Psicologia del lavoro e del non lavoro
La parte predominante della giornata di chi ha un’occupazione stabile è dedicata a questa occupazione. Va da sé che gli aspetti ‘psi’ del lavoro che facciamo siano gli azionisti di maggioranza della nostra esistenza. Il clima in azienda, le relazioni con i colleghi, il rapporto con il prodotto finito (servizio o industriale che sia) dell’attività svolta, la condivisone o meno di vision e mission dell’organizzazione, sono tutti aspetti che incidono moltissimo sul benessere e sulla motivazione di un lavoratore. Per non parlare del rapporto con il tempo libero, di un eventuale progetto di carriera, del salario e delle sue variazioni. Il post industriale ha portato un progressivo disinteresse verso le problematiche del lavoro, ma anche verso le diverse dinamiche psichiche che dal lavoro vengono smosse. E così le fusioni aziendali, le ristrutturazioni e i vari ricollocamenti vengono spiegati attraverso le opportunità di crescita che rappresentano per i dipendenti, ma (quasi) mai attraverso le delusioni che portano, la decrescita infelice che determinano, e il senso di fallimento a cui l’entusiasmo di un tempo lascia il posto.
Parlando del lavoro c’è poi quella che chiamo la psicologia del non lavoro. Chi non ha un lavoro apre una serie infinta di problemi al resto della società: cosa bisogna offrire a questi individui? Chi deve occuparsi di loro? Quali competenze è necessario che imparino a implementare e quali invece no? Se un’azienda in salute fa formazione perché vuole i suoi dipendenti sempre aggiornati, occuparsi di chi è senza occupazione, dal punto di vista della psicologia del lavoro, vuol dire fornire le capacità di fare domani un lavoro che oggi non si è in grado di fare, o le capacità per costruire un lavoro che oggi non si è in grado di costruire.
Come si vede gli aspetti psicologici dell’attività lavorativa vanno ben oltre i noti ambiti di selezione del personale, formazione e di assessment center, per andare ad abbracciare in pieno la vita lavorativa di una persona. Se vogliamo fare un parallelo possiamo dire che se un paziente viene in terapia da me per un problema di attacchi di panico, poniamo, legato all’ascensore, il mio obiettivo come terapeuta non è solo quello di fargli superare il sintomo, ma deve essere quello di aiutarlo a sviluppare gli anticorpi per le ansie di qualunque tipo. Solo in questo modo sarò certo che fra tre, cinque, sette anni non svilupperà un problema di ansia legata ad un altro stimolo. Per il mondo del lavoro, fatte le debite proporzioni, valgono le stesse regole.