La cura nelle persone “felici”
Alcuni individui hanno avuto un’infanzia felice, una buona adolescenza, una giovinezza ricca di esperienze ed ora sono adulti di un certo successo.
E’ nostra comune esperienza che queste persone possono essere vittime di attacchi di ansia, di problemi del sonno o di disturbi dell’umore, tanto quanto altre persone, diciamo così, meno fortunate.
Vorrei dedicare alcune righe a questi soggetti. Perché avere avuto una buona infanzia ed essere oggi persone complessivamente ben adattate, diciamo pure persone felici, non mette al riparo da cortocircuiti che possono trasformare un ‘periodo no’ in un inferno.
La grave patologia mentale, con sintomi severi e persistenti, è in genere vista come la vera malattia, dilaniante e insieme invalidante, in grado di scompensare gli equilibri lavorativi, di coppia e familiari. Questo per certi versi è vero, anche se le tecniche terapeutiche hanno fatto enormi progressi, inimmaginabili fino a pochi anni fa. E certa patologia mentale è in relazione, come oggi ben acclarato, con esperienze primarie di deprivazione ambientale, se non di gravi traumi o abusi.
Ma non necessariamente un ambiente facilitante, o l’assenza di gravi traumi, garantisce per il benessere incondizionato, e anzi ci troviamo spesso dinanzi a persone ben adattate al loro ambiente, con una vita piena e tanti interessi, che ad un certo punto cominciano a soffrire per qualcosa che viene da dentro, ma anche da molto lontano, tanto lontano che loro stessi non saprebbero neppure dire da dove.
Una volta che si presenta questa sofferenza, inoltre, scatta quasi sempre un’ulteriore paradossale condizione. Direi quasi una condanna: fatta di pettegolezzi, discredito e spregevoli calunnie.
Alle persone in carriera, di successo, o brillanti e indipendenti non è socialmente consentito avere défaillances. Ansie, angosce, disturbi dell’umore non possono riguardare il primo della classe. Alle persone di successo non è consentito essere umane.
Va così che lo studente universitario, lo sportivo da copertina o l’individuo realizzato con un lavoro stabile, entrano in un vortice da cui non riescono a uscire e alla sofferenza che li attanaglia uniscono la solitudine dell’incomprensione, alla paura che li abita ogni giorno, la perdita della fiducia nel prossimo, che non accetta, de facto, le loro difficoltà, al timore di non farcela le accuse degli altri, che si chiedono che cosa manchi loro per ‘ridursi in quel modo’.
La storia di vita di queste persone è, come abbiamo detto, sostanzialmente felice, talvolta anzi essi hanno avuto tanto dalla vita. Per questo non riconoscono nel loro passato i semi della sofferenza attuale. Alla domanda ‘che motivo hai per avere questi attacchi durante la notte?’ fatta da qualche congiunto, rispondono abbassando lo sguardo ‘nessuno’, e chiudendosi in un silenzio carico di finzione. ‘Che motivo hai per vomitare ogni volta? Cosa ti è mancato nella vita?’ ‘Niente, va tutto bene’. Chi legge può aggiungere da sé altri esempi.
La consapevolezza che le cose siano andate bene, o meglio che ad altri, e il sostanziale scetticismo che li circonda, trascina questi individui in un baratro: mentre a volte basterebbe poco per sentirsi compresi, e ancora meno ad afferrare una verità che è solo lì a portata di mano.
Perché se è vero che la vita è stata buona, proprio questa è la fortuna di questi pazienti: essi hanno dentro di loro tutte le possibilità per drizzare la barra, e superare brillantemente le sabbie mobili.
Immagine di copertina di Florian Schmetz via Unsplash