Il Grande Torino: orgoglio e simboli di una città che non c’è più.
Sono molti i simboli di una Torino che oggi non c’è più. Potrei dire dell’Avvocato Agnelli, di Vincenzo Lancia, o di Gustavo Rol. Oppure potrei parlare di Rita Levi Montalcini, di Norberto Bobbio o di Valletta. Oppure ancora della bella Rosina, di Camillo Cavour o del famoso ‘bicerin’.
Il Grande Torino
Invece voglio partire dal basso, dal mito popolare per eccellenza: il Grande Torino.
Il mito di questa squadra di calcio appartiene a, e si fonda su, due epoche storiche differenti: quella sportiva, che va fino al 4 maggio del 1949, data della tragedia di Superga, e quella successiva, che potremmo chiamare della memoria.
La stagione sportiva del Grande Torino è entrata nel mito per lo straordinario numero di vittorie e di record macinati. Si tratta, tra l’altro, di cinque scudetti consecutivi, (a cavallo della guerra, ovvero con altri due non assegnati) e una fornitura di eccellenza di titolari alla squadra nazionale. Nessuno degli appassionati che ha seguito quei tempi è oggi in vita, nessuno può testimoniare di persona, ma gli almanacchi parlano chiaro: Roma, Milano, Firenze ecc… ad ogni trasferta erano lezioni per tutti. Ed è superfluo dire di come quelli fossero altri tempi: i campi, i palloni, le scarpe, tutto era diverso da oggi; Giocare novanta minuti era difficile, e mietere successi indisturbati, soprattutto in trasferta, lo era certamente ancora di più.
Il quarto d’ora granata
E poi c’è la stagione della memoria. Si sa, quando perdiamo qualcosa, la idealizziamo: ma immaginate perdere qualcosa che era già idealizzata. La memoria collettiva dei tifosi del Torino, infatti, è piena dei rimpianti legati a questi personaggi straordinari. Io stesso ne so qualcosa, avendo militato nella squadra intitolata a Gabetto, uno di quegli invincibili.
Nella memoria idealizzata del Grande Torino c’è un particolare, probabilmente la cosa più torinese che abbia mai sentito. E’ il quarto d’ora granata.
Durante le partite in casa, allo stadio Filadelfia, ad un tratto un tale estraeva dalla tasca la sua cornetta da capostazione: si voltava verso i suoi beniamini e ci soffiava a gran forza. Lo squillo rimbombava per lo stadio, e svegliata da quell’acuto il Grande Torino, letteralmente, si trasformava. Cominciava così un terribile quarto d’ora, e per gli avversari erano dolori.
Come dicevo il quarto d’ora granata è la cosa più torinese che abbia mai sentito. E’ un concentrato di determinazione e di responsabilità. E’ come la sveglia del capo famiglia, che vorrebbe dormire ancora un po’, ma sa che deve andare a lavorare per i suoi.
Ecco un simbolo di Torino, (di una Torino che non c’è più?) la cultura del lavoro, la passione per il lavoro. Testa bassa, responsabilità, determinazione. Non c’è dubbio, il quarto d’ora granata non è entrato nel mito perché rappresenta il Grande Torino, ma perché rappresenta la cultura, il sentimento, l’identità profonda di una intera città.
Avrei potuto parlare dell’Avvocato Agnelli, di Vincenzo Lancia, o di Gustavo Rol. Oppure di Rita Levi Montalcini, di Norberto Bobbio o di Vittorio Valletta. O ancora della bella Rosina e del suo mausoleo, di Camillo Cavour e le donne, del famoso ‘bicerin’, di Piero Angela, del Museo Egizio o della Mole Antonelliana.
Ma ho voluto partire dal basso, dal mito popolare per eccellenza. E dal quel quarto d’ora di fuoco, in vero orgoglio e simbolo non solo del Grande Torino, ma dell’intero territorio che lo ha generato.