“Noi sappiamo in cosa credere, siamo i ragazzi di oggi noi”. Così cantava Luis Miguel a Sanremo nel 1985, in una delle canzoni più iconiche degli anni Ottanta. La fiducia, l’entusiasmo, la sfrontatezza giovanile si respiravano ovunque in quel tempo, tempo che da lì a poco avrebbe visto la vittoria del modello occidentale nella Guerra Fredda. Oggi le cose sono notevolmente cambiate, soprattutto per le giovani generazioni (Gen Z e dintorni), che come al solito pagano il prezzo più alto di ogni cambiamento.
Duemila e non più duemila
Ai nostri giorni l’Occidente si avvita in una spirale senza fine, e la fiducia nel futuro è un ricordo antico, se è vero che la disillusione galoppa in tutte le sue forme. Le tre promesse occidentali (democrazia, crescita economica, pace) che avrebbero dovuto sancire la fine della storia, e indurre tutti gli umani a diventare come noi, sono entrate tra le leggende dei secoli, come quella del Mille e non più Mille, quella del Prete Gianni o quella di Agilla e Trasimeno.
La prima conseguenza di questa situazione riguarda la politica. Milioni di cittadini disertano ormai sistematicamente le urne, non per negligenza, ma per deficit di vera rappresentanza. La seconda riguarda direttamente la salute mentale: psicopatologia e abuso di stupefacenti dilagano, definendo la nostra società come tra le più instabili emotivamente, e forse anche le più infelici, al mondo.
Come dicevo, sono le giovani generazioni a pagare il prezzo più alto di questa involuzione. Chi ha vissuto il 1989 ricorda che l’entusiasmo per la caduta del Muro di Berlino contagiava tutti, anche chi, amando troppo la Germania, preferiva ce ne fossero due (Cit.). I nati dopo di allora, invece, hanno assistito unicamente allo scivolamento. 11 settembre 2001, Lehmann Brothers, crisi dello spread, Covid-19, guerra in Ucraina.
Il sacrificio di Isacco
La Generazione Z (per comodità narrativa, ma possiamo estendere la riflessione a tutti quelli che hanno memoria unicamente del nuovo secolo) si è trovata con il cerino in mano. I bagordi (che non furono per tutti) sono passati, e la storia, che vive di fatti, chiede a questi ragazzi di fare la loro parte. Nello specifico, chiede spirito di sacrificio. Questo vocabolo desueto, che negli anni Ottanta suonava come una bestemmia, è tornato prepotentemente di moda nel parlare comune, riferito soprattutto ai giovani (categoria generica, bonne à tout faire).
“I giovani sono senza ideali”, sento dire, “Non amano il sacrificio”. Espressione di origine religiosa, “sacrificio” indica l’atto di immolare una vittima agli dei per garantirsene il favore. Perché, quindi, questi giovani, che hanno visto solo il declino, dovrebbero amarlo? Ecco il dramma peggiore di questa generazione: la solitudine.
La pretesa che chi paga per tutti lo faccia con gioia, è un (ennesimo) paradosso occidentale. Abramo trascina sul monte Moriah suo figlio Isacco, per compiere l’estremo sacrificio a Dio, ma Isacco ne è contento? O è, suo malgrado, vittima degli eventi? Allo stesso modo Gen Z è stretta tra due fuochi. Gli imperativi della storia, e le aspettative della società.
Chiedere sacrificio a questi ragazzi potrebbe assomigliare, alcune volte, a spremere un limone: dopo il primo bicchiere, il succo è finito. Ossia, molto probabilmente, Gen Z sta già pagando il cambiamento in atto, più di quanto taluni vorrebbero ammettere. Quando Luis Miguel cantava Ragazzi di oggi era quindicenne, aveva tutto il mondo davanti a lui, e davvero sapeva in cosa credere. La Generazione Z, al contrario, Internet a parte, non è così fortunata. Per questo, credo, andrebbe accusata di meno, e sostenuta un po’ di più.