Categoria: Altri spunti

  • Z: Generazione solitudine

    Z: Generazione solitudine

    Noi sappiamo in cosa credere, siamo i ragazzi di oggi noi”. Così cantava Luis Miguel a Sanremo nel 1985, in una delle canzoni più iconiche degli anni Ottanta. La fiducia, l’entusiasmo, la sfrontatezza giovanile si respiravano ovunque in quel tempo, tempo che da lì a poco avrebbe visto la vittoria del modello occidentale nella Guerra Fredda. Oggi le cose sono notevolmente cambiate, soprattutto per le giovani generazioni (Gen Z e dintorni), che come al solito pagano il prezzo più alto di ogni cambiamento. 

    Duemila e non più duemila

    Ai nostri giorni l’Occidente si avvita in una spirale senza fine, e la fiducia nel futuro è un ricordo antico, se è vero che la disillusione galoppa in tutte le sue forme. Le tre promesse occidentali (democrazia, crescita economica, pace) che avrebbero dovuto sancire la fine della storia, e indurre tutti gli umani a diventare come noi, sono entrate tra le leggende dei secoli, come quella del Mille e non più Mille, quella del Prete Gianni o quella di Agilla e Trasimeno. 

    La prima conseguenza di questa situazione riguarda la politica. Milioni di cittadini disertano ormai sistematicamente le urne, non per negligenza, ma per deficit di vera rappresentanza. La seconda riguarda direttamente la salute mentale: psicopatologia e abuso di stupefacenti dilagano, definendo la nostra società come tra le più instabili emotivamente, e forse anche le più infelici, al mondo.

    Come dicevo, sono le giovani generazioni a pagare il prezzo più alto di questa involuzione. Chi ha vissuto il 1989 ricorda che l’entusiasmo per la caduta del Muro di Berlino contagiava tutti, anche chi, amando troppo la Germania, preferiva ce ne fossero due (Cit.). I nati dopo di allora, invece, hanno assistito unicamente allo scivolamento. 11 settembre 2001, Lehmann Brothers, crisi dello spread, Covid-19, guerra in Ucraina. 

    Il sacrificio di Isacco

    La Generazione Z (per comodità narrativa, ma possiamo estendere la riflessione a tutti quelli che hanno memoria unicamente del nuovo secolo) si è trovata con il cerino in mano. I bagordi (che non furono per tutti) sono passati, e la storia, che vive di fatti, chiede a questi ragazzi di fare la loro parte. Nello specifico, chiede spirito di sacrificio. Questo vocabolo desueto, che negli anni Ottanta suonava come una bestemmia, è tornato prepotentemente di moda nel parlare comune, riferito soprattutto ai giovani (categoria generica, bonne à tout faire). 

    “I giovani sono senza ideali”, sento dire, “Non amano il sacrificio”. Espressione di origine religiosa, “sacrificio” indica l’atto di immolare una vittima agli dei per garantirsene il favore. Perché, quindi, questi giovani, che hanno visto solo il declino, dovrebbero amarlo? Ecco il dramma peggiore di questa generazione: la solitudine

    La pretesa che chi paga per tutti lo faccia con gioia, è un (ennesimo) paradosso occidentale. Abramo trascina sul monte Moriah suo figlio Isacco, per compiere l’estremo sacrificio a Dio, ma Isacco ne è contento? O è, suo malgrado, vittima degli eventi? Allo stesso modo Gen Z è stretta tra due fuochi. Gli imperativi della storia, e le aspettative della società. 

    Chiedere sacrificio a questi ragazzi potrebbe assomigliare, alcune volte, a spremere un limone: dopo il primo bicchiere, il succo è finito. Ossia, molto probabilmente, Gen Z sta già pagando il cambiamento in atto, più di quanto taluni vorrebbero ammettere. Quando Luis Miguel cantava Ragazzi di oggi era quindicenne, aveva tutto il mondo davanti a lui, e davvero sapeva in cosa credere. La Generazione Z, al contrario, Internet a parte, non è così fortunata. Per questo, credo, andrebbe accusata di meno, e sostenuta un po’ di più.

  • La fine dell’Io-pubblicità: oggi, chi siamo?

    La fine dell’Io-pubblicità: oggi, chi siamo?

    L’Io-pubblicità

    Il tramonto del modello politico-socio-economico del capitalismo di stampo americano ci lascia senza identità. La convinzione che il benessere fosse legato al PIL, ossia alla produzione e al consumo di beni, con quella correlazione più o meno diretta tra il suo aumento e il miglioramento delle condizioni di tutti, ci aveva trasformati, nonostante gli avvertimenti, in compratori seriali. Potremmo dire che, ad un certo punto della nostra vita, la tv abbia condizionato i nostri bisogni a tal punto da creare una vera e propria forma di Io-pubblicità.

    Lo spostamento della produzione nei Paesi più svantaggiati, poi, ci ha man mano lasciati soli in questo processo. Inizialmente produttori, siamo rimasti meri consumatori di beni prodotti altrove. E il nostro Io-pubblicità, quel famoso “me lo merito, merito io” della merendina confezionata, ha pian piano cominciato a sgonfiarsi, laddove i vantaggi del nostro identificarci con la dittatura del PIL, non ricadevano più su di noi. Ecco, allora, che l’Io-pubblicità è entrato in crisi, rendendoci sempre più rancorosi, e alla ricerca di altri modi per auto definirci. 

    E dove cercare, quindi, una nuova forma di identità? Sulla base di cosa poter definire chi siamo, chi vorremmo essere domani, e cosa cambiare rispetto a ieri?

    Come nell’Argentina del dopo crisi economica, anche qui ha preso a tornare attuale la  vicenda culturale, scientifica e umana di Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi. Sin dalle sue prime battute, il testo freudiano, e il movimento da lui inaugurato, ruota attorno alla definizione michelangiolesca di scultura, quel “via di levare” che la differenzia dalla altre forme artistiche. Levare è per Freud, (e per tutti noi, suoi nipoti) sinonimo di liberare. Svincolare dai condizionamenti, dalle paure, dalle nevrosi, indotte, inevitabilmente, da altri. 

    Michelangelo: per via di levare

    Se l’Io-pubblicità era il risultato del mettere, dell’aggiungere, (fino a soverchiare) bisogni fittizi, al punto che Vittorio Sgarbi arrivò a dire che è il superfluo a rendere felici (Sgarbi quotidiani), la psicoterapia di stampo psicoanalitico inverte questo paradigma. L’identità di ciascuno di noi è ciò che resta dopo aver tolto ciò che gli altri vorrebbero che fossimo. Sin da bambini sentiamo entusiasmo intorno a noi quando facciamo alcune cose, e questo può trasformarsi in un progetto identitario. Fino a quando, da adulti, non sappiamo se siamo più simili a come volevano, o a come avremmo voluto noi. Ricordo di un paziente piuttosto bravo a giocare a calcio, ma interessato più che altro al tennis. Un amico di famiglia disse ai suoi genitori, quando era bambino, di andarne fieri, perché grazie a lui si sarebbero molto arricchiti. Quella battuta divenne quasi una profezia: il giovane entrò in una spirale di aspettative familiari, volte rinforzare ogni tentativo di fare carriera nel calcio, a scapito della passione tennistica. 

    Questo esempio fa capire cosa intendo per levare. Abbandonare la logica consumistica che non ci alimenta più, dovrebbe aiutarci ad andare verso una ridefinizione della nostra identità come uno spogliarci delle pretese, o dei desideri, altrui. Potrebbe costare fatica, non c’è dubbio. Ma correremmo il rischio, finalmente, di essere felici. 

  • Dio perdona…io no! Tradimento, orgoglio, perdono.

    Dio perdona…io no! Tradimento, orgoglio, perdono.

    Il perdono è uno dei capisaldi della nostra tradizione religiosa, cosa che si riverbera anche nel diritto, in cui per un condannato sono previsti sconti di pena, indulto, riabilitazione penale, ecc… . Abbiamo la tendenza, tuttavia, a considerare il perdono più come una cosa che gli altri debbano a noi, che come un movimento da parte nostra verso chi ci ha mancato di rispetto.

    Il perdono di Dio e dello Stato

    Dio pedona… io no! Questo titolo di un film dell’amata coppia Bud Spencer e Terence Hill, è molto eloquente nel discorso che stiamo facendo. Il Cattolicesimo è spesso ritenuta la religione del peccato. A torto, a mio avviso, perché più che in altre confessioni, o quantomeno in maniera diversa, ruota attorno al concetto di perdono. Dio perdona chi si rimette nelle sue mani, tramite le modalità previste dalla teologia. Non spetta ai teologi sindacare, non è nel potere dei fedeli contrattare. Il perdono di Dio fa parte della nostra storia religiosa e culturale, al punto che nessuno se ne sente offeso, o ne tenta una qualche forma di revisione. 

    Anche lo Stato perdona, in tutto o in parte, chi ha commesso dei reati contro la legge, e anche in questo caso nessuno, in genere, mostra risentimento. Anzi, chi ha fatto un reato è sovente portato a credere che il diritto non faccia abbastanza, che dovrebbe perdonare di più, che le pene sono troppo severe, ecc… . Il perdono verso di noi, in altre parole, non è mai troppo, non è mai a sproposito, anzi è sempre meritatissimo. Anche nelle forme più alte di errore, come quelle del peccato nei confronti di Dio, o di reato verso la legge dello Stato. 

    Lo stesso vale per le offese che rechiamo ad amici, conoscenti, colleghi, partner, e via dicendo. Il credito che riteniamo di avere è pressoché illimitato, sono sempre gli altri a dover fare uno sforzo, venirci incontro, apprezzare i nostri passi verso di loro.

    Io perdono, ma non dimentico 

    Il discorso cambia, e di parecchio, quando siamo noi a dover perdonare per un torto subito. In questi casi, la cosa migliore che si possa sentire è: “Io perdono, ma non dimentico.” Che poi è un modo per dire che non se ne parla proprio. Perché questa disparità di posizione? Perché perdoniamo in quantità minore, e più faticosamente, di quanto vorremmo essere perdonati? Va detto che un’eccessiva predisposizione al perdono, soprattutto nell’ambito della vita di coppia, può talvolta risultare sospetta. Se perdoniamo con leggerezza un partner fedifrago, ad esempio, possiamo dare l’idea di non tenerci abbastanza, oppure di avere qualcosa da nascondere, oppure ancora di essere troppo dipendenti, e accettare qualunque compromesso pur di non perdere la relazione. Tuttavia il perdono non riguarda solo il tradimento in coppia, e  dobbiamo ammettere che, in generale, perdonare è più difficile che chiedere, o aspettarsi, il perdono. 

    Per quanto pacifica, la cosa è talmente paradossale, che merita una piccola riflessione. Anzitutto, chi ci ferisce, lo fa in buona o cattiva fede? E poi, poteva fare diversamente? Avrebbe saputo resistere? Ha seguito se stesso, il suo istinto, oppure no? Queste domande, e altre simili che queste ci suscitano, ci portano in una direzione. Quanto è veramente responsabile chi ci offende con il suo comportamento? 

    Sul perdono, e la difficoltà di perdonare, partirei anzitutto da noi stessi, da cosa avremmo fatto noi al posto dell’altro, e da come vorremmo essere trattati, per giungere poi ad un’altra conclusione. Il perdono, è utile ricordare (Lacan, Kristeva), non si riferisce all’offesa, o al reato, ma alla persona: è un atto relativo all’altro. Non riguarda il furto, l’aggressione o la rapina, ma l’individuo che li ha commessi. Così in coppia, non perdoniamo il tradimento, ma chi lo ha fatto. 

    Il per-dono è un dono a noi stessi

    Inoltre, il perdono libera il futuro. Restare ancorati all’evento che ci ha feriti, che è comunque passato, vuol dire non ripartire. Ecco, allora, la conclusione cui volevo giungere: il per-dono all’altro, sostanzialmente, è un dono fatto a noi stessi. Chiudere quella porta, è autorizzarci a guardare oltre, ad andare avanti. È allora forse questa la difficoltà? Restare fermi al torto subito è uno stop forzato, un drammatico alibi per non continuare a crescere senza l’altra persona. 

    Sta forse qui la ragione per cui vorremmo che, invece, a parti invertite, ci perdonassero tutto? Non riusciamo a capire per quale motivo si ostinino a non ripartire, quando è tutto chiaro, quando tutto è superato, quando ormai tutto è inesorabilmente chiuso nel passato?    

  • Guerra, clima, economia. Come sopravvivere al caos?

    Guerra, clima, economia. Come sopravvivere al caos?

    Abbiamo già definito la condizione attuale, quella che è andata definendosi dopo la pandemia da Covid-19 e la guerra di Ucraina, come la grande frammentazione. Per frammentazione psichica intendiamo la frantumazione della psiche in parti consce e inconsce, che può avvenire in seguito ad un trauma. Nella fattispecie, abbiamo detto di come la nostra opinione sui fatti del mondo sia nella sostanza ambivalente e non definitiva, e di come questa ambivalenza sia il frutto del trauma che ci ha investiti in questa fase storica. Ad esempio, qualcosa dentro di noi ci dice, a tutta prima, che dovremmo stare da una certa parte, e ne siamo assolutamente convinti. Poi, però, dopo averci pensato sù,  cominciamo a non esserne più così sicuri: qualcos’altro ci dice che potremmo stare benissimo anche dall’altra parte. Ecco, servita la frammentazione. 

    Frullato di verità e populismo

    Lo spezzettamento della verità, direi anzi, il frullato di verità, (come quello che ci viene offerto dai social network), corrisponde al frullato della nostra identità, che infatti è sempre meno definita sotto tanti punti di vista. Avete mai notato che nello sport, pensiamo al calcio, ma non solo, non esistono più i ruoli predefiniti? Oggi si dice che un difensore deve sapere fare anche il centrocampista, che l’attaccante deve avere compiti difensivi, e via dicendo. Vale lo stesso nel tennis, nel ciclismo, e così via. Nel nostro lavoro quotidiano, in cui siamo chiamati a ricoprire diversi ruoli, funziona allo stesso modo, in virtù della frammentazione delle logiche produttive, e di conseguenza delle mansioni operative. 

    Il social network è l’emblema del frullato di verità, perché per funzionare ha bisogno di un algoritmo. Se apro un social network, mi appare un elenco di stimoli che in qualche modo confermano le mie preferenze. Ma se, senza volerlo, induco l’algoritmo a propormi un contenuto affine e parzialmente alternativo, oppure è l’algoritmo stesso che decide di gettarmi sabbia negli occhi, il social network mi apparirà come un frullato di contenuti, dal gusto più o meno omogeneo, ma che non assomiglia a nessun elemento conosciuto. Ossia, avrà reso la verità come qualcosa di non afferrabile.  

    In questa nebbia, va da sé che il populismo diventi una lanterna. Il populismo è la scomposizione di un teorema in micro vignette, la soluzione di un problema complesso in poche semplici operazioni. 

    Dal caos al desiderio

    Una soluzione che parta dal basso, invece, e che investa la nebbia nel suo processo di formazione, è quella della rifondazione dell’Umanesimo. Nel discorso che interessa qui, dobbiamo dirci che la fine del desiderio, del sogno e della speranza, è la vera responsabile della disperazione contemporanea. La frammentazione psichica indotta dal trauma socio-politico che ci circonda, e il frullato della verità favorito dalle innovazioni informatiche, non vanno aggrediti con il populismo, ma con la rifondazione dell’Umanesimo. Nella fattispecie, con la rinascita del desiderio

    Sappiamo bene di come gli Italiani abbiano smesso di frequentare la chiesa, di andare a votare, e più in generale di credere nel futuro. La disperazione ci circonda a tutti i livelli, e i dati sul consumo di alcol e droghe, non fa che confermare queste considerazioni. C’è inoltre l’elemento della violenza di genere, che nasconde un grave vuoto interiore, per non dire una recrudescenza psicopatologica, a dispetto di letture sociologiche e semplicistiche. 

    L’importanza di avere qualcosa in cui credere, non è di valore unicamente spirituale (che non sarebbe comunque poco), ma identitario. Muoversi con una prospettiva metafisica, spirituale, inseguire un ideale, è qualcosa che riempie di significato ogni istante della nostra vita. Avere fiducia nella politica e nella rappresentanza democratica, per essere più espliciti, non consente solo di partecipare alla vita pubblica, fornisce anche una ragione per sperare di cambiare domani ciò che oggi non ci piace. E infatti un elettorato che diserta le urne, perché privo di fiducia nel sistema politico, è un elettorato amareggiato, senza sogni, disperato, preda, di conseguenza di suggestioni e fascinazioni. 

    Ecco perché insistiamo sulla necessità di investire in qualcosa che dia significato personale, al di là della corsa individualista all’apparire. Lo sport, l’arte, l’associazionismo, tutto quello che può farci alzare nel cuore della notte per raggiungere un meeting, una biennale, una manifestazione, è un modo per sconfiggere il vuoto interiore, e riempirlo di sogni, ambizioni, significati. In una parola, di desideri.   

  • Il bello e dannato (e anche un po’ furbo): istruzioni per l’uso

    Il bello e dannato (e anche un po’ furbo): istruzioni per l’uso

    Vorrei fare il punto su una figura piuttosto diffusa e, al tempo, fortemente distruttiva delle relazioni affettive, che potremmo chiamare il “bello e dannato”. Questo individuo tende a spargere intorno a sé un fascino seduttivo, a provocare premure e preoccupazioni, ma allo stesso tempo a minare l’autostima e la stabilità in chi lo avvicina, e in qualche modo se ne invaghisce. Questo particolare personaggio (useremo il maschile, ma non è solo maschio) ha la capacità innata di illudere, mantenersi equidistante, e infine di deludere l’altro, ma con la drammatica conseguenza di gettare scompiglio, a volte anche contro la sua stessa intenzione volontaria. 

    Sex appeal

    Il bello e dannato è un individuo appetibile dal punto di vista erotico, che appare un po’ in crisi per alcune sfortunate circostanze, e che fa capire, a chi lo avvicina, che con un piccolo aiuto potrebbe uscirne più forte di prima. Le reazioni emotive di chi cade in questa trappola, di conseguenza, si mescolano alla speranza di poterlo agganciare sentimentalmente, nella fantasia di come potrebbe essere “grazie al mio aiuto”. 

    Sovente il bello e dannato è tormentato, cerca un equilibrio che non trova, e la tendenza a mandare in confusione gli altri, non è necessariamente dolosa. La sua sofferenza lo porta, talvolta, ad abusare di alcolici o droghe, a cercare emozioni forti, ad adottare condotte rischiose, se non autolesive. È questa inquietudine che riversa sugli altri, nella ricerca (questa sì, autentica) di un catalizzatore che riesca a calmare la sua irrequietezza. 

    Le sue modalità di richiesta di aiuto, tuttavia, non sono chiare. Saltano su vari livelli, da quello amicale a quello amoroso, talvolta passando da una seduttività erotica molto forte, che gli serve, tra l’altro, per controllare la situazione. La conseguenza è che chi entra in questo vortice vive una condizione borderline, ossia è molto vicino alla meta, ma anche sull’orlo di una delusione fortissima. 

    Vittima designata

    La vittima preferita di questi soggetti è una persona che cerca delle conferme. Chi  attraversa a sua volta delle difficoltà di natura relazionale, può vedere nel bello, ma raggiungibile, un riscatto alle proprie sofferenze. La vittima ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un’occasione più unica che rara, che, se saprà sfruttare, potrà garantirgli parecchi gradi di successo: aiutare definitivamente questo individuo, conquistarlo, e sistemare, al contempo, la propria situazione sentimentale.

    Questo quadro, però è tutt’altro che auspicabile, perché si basa su uno sbilanciamento di potere, e su una seduzione psicologica. Il bello e dannato, infatti, non cerca una relazione paritaria, ma un bidone in cui svuotare tutte le sue frustrazioni. Non cerca un vero aiuto, ma ha bisogno, anzitutto, di avere saldamente in mano le redini della relazione, che può indirizzare a suo piacimento in qualunque direzione. Inoltre c’è una variabile di ulteriore vulnerabilità, rappresentata dalle compagnie. Può capitare che amici o conoscenti possano gettare benzina sul fuoco, e dare consigli sbagliati, a chi è già sopraffatto da mille dubbi. 

    Il personaggio che abbiamo definito come bello e dannato, quindi, fa leva (involontariamente?) sulle fragilità altrui. Sono queste fragilità, pertanto, che devono essere tenute sotto controllo, quando si cade nella trappola che abbiamo delineato. Ed è proprio a queste fragilità che occorre dare risposte, prima di offrire un soccorso a chi, molto probabilmente, non ha nessuna intenzione di riceverne. 

  • La “terapia dell’orgasmo”: fantasia erotica e desiderio nella donna matura

    La “terapia dell’orgasmo”: fantasia erotica e desiderio nella donna matura

    Arriva un’età in cui la sessualità si svuota un po’ dai classici significati puramente affettivi, si libera da certi vincoli morali, ed entra in contatto con l’autostima e il senso di desiderabilità personale. Per la donna dopo gli “-anta”, (in modo particolare) il desiderio si lega anche al confronto con le nuove generazioni, al dubbio di essere ancora piacente, in definitiva al rapporto con il tempo che passa. 

    Avere un confidente

    La sessualità per la donna matura assume sfumature diverse, soprattutto al tempo dei social network. La fantasia erotica può prendere, ad esempio, la forma intellettualizzata dell’amicizia con un confidente. Avere un’intimità mentale, basata sulla condivisione di opinioni politiche, punti di vista sul mondo, o simili, può dare la sensazione di essere capiti, ma soprattutto la certezza di piacere all’altro. 

    Dico intellettualizzata perché, in una prima fase, confrontarsi sulle idee politiche, o sulle squadre di calcio, ecc… , accorcia le distanze, senza necessariamente esporre verso un interesse, o un coinvolgimento, più diretti. 

    L’amico social ha il ruolo che un tempo poteva essere del corrispondente: a volte soltanto un conoscente, a volte, chi lo sa, anche qualcosa di più. La differenza, enorme, sta nel fatto che ora lo scambio è più veloce, può essere multimediale, e soprattutto privatissimo e sconosciuto agli altri. Inoltre l’amicizia social può essere fisicamente distante, un altro elemento che aiuta a non farla sfuggire di mano, nel caso in cui le confidenze dovessero diventare più esplicite. 

    Fantasia e desiderio 

    Il rapporto della donna matura con la sessualità è condizionato dai cambiamenti nel corpo e nei suoi ritmi. La fantasia erotica e il desiderio, tuttavia, continuano a essere determinanti per il suo equilibrio mentale, come nelle altre epoche della vita. La differenza sta nella difficoltà di esprimere questa esigenza, di parlarne con il partner, perché a volte creduta fuori luogo. 

    La sessualità riflette, come detto, l’esigenza di avere un rimando di amabilità, la conferma di piacere, e di non essere giudicati. In casi come questo la consulenza sessuale si lega al processo di coppia e diventa percorso a due, per riavviare un dialogo che non prescinda dai cambiamenti del corpo, ma ne discenda. 

    Più che in altre occasioni, in questa vale la regola di non affidarsi ai tutorial online, di non ascoltare maestri improvvisati, o consigli generici validi un po’ per tutto. Al contrario, sarebbe molto più importante intraprendere un viaggio insieme al partner, per esplorare fino a che punto le fantasie possono essere condivise, e, possibilmente, inseguite insieme. 

  • Bondage e dintorni: la coppia BDSM

    Bondage e dintorni: la coppia BDSM

    Con BDSM si intende una serie di pratiche sessuali il cui acronimo sta per:  Bondage (legare), Dominazione, Sadismo, Masochismo. L’argomento è, chiaramente, molto privato, e per questo è difficile avere dati statistici certi. Si stima, tuttavia, che circa il venti per cento degli Italiani abbia utilizzato almeno una volta pratiche di questo tipo. In conseguenza a questa alta diffusione nella popolazione, BDSM non definisce automaticamente un comportamento patologico: c’è chi, infatti, l’ha sperimentato per curiosità, chi per noia, o chi semplicemente perché incuriosito sul tema dal partner o dalle frequentazioni amicali. Vediamo di fissare alcuni punti su cui definire quando il ricorso massivo a condotte sadiche e/o masochistiche può essere definito patologico. 

    Provare dolore per provare piacere

    Il primo elemento da analizzare e su cui riflettere. In genere, per ottenere un piacere ricerchiamo il piacere, e per provocare agli altri un dolore, infliggiamo dolore. La cosa è talmente pacifica che nessuno penserebbe mai di mettere del sale nel caffè, per gustarlo meglio. Così come nessuno calzerebbe delle scarpe strette, per passeggiare più felicemente, o farebbe un bonifico a un suo nemico, per fargli un dispetto. La percezione che abbiamo di ciò che è piacevole e di cosa non lo è, così come appreso negli anni sulla nostra pelle, ci conduce a fare tutti i giorni la scelta più desiderabile, e scartare le altre. Nelle pratiche BDSM, al contrario, vige un’equivalenza differente: per aumentare, o prolungare, il piacere infliggo a me stesso, o all’altro, delle costrizioni o delle punizioni

    Avere atteggiamenti sostanzialmente sadomasochistici non è tipico della sfera sessuale. Alcune culture organizzative sono basate proprio sulla capacità stoica di sostenere sforzi eccessivi, nell’attesa di un riconoscimento successivo. Per non parlare delle privazioni previste da certe pratiche religiose, che molti attuano ciclicamente. Nessuno si sogna di definire patologiche tali rinunce. Chiaramente deve esserci una misura, un limite, che può essere quello di quanto, concretamente, si consideri piacevole la privazione, la punizione o l’umiliazione, (nel caso delle pratiche BDSM). Ossia il limite non può essere superato, se la rinuncia diventa un supplizio. Oppure, più propriamente, dovremmo capire quanto essa ci faccia sentire  riconosciuti, quanto ci restituisca un clima confortevole. Perché se un individuo si sente a suo agio quando vilipeso, più di quando non lo è, al punto da aver bisogno di provare dolore, per arrivare a provare piacere, allora le cose cambiano. 

    Il piacere di essere sottomessi

    Un altro punto su cui indagare: la cultura della libertà. Con estrema difficoltà riusciamo a rintracciare tratti comuni del nostro vivere con quello di nostri simili, e infatti, notoriamente, amiamo dividerci su tutto. Tra cittadini italiani, ma anche tra cittadini europei, e così ’ via, non c’è argomento su cui non litighiamo anche ferocemente. La libertà e la democrazia, invece, restano il comune denominatore sotto il quale non siamo disposti a scendere, attaccati come siamo al privilegio di esprimere sempre qualunque nostra posizione, anche la meno sensata, anche la meno richiesta dagli altri.  

    La difesa della libertà, ha condotto, in quest’ultimo periodo, persino alla rivolta del politicamente corretto. Sono state messe al bando espressioni e locuzioni popolari o familiari, perché ritenute irrispettose della dignità e del decoro di individui o della loro professione. Dalle posizioni sessiste al vituperato patriarcato, dalle minoranze linguistiche allo schiavismo, tutto è stato messo in revisione. Luca Ricolfi ci informa che negli Stati Uniti d’America è stata persino modificata la denominazione del cavo per amplificatori musicali jack maschio e jack femmina, perché irrispettosa, e sostituita con la versione più neutra plug e socket. 

    Tutta questa fame per la libertà si stoppa, improvvisamente, davanti al BDSM e alle sue sfumature di grigio. Nel privato qualcuno diventa improvvisamente illiberale, al punto da sottomettere o essere sottomesso. Da dove arriva questa svolta schiavista, quale piacere, concretamente, può fornire? Oppure di nuovo, è un fatto di riconoscimento, di sentirsi accettati, se non altro in quella situazione di sottomissione? 

    Un altro controsenso: il contratto

    Sappiamo di come le pratiche BDSM avvengano, sovente, sotto la copertura di un contratto. Da un lato, evidentemente, il contratto fornisce una difesa in caso di svolta tragica delle torture, anche se ci sarebbe da capire, all’atto pratico, quanto concreta in un’aula di tribunale. Dall’altro lato, cosa secondo me più rilevante, con il contratto si cerca un consenso

    Se sto facendo qualcosa di previsto, concordato, moralmente accettabile, a cosa mi serve un accordo? Sappiamo che i debiti di gioco sono sostanzialmente debiti d’onore, e quindi un patto fatto per gioco, ha un potere vincolante maggiore a quello della parola data? La presenza di un contratto, nelle pratiche BDSM, quindi, è l’aspetto più sinistro, quello che svela qualcosa di più sulle logiche profonde che legano i membri della coppia

    Sottomettere qualcuno, specie se considerato piacevole, dovrebbe essere secondo la propria coscienza. Essere vilipesi, umiliati, o percossi, se piacevole, dovrebbe essere secondo coscienza. Se, al contrario, sto facendo qualcosa di sbagliato, al punto da avere bisogno di un consenso esplicito, forse c’è qualcosa che non va.   

    La coppia BDSM

    Siamo pronti, quindi, a definire la coppia BDSM, che non è semplicemente quella che saltuariamente, per gioco, fa uso di queste condotte: nella coppia BDSM la modalità relazionale tipo è sadomasochista, e le pratiche di dominazione violenta o umiliante non si limitano alla sfera intima. Al contrario, sono la struttura su cui si fonda l’impianto relazionale della coppia, e che, evidentemente, corrisponde ad alcuni principi cardine della psiche individuale dei due partner. 

    Il sadomasochismo della coppia BDSM, inoltre, ha talvolta un funzionamento talmente patologico da dover essere giustificato, scusato, da un contratto: la cosa che in assoluto più allontana la dinamica di una coppia basata sull’amore e il rispetto reciproco, da una basata sulla perversione.  

  • One Mile Smile. Una storia d’amore e non solo.

    One Mile Smile. Una storia d’amore e non solo.

    Winslow, Arizona, 1886.

    La polvere si sollevava lieve sotto i passi di Jack mentre usciva dalla drogheria, il sole battente faceva luccicare i binari della ferrovia poco più in là. Fu in quel momento che la vide.

    Daniel era in piedi accanto al carretto del padre, una cesta di mele strette al petto. Il suo sguardo incrociò quello di Jack per un istante, e poi sorrise. Un sorriso lungo un miglio, uno di quelli che non si dimenticano. 

    Da allora, ogni notte, Jack sognava quel sorriso. E ogni notte si svegliava col cuore in gola, in preda a un’angoscia che non riusciva a spiegare.

    Sapeva bene che non avrebbe mai avuto il permesso di rivederla. “Lasciala stare, Jack,” gli aveva detto suo padre con quel tono che non lasciava spazio a repliche. Suo fratello maggiore lo aveva spinto contro la parete della stalla, ridendo amaro: “Dimenticala, prima che sia troppo tardi.”

    Ma era già troppo tardi.

    In un pomeriggio di fine estate, mentre le ombre si allungavano sulle colline, Jack salì alla vecchia miniera Duke. Portava con sé una bottiglia di liquore fatto in casa dal nonno, e perso nei suoi pensieri, beveva a piccoli sorsi. 

    Si avvicinò al bordo del dirupo. Il vento soffiava dal canyon, portando con sé l’odore della terra secca e del ferro. Jack estrasse dalla tasca un pezzo di carta,  scrisse alcune parole, e lo posò a terra, accanto alla bottiglia vuota.

    Quando i cercatori d’oro lo trovarono all’alba, il biglietto era ancora lì, appesantito da una pietra. C’era scritto solo questo:

    Jack and Daniel Forever.

  • Potere. Una storia di uffici e di ricatti.

    Potere. Una storia di uffici e di ricatti.

    Emanuele entrò in sala riunioni con il tablet in mano e il nodo alla cravatta stretto un po’ troppo. Era il più giovane tra i presenti, e l’aria densa di discorsi sottintesi lo mise a disagio. Sabrina sedeva a capotavola, la schiena dritta, lo sguardo che sembrava misurare ogni cosa.

    “Accomodati, ingegnere”. La sua voce era fredda, tagliente. Ma aveva un sorriso malizioso, di quelli che ti fanno chiedere se sei stato scelto o se sei solo stato preso di mira. Emanuele sedette alla sua destra, nel posto che la direttrice aveva tenuto libero per lui. Poi lei iniziò a parlare, snocciolando numeri e strategie. Aveva la sicurezza di chi sa che nessuno oserà metterla in discussione. Ogni tanto il suo sguardo tornava su di lui, indugiava, lo scrutava con un misto di sfida e compiacimento. E apriva nuovamente quel sorriso malizioso. 

    Quando la riunione finì, tutti uscirono rapidamente. Lui fece per seguirli, ma la voce di Sabrina lo fermò:

    “Emanuele, resta un attimo, per favore. Devo parlarti di una cosa”.

    Il giovane ingegnere si girò, cercando di mantenere un’espressione neutra. Lei si alzò, chiuse la porta con calma, si avvicinò. 

    “Ti trovi bene qui, Emanuele?”

    Lui annuì. “Certo, direttrice”. 

    “Bene.” La voce fredda divenne improvvisamente mielosa. Poi fece qualche altro passo in avanti. Ora il ragazzo poteva sentire il profumo costoso della donna. “Vedi Emanuele”, ancora quel sorriso malizioso, “Voglio essere sicura, come dire?” Con la mano sfiorò la sua cravatta. “Che tu sappia come funzionano le cose in questo ufficio.”

    Emanuele si irrigidì. Aveva capito benissimo. Il tono, la vicinanza, il profumo: era tutto chiaro, chiarissimo. Avrebbe potuto dire qualcosa, o arretrare. Ma il potere era tutto in quel momento, in quell’ufficio chiuso. Quella di Sabrina non era una domanda, ma l’affermazione di dominio su un territorio.

    “Certo, direttrice”. Le parole uscirono dalla sua bocca in maniera meccanica. 

    Quella sera, mentre tornava a casa, Emanuele ripensò a quel momento. Al gelo che gli era corso lungo la schiena, al sorriso di Sabrina: uno di quei sorrisi che non si dimenticano.

  • Friend zone: cosa fare per non finirci.

    Friend zone: cosa fare per non finirci.

    Friend zone, o (friendzone), zona dell’amico, è la situazione in cui, in una coppia di amici, uno dei due è segretamente innamorato dell’altro, o comunque fortemente attratto, ma non può esprimere i priori sentimenti, perché sente di essere visto, per l’appunto, “soltanto” come un amico. 

    Friendzonare qualcuno, quindi, significa inserirlo in quella lista di persone che non ci sentiamo di definire in altro modo che come dei buoni amici. 

    Errata comunicazione

    Nel film Yesterday di Danny Boyle (2019), Jack Malik è un cantautore di scarsa fortuna, che suona nei pub e ai festival di terza categoria, che si tengono nella sua città natale. Nessuno crede in lui come artista, per lo meno fino a quando non trova il modo di riproporre i classici dei Beatles, che nel frattempo il resto del mondo ha dimenticato. Nessuno, dicevo, crede in Jack, tranne la sua manager, autista, amica e confidente Ellie Appleton. Alla festa di addio, con amici e parenti, prima della partenza di Jack per Hollywood, Danny Boyle piazza una scena cruciale: Ellie, in lacrime, confessa di essere da sempre innamorata di Jack, e gli chiede come sia stato possibile che l’abbia inserita nella “colonna sbagliata”, ossia nella colonna “amica”, anziché nella colonna “fidanzata”. Jack trasecola, e scopre di avere friendzonato Ellie, ma il guaio peggiore è che non si è mai accorto di averlo fatto.

    Osservando la coppia di questi due ragazzi, possiamo chiederci se la relazione che culmina con la friend zone non abbia delle caratteristiche tipiche, ricorrenti, che possono essere osservate in anticipo.  

    Anzitutto direi di distinguere la friend zone in due macro categorie: quella in cui si viene friendzonati, e quella in cui, invece, si finisce per friendzonare qualcun altro.  

    Ora, dobbiamo ammettere che la prima motivazione in assoluto per cui si viene visti come semplici amici sia lo scarso interesse. Se non suscitiamo attrazione, se l’altra persona non si sente attratta da noi, sarà molto più facile che ci veda come amico, e difficilmente riusciremo a conquistarla. 

    Una seconda motivazione per cui si finisce in una friend zone, però, riguarda la comunicazione. Se nella vita affettiva ci capita questo spiacevole imprevisto, e soprattutto se ci capita più di una volta, dovremmo chiederci: quale messaggio stiamo inviando? L’errore di comunicazione è più diffuso di quanto si creda, ed è sovente collegato all’insicurezza, o alla paura di essere respinti. In questi casi, talvolta, si tende a mantenere un profilo più basso e distaccato di quanto si vorrebbe, per paura che l’altro capisca il nostro interesse e ci allontani. Il caso di Ellie e Jack, nel film Yesterday, può rientrare in questa seconda casistica. E infatti il ragazzo si innamora immediatamente della sua ex manager, non appena scopre i veri sentimenti di lei. 

    L’assioma di Miss Liceo

    L’altra grande categoria è quella in cui si mette qualcuno nella friend zone, salvo poi pentirsene amaramente. Potremmo definire questa sventurata eventualità come l’assioma di Miss Liceo. Sappiamo tutti che l’alunna, o l’alunno, più in vista della scuola, raramente si fidanza con il compagno di banco, il ragazzino affidabile e premuroso, sempre gentile, disponibile ad aiutare nei compiti. Questa situazione, che certamente può essere indotta da opportunismo, non raramente nasconde, invece, qualcosa di più profondo. Miss Liceo (Mr Liceo) ha un potere enorme su tutti i compagni della scuola. È popolare, fa tendenza, ma soprattutto non ha veri nemici, nessuno contraddice le sue mosse. 

    Immaginiamo Miss Liceo innamorata del compagno di banco: cosa resterebbe della sua popolarità? Dovendo scegliere tra il potere e l’amore, sarebbe indotta a friendzonare l’amico? L’assioma di Miss Liceo, che per la verità si ripete anche in ufficio, in palestra, in spiaggia, e via dicendo, ci suggerisce una riflessione molto importante su noi stessi. Quando siamo noi a friendzonare qualcuno, potremmo chiederci: per quale motivo questa ragazza/ragazzo, non ci piace abbastanza? Siamo davvero sicuri che non sarebbe un successo accettare le sue avance? E ancora, ma qui ci vuole davvero tanta elasticità mentale: quale tipo di immagine interiore di noi stessi metterebbe in crisi, allacciare una relazione con questa persona?