerci abbastanza, oppure di avere qualcosa da nascondere, oppure ancora di essere troppo dipendenti, e accettare qualunque compromesso pur di non perdere la relazione. Tuttavia il perdono non riguarda solo il tradimento in coppia, e  dobbiamo ammettere che, in generale, perdonare è più difficile che chiedere, o aspettarsi, il perdono. 

Per quanto pacifica, la cosa è talmente paradossale, che merita una piccola riflessione. Anzitutto, chi ci ferisce, lo fa in buona o cattiva fede? E poi, poteva fare diversamente? Avrebbe saputo resistere? Ha seguito se stesso, il suo istinto, oppure no? Queste domande, e altre simili che queste ci suscitano, ci portano in una direzione. Quanto è veramente responsabile chi ci offende con il suo comportamento? 

Sul perdono, e la difficoltà di perdonare, partirei anzitutto da noi stessi, da cosa avremmo fatto noi al posto dell’altro, e da come vorremmo essere trattati, per giungere poi ad un’altra conclusione. Il perdono, è utile ricordare (Lacan, Kristeva), non si riferisce all’offesa, o al reato, ma alla persona: è un atto relativo all’altro. Non riguarda il furto, l’aggressione o la rapina, ma l’individuo che li ha commessi. Così in coppia, non perdoniamo il tradimento, ma chi lo ha fatto. 

Il per-dono è un dono a noi stessi

Inoltre, il perdono libera il futuro. Restare ancorati all’evento che ci ha feriti, che è comunque passato, vuol dire non ripartire. Ecco, allora, la conclusione cui volevo giungere: il per-dono all’altro, sostanzialmente, è un dono fatto a noi stessi. Chiudere quella porta, è autorizzarci a guardare oltre, ad andare avanti. È allora forse questa la difficoltà? Restare fermi al torto subito è uno stop forzato, un drammatico alibi per non continuare a crescere senza l’altra persona. 

Sta forse qui la ragione per cui vorremmo che, invece, a parti invertite, ci perdonassero tutto? Non riusciamo a capire per quale motivo si ostinino a non ripartire, quando è tutto chiaro, quando tutto è superato, quando ormai tutto è inesorabilmente chiuso nel passato?    

Guerra, clima, economia. Come sopravvivere al caos?

Abbiamo già definito la condizione attuale, quella che è andata definendosi dopo la pandemia da Covid-19 e la guerra di Ucraina, come la grande frammentazione. Per frammentazione psichica intendiamo la frantumazione della psiche in parti consce e inconsce, che può avvenire in seguito ad un trauma. Nella fattispecie, abbiamo detto di come la nostra opinione sui fatti del mondo sia nella sostanza ambivalente e non definitiva, e di come questa ambivalenza sia il frutto del trauma che ci ha investiti in questa fase storica. Ad esempio, qualcosa dentro di noi ci dice, a tutta prima, che dovremmo stare da una certa parte, e ne siamo assolutamente convinti. Poi, però, dopo averci pensato sù,  cominciamo a non esserne più così sicuri: qualcos’altro ci dice che potremmo stare benissimo anche dall’altra parte. Ecco, servita la frammentazione. 

Frullato di verità e populismo

Lo spezzettamento della verità, direi anzi, il frullato di verità, (come quello che ci viene offerto dai social network), corrisponde al frullato della nostra identità, che infatti è sempre meno definita sotto tanti punti di vista. Avete mai notato che nello sport, pensiamo al calcio, ma non solo, non esistono più i ruoli predefiniti? Oggi si dice che un difensore deve sapere fare anche il centrocampista, che l’attaccante deve avere compiti difensivi, e via dicendo. Vale lo stesso nel tennis, nel ciclismo, e così via. Nel nostro lavoro quotidiano, in cui siamo chiamati a ricoprire diversi ruoli, funziona allo stesso modo, in virtù della frammentazione delle logiche produttive, e di conseguenza delle mansioni operative. 

Il social network è l’emblema del frullato di verità, perché per funzionare ha bisogno di un algoritmo. Se apro un social network, mi appare un elenco di stimoli che in qualche modo confermano le mie preferenze. Ma se, senza volerlo, induco l’algoritmo a propormi un contenuto affine e parzialmente alternativo, oppure è l’algoritmo stesso che decide di gettarmi sabbia negli occhi, il social network mi apparirà come un frullato di contenuti, dal gusto più o meno omogeneo, ma che non assomiglia a nessun elemento conosciuto. Ossia, avrà reso la verità come qualcosa di non afferrabile.  

In questa nebbia, va da sé che il populismo diventi una lanterna. Il populismo è la scomposizione di un teorema in micro vignette, la soluzione di un problema complesso in poche semplici operazioni. 

Dal caos al desiderio

Una soluzione che parta dal basso, invece, e che investa la nebbia nel suo processo di formazione, è quella della rifondazione dell’Umanesimo. Nel discorso che interessa qui, dobbiamo dirci che la fine del desiderio, del sogno e della speranza, è la vera responsabile della disperazione contemporanea. La frammentazione psichica indotta dal trauma socio-politico che ci circonda, e il frullato della verità favorito dalle innovazioni informatiche, non vanno aggrediti con il populismo, ma con la rifondazione dell’Umanesimo. Nella fattispecie, con la rinascita del desiderio

Sappiamo bene di come gli Italiani abbiano smesso di frequentare la chiesa, di andare a votare, e più in generale di credere nel futuro. La disperazione ci circonda a tutti i livelli, e i dati sul consumo di alcol e droghe, non fa che confermare queste considerazioni. C’è inoltre l’elemento della violenza di genere, che nasconde un grave vuoto interiore, per non dire una recrudescenza psicopatologica, a dispetto di letture sociologiche e semplicistiche. 

L’importanza di avere qualcosa in cui credere, non è di valore unicamente spirituale (che non sarebbe comunque poco), ma identitario. Muoversi con una prospettiva metafisica, spirituale, inseguire un ideale, è qualcosa che riempie di significato ogni istante della nostra vita. Avere fiducia nella politica e nella rappresentanza democratica, per essere più espliciti, non consente solo di partecipare alla vita pubblica, fornisce anche una ragione per sperare di cambiare domani ciò che oggi non ci piace. E infatti un elettorato che diserta le urne, perché privo di fiducia nel sistema politico, è un elettorato amareggiato, senza sogni, disperato, preda, di conseguenza di suggestioni e fascinazioni. 

Ecco perché insistiamo sulla necessità di investire in qualcosa che dia significato personale, al di là della corsa individualista all’apparire. Lo sport, l’arte, l’associazionismo, tutto quello che può farci alzare nel cuore della notte per raggiungere un meeting, una biennale, una manifestazione, è un modo per sconfiggere il vuoto interiore, e riempirlo di sogni, ambizioni, significati. In una parola, di desideri.   

Il bello e dannato (e anche un po’ furbo): istruzioni per l’uso

Vorrei fare il punto su una figura piuttosto diffusa e, al tempo, fortemente distruttiva delle relazioni affettive, che potremmo chiamare il “bello e dannato”. Questo individuo tende a spargere intorno a sé un fascino seduttivo, a provocare premure e preoccupazioni, ma allo stesso tempo a minare l’autostima e la stabilità in chi lo avvicina, e in qualche modo se ne invaghisce. Questo particolare personaggio (useremo il maschile, ma non è solo maschio) ha la capacità innata di illudere, mantenersi equidistante, e infine di deludere l’altro, ma con la drammatica conseguenza di gettare scompiglio, a volte anche contro la sua stessa intenzione volontaria. 

Sex appeal

Il bello e dannato è un individuo appetibile dal punto di vista erotico, che appare un po’ in crisi per alcune sfortunate circostanze, e che fa capire, a chi lo avvicina, che con un piccolo aiuto potrebbe uscirne più forte di prima. Le reazioni emotive di chi cade in questa trappola, di conseguenza, si mescolano alla speranza di poterlo agganciare sentimentalmente, nella fantasia di come potrebbe essere “grazie al mio aiuto”. 

Sovente il bello e dannato è tormentato, cerca un equilibrio che non trova, e la tendenza a mandare in confusione gli altri, non è necessariamente dolosa. La sua sofferenza lo porta, talvolta, ad abusare di alcolici o droghe, a cercare emozioni forti, ad adottare condotte rischiose, se non autolesive. È questa inquietudine che riversa sugli altri, nella ricerca (questa sì, autentica) di un catalizzatore che riesca a calmare la sua irrequietezza. 

Le sue modalità di richiesta di aiuto, tuttavia, non sono chiare. Saltano su vari livelli, da quello amicale a quello amoroso, talvolta passando da una seduttività erotica molto forte, che gli serve, tra l’altro, per controllare la situazione. La conseguenza è che chi entra in questo vortice vive una condizione borderline, ossia è molto vicino alla meta, ma anche sull’orlo di una delusione fortissima. 

Vittima designata

La vittima preferita di questi soggetti è una persona che cerca delle conferme. Chi  attraversa a sua volta delle difficoltà di natura relazionale, può vedere nel bello, ma raggiungibile, un riscatto alle proprie sofferenze. La vittima ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un’occasione più unica che rara, che, se saprà sfruttare, potrà garantirgli parecchi gradi di successo: aiutare definitivamente questo individuo, conquistarlo, e sistemare, al contempo, la propria situazione sentimentale.

Questo quadro, però è tutt’altro che auspicabile, perché si basa su uno sbilanciamento di potere, e su una seduzione psicologica. Il bello e dannato, infatti, non cerca una relazione paritaria, ma un bidone in cui svuotare tutte le sue frustrazioni. Non cerca un vero aiuto, ma ha bisogno, anzitutto, di avere saldamente in mano le redini della relazione, che può indirizzare a suo piacimento in qualunque direzione. Inoltre c’è una variabile di ulteriore vulnerabilità, rappresentata dalle compagnie. Può capitare che amici o conoscenti possano gettare benzina sul fuoco, e dare consigli sbagliati, a chi è già sopraffatto da mille dubbi. 

Il personaggio che abbiamo definito come bello e dannato, quindi, fa leva (involontariamente?) sulle fragilità altrui. Sono queste fragilità, pertanto, che devono essere tenute sotto controllo, quando si cade nella trappola che abbiamo delineato. Ed è proprio a queste fragilità che occorre dare risposte, prima di offrire un soccorso a chi, molto probabilmente, non ha nessuna intenzione di riceverne. 

Studentessa e lavoratore: crescere insieme quando le strade divergono

Un tipo di coppia che ha certamente fatto parte delle nostre vite, in maniera diretta o indiretta, è quella in cui due ragazzi che si frequentano dai tempi della scuola, prendono diverse strade di crescita. Uno continua gli studi, l’altro entra nel mondo del lavoro. Questo caso è esemplare, perché smonta la tesi romantica dell’amore come unione delle anime, al di là del background socio-economico-culturale. Ed è per questo che va usato come lente per osservare anche altre dinamiche di coppia

Il lavoratore

Entrare nel mondo del lavoro modifica la percezione che uno dei due ha della coppia, e devo dire istigato in questo anche dai suoi familiari. Avere un’occupazione, se non altro in una prima fase, determina indipendenza economica, maggiore libertà, possibilità di guardare al futuro in maniera progettuale. Il partner lavoratore ha quindi la possibilità di sostenere il partner studente, ma anche di averne, di conseguenza, una visione di subalternità. Se il lavoratore è la colonna della coppia, è quello più forte. 

Il lavoratore guarda alle prossime vacanze, progetta svaghi, magari investe del denaro in una casa. Alla lunga, può cominciare a sentirsi in credito, senza dirlo. Sotto sotto possono nascere delle incomprensioni, un senso di rivalsa, “Ecco tu fai tutte queste cose grazie a me”. Il più delle volte, però, come è giusto che sia in una coppia, le energie investite sono a fondo perduto. Se faccio qualcosa per l’altra persona, non può essere nell’attesa di una sua restituzione. Così, sostenere lo studente con regali, pagando le vacanze, facendo investimenti che ricadano sulla coppia, dovrebbe essere fatto di cuore, pensando unicamente che ciò che è bene per l’altro, sarà di conseguenza anche un bene per me.  

Lo studente

Niente di più forzato, e, talvolta, di più illusorio. Il partner studente pensa alla sua carriera universitaria, si circonda di nuovi amici, ha tutti i giorni nuovi problemi. L’università riguarda anzitutto sé stesso, il suo futuro, la sua crescita professionale. Inevitabilmente riguarda anche l’altro, ma di riflesso. E poi durante gli studi, il mondo del lavoro sembra lontano, non se ne ha un’idea nitida, e il ventaglio di professioni possibili, modifica di molto le prospettive. 

Lo studente affronta una scalata socio-culturale (oggi non più economica), rispetto al livello diploma che lo lega al compagno. Per questo potrebbe vedersi quasi come un eroe, e sentire che quello che gli altri gli (le) danno, è sostanzialmente dovuto. Per molti universitari, inoltre, allargare il sapere non ha la conseguenza di renderli più saggi, ma soltanto più altezzosi e arroganti. Questa cosa forse li accomuna ai colleghi di corso, e infatti nel rapporto quotidiano nessuno di loro ha mai questa percezione. Ma quando ciò è vero, il solco che si scava con il partner lavoratore è sempre più profondo e insuperabile. 

Prospettive sovrapponibili

Il background socio-economico-culturale, come dicevamo all’inizio, non è sempre determinante, a volte l’amore è veramente un’unione romantica di anime. Ma molto spesso no, questo non basta. Il rapporto di coppia deve basarsi anche sulla condivisione di valori, di narrazioni condivise, di prospettive sovrapponibili sulla vita e sul futuro. Crescere insieme quando le strade divergono, come nel caso che abbiamo definito della studentessa e del lavoratore, è molto pericoloso. Ci vuole intelligenza, da entrambe le parti, senso pratico e pazienza. E soprattuto la costanza di considerare sempre anche l’altro nei progetti che ogni giorno aggiorniamo riguardo noi stessi. 

Femminicidio: patriarcato? Disperato

Altro femminicidio, stavolta una studentessa di 21 anni. I nomi si confondono nelle statistiche, ormai è difficile persino dare un volto alle vittime e ai loro carnefici. Trovare il coraggio di guardare in faccia alla realtà, tuttavia, significa non banalizzare o semplificare il malessere che può generare tali sciagure. Viviamo una società disperata, senza sogni, e la colpa del femminicidio non può essere (solo) del patriarcato. Nella frammentazione di cui tanto abbiamo parlato, che è anche politica e sociale, oltreché psicologica, dilaga l’angoscia, il nulla (nichilismo, ancora tu!), ma quello che spaventa è quanto le giovani generazioni siano intaccate da questa devastazione.

Disperati

Imputare la responsabilità del femminicidio (quale: tutti? Solo alcuni?) al patriarcato, è come imputare all’automobile la responsabilità dei morti sulle strade: si resta nel giusto, senza dubbio, ma fino a quando non si scoprono morti sulle moto, sui monopattini, e così via. Il codice della strada garantisce la sicurezza totale di ogni utente, automobilisti e non, se tutti lo rispettassero non ci sarebbero problemi. Allo stesso modo dobbiamo riconoscere che i giovani italiani non hanno speranza, non hanno sogni di futuro, sono pervasi dal vuoto esistenziale, e questo si riflette nelle loro relazioni reciproche. 

Sia chiaro che dire “i giovani” non ha di per sé nessun senso, infatti estenderei il ragionamento a tutti noi. Qui però parliamo di giovani, perché in questa fascia d’età la piaga del femminicidio è, se possibile, ancora più drammatica. Cosa spinge un ventenne ad accoltellare una coetanea che vuole lasciarlo? Quale ferita è così profonda da non poter essere rimarginata, a vent’anni? Davvero crede di non poter trovare un’altra ragazza, magari una che voglia condividere con lui più di quanto voglia fare questa, cui lui ora toglie la vita? 

Vuoto esistenziale

Ovviamente non abbiamo a disposizione le risposte di questi imputati, e infatti il nostro non deve essere un processo a loro come individui. Vogliamo invece interrogarci sul vuoto, sulla mancanza di visione futura, che accomuna tutta la loro generazione. Sulla speranza di poter incidere sul futuro, se vogliamo: sulla speranza di un domani migliore. 

Sono dati comprovati che gli Italiani frequentano sempre meno la chiesa, e votano sempre in minore percentuale. Ora, quale speranza nell’avvenire può avere chi non crede in niente? Abbiamo perso la fiducia nei politici, d’accordo, ma la fiducia nella politica, ossia nella possibilità di poter dire la nostra su che mondo vorremmo, è tutt’altra cosa. Siamo una generazione apatica, sempre più chiusa in sé stessa, preda del mondo virtuale, che ci sta togliendo anche la voglia di sognare. 

Persino i più privilegiati hanno paura: multimilionari hanno facce truci, usano termini sempre più aggressivi. E cosa dovrebbero fare i giovani? Respirano quest’aria, in cosa dovrebbero credere? E infatti in un mondo di influencer, persino OnlyFans è diventato attraente. Vediamo profonda indulgenza su quella che è pur sempre una forma di mercimonio del proprio corpo. Qualcuno si meraviglia? Assolutamente no, altro aspetto inquietante. 

Dobbiamo perciò evitare di individuare risposte facili a questo problema complesso e drammatico. Ci aveva avvisato Michael Ende, con il suo romanzo La Storia Infinita: se saremo preda dell’angoscia e della disperazione, niente e nessuno potrà venirci a salvare dal baratro finale. E il baratro, mi sa, è dietro l’angolo. 

La “terapia dell’orgasmo”: fantasia erotica e desiderio nella donna matura

Arriva un’età in cui la sessualità si svuota un po’ dai classici significati puramente affettivi, si libera da certi vincoli morali, ed entra in contatto con l’autostima e il senso di desiderabilità personale. Per la donna dopo gli “-anta”, (in modo particolare) il desiderio si lega anche al confronto con le nuove generazioni, al dubbio di essere ancora piacente, in definitiva al rapporto con il tempo che passa. 

Avere un confidente

La sessualità per la donna matura assume sfumature diverse, soprattutto al tempo dei social network. La fantasia erotica può prendere, ad esempio, la forma intellettualizzata dell’amicizia con un confidente. Avere un’intimità mentale, basata sulla condivisione di opinioni politiche, punti di vista sul mondo, o simili, può dare la sensazione di essere capiti, ma soprattutto la certezza di piacere all’altro. 

Dico intellettualizzata perché, in una prima fase, confrontarsi sulle idee politiche, o sulle squadre di calcio, ecc… , accorcia le distanze, senza necessariamente esporre verso un interesse, o un coinvolgimento, più diretti. 

L’amico social ha il ruolo che un tempo poteva essere del corrispondente: a volte soltanto un conoscente, a volte, chi lo sa, anche qualcosa di più. La differenza, enorme, sta nel fatto che ora lo scambio è più veloce, può essere multimediale, e soprattutto privatissimo e sconosciuto agli altri. Inoltre l’amicizia social può essere fisicamente distante, un altro elemento che aiuta a non farla sfuggire di mano, nel caso in cui le confidenze dovessero diventare più esplicite. 

Fantasia e desiderio 

Il rapporto della donna matura con la sessualità è condizionato dai cambiamenti nel corpo e nei suoi ritmi. La fantasia erotica e il desiderio, tuttavia, continuano a essere determinanti per il suo equilibrio mentale, come nelle altre epoche della vita. La differenza sta nella difficoltà di esprimere questa esigenza, di parlarne con il partner, perché a volte creduta fuori luogo. 

La sessualità riflette, come detto, l’esigenza di avere un rimando di amabilità, la conferma di piacere, e di non essere giudicati. In casi come questo la consulenza sessuale si lega al processo di coppia e diventa percorso a due, per riavviare un dialogo che non prescinda dai cambiamenti del corpo, ma ne discenda. 

Più che in altre occasioni, in questa vale la regola di non affidarsi ai tutorial online, di non ascoltare maestri improvvisati, o consigli generici validi un po’ per tutto. Al contrario, sarebbe molto più importante intraprendere un viaggio insieme al partner, per esplorare fino a che punto le fantasie possono essere condivise, e, possibilmente, inseguite insieme. 

“Torna con me, sono cambiato”: implorare l’altro nella crisi di coppia

Implorare di non essere lasciati, durante una crisi di coppia, è senz’altro la reazione più naturale che possiamo avere, ma anche la peggiore.

Non ti merito più

Sono rare le occasioni in cui entrambi i partner accettano la crisi, e la vivono come il naturale decorso di un progetto in declino. Quando una coppia affronta una battuta d’arresto, invece, il più delle volte è in seguito ad un travaglio interiore di uno dei due, che in maniera molto sofferta giunge a delle conclusioni. Mentre l’altro giura di non sapere, di non capire. Posto che ci sarebbe da indagare se davvero uno non abbia mai subodorato nulla, credo sia anche giusto lasciare a ciascuno le proprie difese. Chi nega i problemi, in genere, lo fa perché non riuscirebbe a sostenerne il peso.

Dicevamo, uno dei due attraversa una fase di dubbio, di tormento, chiede consigli ad amici, e alla fine prende una decisione. Il primo punto da chiarire è il ruolo dell’eventuale amante, o soggetto terzo. Sovente si ritiene che una coppia si separi per colpa di qualcuno che “rompe le uova nel paniere”. Niente di più sbagliato. Nessun terzo incomodo potrà mai sciogliere una coppia sana, in salute, in fase progettuale. La domanda più diffusa, agli incontri di chiarimento, è: “Hai un altro?”. Questa domanda è stupida, e disegna una sconfitta. Quale risposta ci aspettiamo? Sarebbe più facile accettare di essere lasciati per un altro, piuttosto che sapere di aver fallito? E infatti solitamente la risposta è: “Ma no, non ho nessuno, è solo un periodo un po’ così”. Anzi, se va bene chi lascia si prende anche delle colpe, si fustiga, ammette responsabilità: “Non ti merito più”, afferma. Quindi, direi, peggio di prima.

Ti prego, torna: ti dimostro di essere cambiato

L’eventuale amante, terzo incomodo, o come lo si voglia chiamare, quando c’è, può senz’altro avere un ruolo fondamentale. Ad esempio può dare al partner indeciso più coraggio, spingerlo ad innescare la separazione. Ma la nuova conoscenza non è mai la vera ragione della rottura. Ed è così che l’altra reazione classica, comprensibile, quasi inevitabile, diventa profondamente cieca, inutile, anzi dannosissima: “Torna con me, stavolta sono cambiato”. 

Il corollario di tentativi disperati di recuperare, facendo ciò che non si è fatto per mesi, o per anni, non è solo patetico, ma deleterio. Se chi rompe non lo fa perché ha un sostituto, ma perché ha maturato una scelta, vede questi tentativi come una sceneggiata, fuori luogo, prima ancora che fuori tempo. 

Questi atti disperati distruggono quel poco di dignità che resta, quel poco di appeal (anche erotica), e di credibilità. Poi anziché a ricredersi, aiutano a pensare di aver fatto la cosa giusta. Se una persona è incapace per anni di dire o fare delle cose, e invece ora le fa a ripetizione, perché teme di essere abbandonata, allora forse la storia merita davvero di essere chiusa. 

Implorare di non essere lasciati, durante una crisi di coppia, è un altro tentativo di mettere sé stessi, le proprie esigenze, davanti alle ragioni dell’altro. È un atto di puro egoismo, ossia proprio l’ultima cosa da mostrare ad un partner preso dai dubbi, a cui abbiamo cominciato ad andare stretti.  

Hermione Granger: la Natasha Rostov del nostro tempo

Raramente un personaggio letterario entra nelle fantasie del pubblico così in profondità, da rappresentare archetipi di cultura collettiva. Uno di questi è senza dubbio Hermione Granger, la protagonista femminile della saga di Harry Potter, che il lettore certamente conoscerà, senza il bisogno di altre presentazioni.

Dico raramente perché la letteratura è piena di eroi, anche molto ben riusciti, ma che in genere non escono dai libri, per entrare nel nostro inconscio collettivo. È questo il caso, invece, di Rossella O’Hara di Via col vento, per esempio, che nella battuta finale del film incarna tutta la speranza che riponiamo nel domani. O di Perpetua dei Promessi sposi, talmente caratteristica da dare il nome a tutte le donne a servizio dai sacerdoti. Oppure di Natasha Rostov, che oltre ad essere la (co)protagonista di Guerra e Pace, riesce a rappresentare il prototipo della donna ottocentesca (e non solo). E poi c’è lei, Hermione Granger, non a caso l’unico personaggio di fantasia che mi viene da associare a questi esempi immortali. 

Abbiamo già detto di come alcuni personaggi della letteratura (del cinema, della tv, ecc…) abbiano un potere speciale: esistono pur senza essere mai esistiti. E questo perché hanno vissuto dentro di noi. Alcune persone depresse sono disperate, morte dentro, proprio perché sentono di non esistere nella mente di nessuno. È vivere nella mente di qualcuno, dunque, che discrimina tra essere o non essere. E alcuni eroi della fantasia sono molto più di individui reali, proprio perché vivi nella mente del pubblico. 

Hermione Granger arriva nella vita di Harry Potter, e del suo amico Ron Weasley, in maniera rocambolesca. Ha l’antipatia tipica della ragazzina del primo banco, la più brava, quella che mai confesseresti di amare. E infatti, forse, l’amiamo da subito, anche da quando ci sta ancora visceralmente antipatica. È così perché sentiamo che ci assomiglia, ha la stessa foga di quando siamo in difficoltà. E quando dobbiamo mostrare di sapere, dobbiamo dimostrare il nostro valore. E questo per il femminile, nel mondo della scuola, ma non solo, è tutt’altro che affare da poco. Draco Malfoy, invece, (gli dedicheremo un altro spazio) non deve dimostrare niente a nessuno, è pieno di sé, e per questo ne abbiamo una repulsione strutturata. 

Hermione ci cattura. La sorte (ma sarebbe comunque questione di tempo) consente di mostrare ai tre i veri volti reciproci, l’amicizia tra loro matura, e la ragazza si mostra per qualcosa di diverso. È l’intelligenza a farla saggia, non la paura. È la sua natura Babbana a farla rispettosa della legge, non il falso moralismo. Ecco che qui Hermione esce dalla finzione letteraria, per entrare nella storia di ciascuno di noi, forse ancora di più del protagonista, la cui vita pre Hogwarts ha un che di paradossale. 

In Hermione non c’è niente di paradossale, c’è soltanto la tenacia di tutti quelli che non si rivedono in Malfoy. E infatti (già segretamente innamorati), segretamente cominciamo a fare il tifo per lei, a sperare in lei, quando c’è da salvare il nostro eroe, a sognare il suo ritorno quando si caccia nei guai. 

Perché in fondo lo sappiamo: nel nostro mondo la magia non c’è, e quando non è possibile risolvere le cose con un colpo di bacchetta magica, se almeno avessimo lei, accanto, tutto ci apparirebbe enormemente più facile. E non è poco, per un’eroina fantastica. Hermione Granger è una novella Natasha Rostov, potremmo dire. Nella certezza che nessuno se ne prenderà a male.  

La coppia separata dalla morte

Nel film Ghost del 1990, Demi Moore e Patrick Swayze interpretano una coppia spezzata da una morte accidentale. I due ragazzi, tuttavia, rifiutano la nuova condizione, e attraverso una serie di espedienti trovano il modo di tenere in vita la loro relazione. Al netto della finzione cinematografica, questa condizione non è così rara. Sono tanti, infatti, gli individui che negano fortemente la dipartita del congiunto, e in maniera magica ne perpetuano il ricordo, continuando a considerarlo parte dalla loro vita quotidiana. 

Negazione

La tendenza a considerare il compagno deceduto come ancora vivo, presente, e protagonista nella vita di chi resta, è una lama a doppio taglio tutt’altro che facile da manovrare. Da un certo punto di vista, è assolutamente comprensibile portare avanti dei progetti, sapendo che sono stati sognati e condivisi con l’altra persona. E una volta raggiunti, è naturale che il pensiero corra anzitutto a chi ha visto nascere quel cantiere, che mai vedrà concludere. 

Alcune persone, però, conservano molte abitudini della coppia, persino un’identità a due, come se l’altro non fosse mai andato. Qualcuno lascia vuoto il posto a tavola,  qualcuno mantiene gli stessi orari, c’è persino chi continua “a fare come se” l’altro ci fosse ancora. Il pensiero magico, in questi casi, è dietro l’angolo: alcuni arrivano a considerare telefonate, incontri casuali per la strada, piccoli/grandi eventi quotidiani come indotti direttamente dalla presenza dell’altro. 

La negazione è il primo ostacolo che riguarda la scomparsa di un compagno. Quando la coppia separata dalla morte continua a esistere nella mente di chi resta, che insiste a sentirsene parte, molto sovente si tratta del preludio ad una caduta depressiva più importante. La negazione, infatti, non può protrarsi a lungo, proprio perché la sua perpetrazione potrebbe portare a distorsioni importanti del piano di realtà. 

Per capirci, potremmo citare un altro film celebre, Psycho di Alfred Hitchcock. In quel caso la negazione della morte (della madre, nella fattispecie) raggiunge un livello di rigidità tale da sfociare nel grave disturbo mentale. 

La sorte della coppia

È giusto mantenere in vita una coppia sciolta da una causa esterna? In tutti i casi di separazione, la prima cosa da metabolizzare è che l’altra persona non c’è più. Quando   una coppia finisce, sovente c’è un periodo di strenui tentativi, anche disperati, di ricucire, di recuperare, di mostrarsi diversi. È una cosa dannosissima per la salute di entrambi: di chi lascia, perché in cuor suo ha già metabolizzato, e sente solo come invadente tale atteggiamento, e di chi viene lasciato, che cerca di andare contro la propria natura. 

Prima si comprende che la relazione tra due persone è diventata impossibile, e meglio è per entrambi. Al di là delle credenze religiose, che rispetto, ma che non fanno parte di questa trattazione, la convinzione che la relazione con una persona deceduta possa continuare, è, per quanto commuovente nelle ambizioni, fortemente deleteria nelle conseguenze. 

La più importare delle quali è che chi resta non supera il vuoto della perdita. Anzi, nel negare che la perdita sia mai avvenuta, ritarda la presa di coscienza del dono che l’altro ci ha fatto, regalandoci il suo tempo terreno. Come tutte le cose passate, che non solo rivivono nel ricordo, ma si strutturano dentro di noi diventando parte della nostra identità profonda, anche le relazioni, persino le più negative, mettono dei mattoncini nella nostra storia. 

“L’amore che hai dentro, portalo con te” con queste parole Patrick Swayze saluta Demi Moore, nel film da cui siamo partiti. Molto probabilmente è qui la svolta per sopravvivere alla morte di un partner: si tratta, infatti, delle parole che non sentiremo mai, ma le uniche che ci autorizzerebbero ad andare avanti da soli. 

La gelosia patologica

Avete mai visto un musicista geloso del suo strumento? E un botanico delle sue piante, o uno scrittore difendere le bozze del suo prossimo libro? Entro certi limiti, come tutte le manifestazioni dell’animo umano, anche la gelosia è un fatto fisiologico. Anzi persino positivo, perché ci parla di affezione, attaccamento, amore. 

Il tango della gelosia

Proprio questo attaccamento, però, può essere una lama a doppio taglio. Il nostro naturale istinto (ben educato dal modello sociale del capitalismo), ci porta a controllare le manovre che gli altri compiono intorno alle nostre proprietà. È un fatto istintivo: temiamo che ciò che è nostro possa finire in mano altrui. D’altro canto, sentiamo anche un piacere intimo quando agli altri piace qualcosa che ci appartiene, anche se talvolta non vorremmo ammetterlo. Il complimento per la nostra bella auto, per quanto vecchia, fa certamente piacere, così come l’apprezzamento per una foto scattata anni fa, un canzone scritta in gioventù, o un progetto realizzato contro il parere di molti. 

Lo stesso vale, inevitabilmente, per le relazioni amicali o affettive, anche se, evidentemente, e qui dovremmo aprire una parentesi troppo grande da poter essere chiusa, una persona non ci appartiene come uno strumento musicale, un’automobile, o un progetto artistico. Quello che ci appartiene di una persona è la relazione che abbiamo con lei. È di quella che siamo gelosi, perché ci entra in profondità, e determina, in qualche modo, ciò che noi siamo ai suoi occhi. 

Mio fratello, mia moglie, la mia psicoanalista: in questi casi il possessivo non si riferisce alla persona, ma al legame, ed è un legame di cui siamo gelosi, perché rappresenta qualcosa di piuttosto esclusivo nella nostra vita. Di fratelli, al massimo se ne possono avere alcuni, di mogli si potrebbe arrivare a tre o quattro, di psicoanalisti, se tutto va bene, nella vita ne avremo uno soltanto. 

Relazione e attaccamento

Ecco quindi che cominciamo a legare la gelosia con la relazione, ossia con ciò che noi siamo, o rappresentiamo, per l’altra persona. Il musicista geloso del suo strumento, per tornare all’esempio iniziale, ad un certo punto sposterà la gelosia sulla competenza, ossia su quello che succede tra lui e lo strumento (che forse non possiamo chiamare relazione.) E penserà che, per quanto altri possano avvicinarsi a suo oggetto, quelle determinate note, con quella certa intensità, potrà produrle soltanto lui. 

Le relazioni affettive, invece, sono determinate dal modello di attaccamento a cui facciamo riferimento. Se siamo stati abituati a sentire fedeltà da parte degli altri significativi, ci aspetteremmo, per natura, fedeltà. Se abbiamo una storia di abbandoni, perdite, di sofferenze legate a figure che ci hanno lasciati per altri, saremmo orientati alla diffidenza, alla paura di essere nuovamente abbandonati, e di conseguenza alla gelosia morbosa, patologica. 

La gelosia, come altre manifestazioni dell’animo umano, è un fatto fisiologico. Ma la gelosia patologica è spesso la traccia di qualcosa di arcaico, di un conto in sospeso con il destino, di una fiducia mal riposta, e che ci ha feriti. Il più delle volte non riguarda la persona verso cui la proviamo, ma qualcosa e qualcuno che viene da più lontano. Anche per questo andrebbe presa seriamente, perché rischia di rovinare tutte le belle relazioni cha abbiamo costruito. E portandoci a confermare, di conseguenza, le diffidenze di cui siamo vittime. 

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