Pensiero debole: prove di bilancio
Negli anni Ottanta, quando Gianni Vattimo propose il filtro del pensiero debole, il mondo sembrava avviato a una fase di declino delle grandi certezze. Il crollo di muri e ideologie, il tramonto delle narrazioni totalizzanti, la diffidenza nei confronti delle verità assolute: tutto questo si rifletteva in una filosofia che non pretendeva più di fondare sistemi rigidi, ma si apriva alla pluralità dei punti di vista, era “possibilista”.
Oggi, a distanza di decenni, viviamo in un’epoca che sembra muoversi in direzione opposta. Il populismo, nelle sue varie forme, predica verità indubitabili, semplificate, ridotte a slogan. Nel tumulto della geopolitica contemporanea, l’incertezza non è più vista come uno spazio di libertà e dialogo, ma come una minaccia da respingere con dogmi rassicuranti. Quale bilancio possiamo fare, allora, del pensiero debole? Cosa ne è rimasto, in questo ritorno delle garanzie autoritarie?
Un pensiero che accoglie il diverso
Uno degli aspetti più interessanti del pensiero debole, e delle sue diverse declinazioni in psicologia e sociologia (Giorgio Girard, ad esempio), è stato il suo invito a guardare l’altro senza pregiudizi, con l’apertura mentale di chi non pretende di imporsi, ma accetta la propria versione come una delle possibili. Non che si trattasse di un relativismo nichilista, piuttosto di una forma di disincanto, una disposizione mentale, che nel riconoscere la complessità del mondo, faceva della Verità la meta di un viaggio, più che il prodotto di una pubblicità.
In questo senso, il pensiero debole si è rivelato strumento prezioso per approcciare l’altro, il diverso da noi. Ci ha insegnato a guardarlo con dubbio, curiosità, piuttosto che paura. In un’epoca di globalizzazione turbolenta, ha aiutato a costruire ponti piuttosto che muri.
La fragilità di fronte al ritorno dei dogmi
Tuttavia, il post modernismo ha avuto anche i suoi limiti, e con lui il pensiero debole. Ci siamo convinti che la storia fosse finita, che tutti volessero vivere all’occidentale, che la nostra scettica, ma serafica, apertura verso gli altri fosse la stessa che altri avevano verso di noi. L’11 settembre 2001 è stata la campanella che ha segnato la fine della lezione, ma l’illusione ci piaceva, e siamo andati avanti. Siamo così arrivati agli attentati di Parigi, per scoprire che no, gli altri non ridono della religione come facciamo noi.
La rinuncia alle grandi narrazioni e la critica alle verità precostituite, hanno lasciato spazio, in breve, a nuove forme di dogmatismo. Oggi vediamo come i populismi sfruttino proprio la necessità dell’uomo di avere certezze, per potersi muoversi nel suo quotidiano. La cultura debolista degli anni Novanta bollava questo fenomeno come regressivo, ma aveva torto. In una lezione universitaria divenuta celebre, qualcuno domandò al Prof. Girard, collega e amico di Gianni Vattimo, per quale motivo la gente avesse bisogno di verità, se il pensiero debole affermava il contrario. Il docente rispose stizzito, nel brusio degli studenti, che quella era una domanda epidermica. Ecco, quella domanda epidermica oggi è diventata la nuova pelle della società, e il pensiero debole sembra sbiadire come un ricordo di gioventù.
Inoltre, la sfiducia nei confronti dei sistemi forti ha spesso portato a un indebolimento delle istituzioni democratiche. Se tutto è relativo, se ogni discorso è solo un punto di vista, allora diventa più difficile difendere principi fondamentali come i diritti umani, la libertà di espressione, la giustizia sociale,ecc… . In quegli anni andava di gran moda un’espressione, oggi sparita dalle locuzioni popolari: “Chi l’ha detto che si fa così? Dove sta scritto?” Paradossalmente, il pensiero debole ha aperto ad una maggiore tolleranza, ma ha anche lasciato spazio a narrazioni semplificate e autoritarie. Oggi, qualunque meme di Instagram afferma, qualsiasi influencer offre verità indubitabili, ogni politico sa come andrà a finire.
Quale futuro per il pensiero debole?
Cosa può offrire, oggi, il pensiero debole? Io direi: la capacità di dubitare, senza paralizzarci, di accettare la complessità, senza cedere alla paura, di riconoscere il valore del dialogo, anche quando sarebbe più facile rifugiarsi nelle certezze assolute.
Amo ricordare la lezione di un illuminato uomo di Chiesa, che consigliò di fidarsi dei pensatori deboli, proprio perché portati, per natura, a non chiudersi a priori. Ecco, direi che questa sia la lezione migliore che si possa trarre dalla filosofia debolista. Cercare il confronto con chi la pensa diversamente da noi, piuttosto che restare nella cerchia ristretta delle nostre – rassicuranti – conoscenze.
Se il pensiero debole ci insegna a dubitare, possiamo cominciare anzitutto a dubitare delle nostre scelte strategiche. Chissà che non ci venga in mente qualche risposta davvero alternativa.