Diego Maradona, Ayrton Senna, Valentino Mazzola. Mito, destino e consolazione.

Nei giorni scorsi abbiamo celebrato l’anniversario della morte di Ayrton Senna e della scomparsa del Grande Torino. La loro vicenda è simile a quella di un altro grande mito dello sport mondiale, Diego Armando Maradona. È simile perché tutti e tre questi pezzi di storia dello sport, condividono un fato avverso e terribile, che li ha piegati proprio nel momento di massimo splendore.

Amati in vita, compianti dopo, la ragione del mito che li circonda, tuttavia, non sta nella loro popolarità. Questi eroi del nostro tempo sono stati, come molte persone che conosciamo, battuti dal destino. Non è un caso se il motto che accompagna i tifosi del Grande Torino, sulla faccia oscura del colle di Superga, è “solo il fato li vinse”. 

Abbiamo bisogno di fissare nella nostra coscienza, individuale e collettiva, alcuni punti cardinali, alcune lezioni, che ci guidino quando siamo nel buio. Una di queste riguarda il lutto e il suo superamento. Il campione dello sport nel fiore della sua carriera, e che sarebbe stata ancora lunghissima, è il migliore emblema di una fine inaspettata e inspiegabile. 

Ayrton Senna è morto nel momento del suo massimo splendore, quando, si dice, avesse nel cassetto un contratto con la Ferrari. Diego Armando Maradona è stato fermato dal suo demone quando il mondo del calcio aveva più bisogno di lui. L’aereo del Grande Torino è caduto proprio alla fine degli anni Quaranta, quando l’Italia stava per prendere il volo. 

Il mito è saggezza popolare, è cristallizzare una lezione affinché non venga dimenticata. Se c’è un insegnamento dietro al mito di Valentino Mazzola, di Ayrton Senna e di Diego Maradona, è che la vita non guarda in faccia a nessuno. È la consolazione che l’inevitabilità del destino non riguarda solo noi persone comuni, ma anche loro, gli dei dell’olimpo dello sport. È questa loro umanità che ce li fa amare così tanto, proprio loro che tanto umani, in fondo, davvero non sembravano. 

Elogio del cretino

Il cretino ha una funzione psicosociale, ci rassicura. Molto spesso ci sentiamo circondati da imbecilli e imprechiamo la nostra sorte. Ma impropriamente, perché essi non sono poi così numerosi. Inoltre, sono molto più utili di quel che crediamo.

Le funzioni del cretino

Anzitutto, il cretino è un collante straordinario con il nostro amico più prossimo: diamo di gomito, e insieme lo commiseriamo. Questo aspetto è importante, perché crea legami tra persone che si stimano più di quanto ne stimino altre. Dividerci in sottogruppi determina un’identità. Prendiamo gli iscritti a un partito politico, i membri di un fan club, o i tifosi delle squadre di calcio. Creare una categoria di persone in cui identificarsi, con caratteristiche diverse da un’altra categoria, avversa, crea e rafforza un senso indentitario. Così, irridere qualcuno perché fa cose che riteniamo stupide, crea aggregazione con individui che sentiamo più simili a noi, ossia insieme ai quali ci consideriamo meno stupidi. 

E poi, il più delle volte, il cretino suscita riso, ilarità. Anche bonaria, ma più spesso sarcastica. Quindi quando alla presenza di qualcuno un po’ bizzarro scambiamo occhiate con altri, lo commiseriamo per errori che noi non faremmo, e ne ridiamo, gli stiamo assegnando il ruolo dell’imbecille. Ecco, queste due funzioni non sono per niente negative. Se una persona con il suo comportamento ci fa avvicinare a qualcuno che in fondo stimiamo, e per giunta ci strappa qualche sorriso, piuttosto che deriderla, dovremmo ringraziarla.

Non superiori, ma fortunati

In ultimo, ma non per ultimo, il cretino ci fa sentire fortunati. Di tutte le forme di discriminazione, questa è la meno vigliacca, anzi direi persino la più funzionale. Discriminare persone svantaggiate sotto qualche aspetto, perché ad esempio hanno un handicap fisico o mentale, o fanno parte di una minoranza, come può essere un ceto sociale più basso o più alto, è atteggiamento razzista, o quantomeno classista. 

Discriminare definisce una superiorità, e sentirci superiori a chi ha uno svantaggio non è cosa tanto nobile. Ma discriminare un imbecille è questione di lana caprina, perché in fondo ciò che uno reputa stupido, un altro lo può ritenere furbo. Così il punto vero non è la superiorità, ma quel senso di benessere, di sollievo, che ci prende quando diciamo “per fortuna, noi non siamo come lui!”. 

Ecco alcune considerazioni che dovrebbero farci gioire, e non imprecare, quando incontriamo un cretino. Che in fondo va difeso, tutelato, forse persino incoraggiato, a fare ancora nuove cretinate. 

La coppia infantile.

Il percorso di crescita è in genere una corsa verso l’età adulta, una sua anticipazione, talvolta persino uno scimmiottamento. Vi sono individui, invece, che in coppia rifiutano il ruolo di adulti, e giocano a fare i bambini. 

“Io sono grande”

Sappiamo tutti di quanto i bambini tengano a sottolineare il loro grado di sviluppo, e quanto vengano rafforzati in questo dagli adulti che si occupano di loro. A scuola, per esempio, amano aiutare dei compagni più piccoli, per senso di responsabilità, oppure a casa assicurano di poter assumere certe iniziative, perché “io sono grande”. 

Il mondo che li circonda, del resto, tende a premiare questo atteggiamento, per insegnare loro l’autonomia, e renderli consapevoli delle loro azioni.

Questa dinamica non si perde con la prima infanzia, anzi continua ad essere presente in ogni fase di crescita. L’adolescente e il giovane rincorrono l’adultità come se fosse uno status sociale. I ragazzi sognano di guidare l’auto, di uscire da soli con gli amici, di firmare i libretti scolastici. I giovani adulti sognano cose diverse, ma pur sempre cose “da grandi”: tutti abbiamo sentito la frase: “Oggi compi 18 anni, finalmente potrai…”. Al bambino e al giovane, sovente, la loro condizione sta stretta. 

Responsabilità

Vediamo coppie, invece, in cui la situazione si ribalta, e invece di fare gli adulti, i loro componenti giocano a fare i bambini. Anche questo è un caso di coppia sul viale del tramonto, ma in maniera diversa dalle altre. La cosa che sorprende di più non è la difficoltà di prendere atto della crisi, piuttosto la fuga (immaginata) dal ruolo di adulto e dalle responsabilità che esso prevede. E ovviamente tra le responsabilità c’è anche quella di fare parte di un progetto di vita condiviso. 

Supponiamo per un istante di entrare in una sala operatoria durante un intervento, e di imbatterci in una equipe che si comporta come una classe di bambini. L’anestesista che rincorre l’infermiere, disordine ovunque, e tra urla e schiamazzi il paziente abbandonato in un angolo. E poi supponiamo ancora di entrare in un parlamento e trovare una situazione analoga: aeroplanini di carta, sbadigli, chiacchiere a mezza voce. Che impressione ne avremmo? Penseremmo senza dubbio che le persone che vediamo vorrebbero essere altrove, che non hanno nessuna voglia di fare quello che stanno facendo, e che trovano più divertimento nei comportamenti infantili, che soddisfazione professionale dal loro impegno. 

Questa è la stessa impressione che si può avere dalle coppie infantili. Quando due persone si divertono di più a fare giochi, sketch, battute infantili, piuttosto che vivere il presente o progettare cose da fare insieme, molto spesso è perché queste ultime non darebbero maggiore soddisfazione, o più semplicemente queste persone vorrebbero essere altrove. 

Quindi la riflessione si sposta dal fatto stesso che la coppia sia in crisi, al peso della responsabilità di doverlo ammettere. E come abbiamo detto, è proprio la responsabilità una differenza importante tra l’infanzia e l’età adulta.  

Jannik Sinner: la cultura della fatica.

Il training psicologico nello sport riguarda competenze che, come le abilità tecniche, possono essere potenziate. Il caso Jannik Sinner, giovane orgoglio del tennis italiano, mette in evidenza una capacità sottostimata, nello sport professionistico: la resilienza alla fatica e al sacrificio. 

Competenze allenabili, e non allenabili

Nello sport si contano almeno tre categorie di aspetti mentali. Quelli donati dalla natura, come la capacità di gestire lo stress di gara, o la concentrazione. Quelli condizionati dall’inconscio, o da eventi del passato dell’atleta, come la paura di infortunarsi nei contrasti, la fiducia in sé stessi, o la tendenza a serbare rancore. E poi vi sono gli aspetti più dipendenti dalla volontà, o quantomeno dalla motivazione interna, come seguire una dieta alimentare, avere una vita regolare, ecc… . L’attitudine al sacrificio, al lavoro duro, e più in generale la resilienza alla fatica, appartengono al terzo tipo. 

Ciascuna di queste tre categorie prevede percorsi diversi di preparazione mentale, ma quella che abbiamo citata per ultima risulta la meno “allenabile”, almeno per gli atleti maturi. Essa è infatti più legata alla personalità dell’individuo, alle sue disposizioni interiori. Diego Maradona, in Italia, amava molto frequentare gli amici, mentre Cristiano Ronaldo faceva una vita ritirata, mettendo al primo posto il suo lavoro. E potrei fare altri esempi. Gli sportivi affermati hanno già strutturato una loro modalità di integrare vita privata e attività agonistica, ma gli emergenti possono fare ancora molto per aggiungere questo aspetto nel loro bagaglio professionale. 

La cultura della fatica è un asset strategico dell’atleta

Jannik Sinner ci mostra che la resilienza alla fatica e al sacrificio non è una competenza secondaria. La motivazione interiore, diremmo intrinseca, nell’affrontare qualunque attività della vita, ma soprattutto nello sport professionistico, codifica per una maggiore tendenza al costante miglioramento, o al mantenimento dei livelli raggiunti. 

Esistono diversi espedienti per migliorare la motivazione intrinseca, uno di questi è fare leva sull’orgoglio, un altro sugli obiettivi personali, e così via. La cosa importante è che il giovane atleta, il suo staff tecnico, e tutte le persone che lo circondano, non sottovalutino la portata di questo che è a tutti gli effetti un asset della sua vita professionale. 

La cultura della fatica, in altre parole, non è un valore da proporre soltanto agli atleti meno dotati, quelli che devono sopperire con il duro lavoro alle lacune tecniche, ma può fare la fortuna anche dei più bravi. E la parabola di Jannik Sinner lo testimonia chiaramente.  

Luci e ombre nella sanità digitale

All’interno di un progetto di Sloweb, l’associazione che promuove l’uso responsabile degli strumenti informatici, del web e delle applicazioni Internet, ho tenuto, insieme a Giovanna Giordano, una conferenza dal titolo “Luci e ombre nella sanità digitale.”. Riassumo qui i temi principali dell’intervento, a cui è seguito un interessante dibattito, che per ragioni di spazio, però, non potrò riportare. 

Il digitale è entrato in ogni ambito della nostra vita, dal lavoro, all’istruzione, dai rapporti sentimentali, alla militanza politica, allo svago, e, naturalmente, anche alla sanità. L’intelligenza artificiale (AI), e più in generale tutto ciò che è “digitale”, in ambito sanitario, ci inquieta particolarmente, e per questo è bene parlare da subito dei vantaggi, degli svantaggi, e soprattutto dei fantasmi che le nuove applicazioni ci suscitano. 

Abbiamo sempre avuto un rapporto di fiducia personale con il nostro medico, basato sul fatto che ci conosca meglio di chiunque altro. Sa bene quali malattie abbiamo avuto nel corso degli anni, quali hanno avuto i membri della nostra famiglia, e ha sviluppato una modalità complessiva di accudimento nei nostri confronti, non legata soltanto ai sintomi, una modalità che tenga conto anche dello stress, delle preoccupazioni del momento, ecc… .

La rivoluzione digitale mette parzialmente in crisi questo modello, e nel moltiplicare le opportunità diagnostiche, ci allontana dal medico, frammentando di conseguenza la fiducia che nutriamo in lui (lei) e nelle soluzioni che ci consiglia. 

Curarsi con Google

Anzitutto è bene sottolineare come il digitale stia portando innovazioni tecniche e opportunità prima neppure immaginabili: pensiamo alle protesi, alla robotica, alla chirurgia da remoto, ecc… . Tuttavia, uno degli aspetti più pericolosi oggi, è la possibilità di rintracciare sul web informazioni su sintomi, diagnosi, tecniche terapeutiche, e simili. Tutti abbiamo cercato informazioni sulle malattie dei nostri cari, consultando un vocabolario o un’enciclopedia medica, ma la ricerca sullo smartphone è cosa differente. 

Quando un tempo correvamo a casa, spaventati, dopo un incontro col medico, attingevamo a fonti di cui conoscevamo la validità. L’enciclopedia edita dalla grande casa editrice, il dvd del luminare del famoso ospedale, al più gli appunti del corso di primo soccorso fatto al lavoro, ecc… .  Forse non erano fonti aggiornate, ma erano certamente valide, ne potevamo certificare la qualità. L’importanza delle fonti, come in ogni ambito del sapere, non è cosa secondaria. 

Se oggi in preda all’ansia apriamo Google, e cerchiamo informazioni mediche, il più delle volte ci infiliamo in un vicolo cieco. Anzitutto perché non sappiamo quali siti siano più credibili di altri. Un motore di ricerca che ci presenta una pagina, non conosce la validità di ciò che quella pagina contiene. E poi ci infiliamo in un vicolo cieco perché Google non ha studiato medicina. Un medico fa buon uso delle informazioni reperite su internet, perché le combina con la sua competenza medica, la sua esperienza, e con quello che sa di noi. Solo un professionista è in grado di usare correttamente i risultati di una ricerca in rete.

La psicosi da algoritmo

Un altro aspetto controverso della nuova epoca digitale, è la fiducia che abbiamo nei medici che adoperano strumenti nuovi e ancora in via di perfezionamento. Diamo loro la stessa fiducia di un tempo? Quando il medico appoggiava l’orecchio sulla nostra schiena, e diceva “dica trentatré”, o quando ci metteva due dita sul polso, e guardando l’orologio misurava la frequenza cardiaca, avevamo in lui (lei) una fiducia cieca. È lo stesso ancora oggi, quando in equipe osservano dentro di noi, ma non guardano verso di noi, ma lo schermo di un Pc? 

E poi c’è la psicosi da algoritmo. Il dott. Fabio Mellano, psicologo clinico e neuropsicologo, ha proposto il termine psicosi da algoritmo per definire una specifica forma di psicosi di riferimento, indotta dall’esposizione massiva ai social network. Io sostengo che, in senso lato, questa espressione possa definire tutte le situazioni di accesso indiscriminato, e senza limiti, al web. Per funzionare, un social network ha bisogno di seguire alcuni parametri, essendo impossibilitato a mostrare i post che vengono pubblicati in tutto il mondo, in un determinato istante. Questa modalità di funzionamento, però, può indurre l’utente a ritenere che la realtà stia girando intorno a lui (lei) e che in qualche modo sia una sua stessa emanazione. 

Questa distorsione amplifica, ad un livello profondo, inconsapevole, il senso di onnipotenza, nonché il narcisismo, in quanto il fruitore entra in una bolla disegnata su sua misura dall’algoritmo. 

Spegnere i dispositivi 

A tal proposito torna utile la lezione insegnataci dal giornalista Mario Calabresi. Egli scoprì, durante un’intervista, che l’amministratore delegato di una grande società di telefonia, spegne tutti i dispositivi elettronici al termine della sua giornata lavorativa. Quest’uomo si reca a casa e trascorre alcune ore con la famiglia, fino a dopo cena, quando nuovamente accende i dispositivi e risponde a chi lo ha cercato. 

Il flusso delle informazioni, e soprattutto il flusso delle comunicazioni, può essere fermato. Con quali vantaggi? Provare per credere. 

Ecoansia. L’angoscia per i cambiamenti climatici, fuori dal nostro controllo.

Donal Trump affronta il problema del riscaldamento globale con una battuta: “Si alza il livello delle acque? Bene, avremo più case con vista mare!”. L’ottimismo dell’ex (futuro?) presidente Usa, però, non è condiviso da tutti, e infatti sono molti a sviluppare sintomi di ecoansia, “la paura che si prova al pensiero ricorrente di possibili disastri ambientali” (Treccani).

Controllo

Vorrei mettere in evidenza alcuni tra gli aspetti fondativi dell’ecoansia. Il primo è la perdita di controllo per quello che ci capita. Quando a livello individuale sviluppiamo problemi legati all’ansia, in genere essi riguardano la paura di usare l’ascensore, di salire sull’auto di altre persone, prendere un aeroplano (e simili). Ossia situazioni in cui siamo assoggettati agli eventi, e nulla di quello che ci avverrà sarà sotto il nostro controllo. In altre epoche, una forma di paura sociale simile all’ecoansia è stata quella dell’incubo atomico. Anche in quel caso i cittadini erano totalmente dipendenti da scelte altrui, e non c’era nessuna posizione politica, sociale, economica che potesse garantire definitivamente dal quell’incubo. 

Oggi vediamo una situazione simile, le condizioni meteo peggiorano letteralmente a vista d’occhio, e la percezione di essere in balia degli eventi, e di non poter esercitare nessun tipo di controffensiva volontaria, spiazza e mette in crisi. 

Fiducia nel futuro 

Il secondo aspetto che vorrei segnalare, e che spiega perché ho citato Trump, è la paura verso il futuro, la disillusione, la conflittualità globale (ai nostri danni). Gli anni dell’incubo atomico erano anche gli anni della crescita economica, delle conquiste della scienza, delle grandi rivoluzioni culturali. L’ottimismo dilagava in qualunque ambito, le conquiste spaziali da un lato, e i trapianti di organi dall’altro, davano la percezione di un uomo ormai definitivamente padrone della natura. L’esatto opposto di quanto avviene oggi. 

La frammentazione sociale, economica, politica del mondo, come abbiamo già detto diverse volte, corrisponde ad una inevitabile frammentazione psichica. E la natura, che credevamo doma, si rivela infida, pericolosa, matrigna. Ma la frammentazione sociale non colpisce tutti nello stesso modo, come l’ecoansia. C’è persino qualcuno che può vedere nei cambiamenti climatici un’opportunità. È questione di punti di vista.

La fine del sacro non riguarda la natura 

E poi c’è un ulteriore aspetto, la fine del sacro. Inteso come ciò che crediamo inviolabile, insuperabile, la morte del sacro non ha riguardato la natura, e questa per l’uomo contemporaneo è un’onta insostenibile. Il femminicidio ci insegna che persino le relazioni più intime possono essere distrutte, senza vergogna o colpa. Le chiese sono vuote, perché l’uomo ha distrutto l’idea stessa di Dio, non abbastanza adeguata alle sue necessità. La politica, l’arte, tutti i campi dell’idealismo umano sono stati svuotati, piegati, ma non la natura.  

La natura continua ad essere sempre sopra di noi, sempre incontrollata, e oggi sempre più minacciosa. Ecco un’altra coordinata dell’ecoansia. Abbiamo imparato a dominare, persino a mistificare, tutto ciò che è (o dovrebbe essere) sacro, tranne la natura. E questo basta e avanza, per creare angosce profonde e gravemente insostenibili. 

Coppie al capolinea. Come riconoscerle, come uscirne.

La prima relazione in cui siamo coinvolti, appena dopo la nostra nascita, è all’interno di una coppia. La dimensione duale del rapporto con la madre, (o con chi ne fa le veci) influenza, di conseguenza, ogni rapporto a due che incontriamo nel corso della vita. Ci sono relazioni che ci ricordano quella primaria modalità di accudimento, ce ne sono altre totalmente diverse, e altre ancora che ne condividono soltanto alcuni aspetti. Vivere in coppia è difficile, perché arriva sempre il momento in cui la persona amata non risponde alle nostre aspettative, che derivano da quella esperienza primordiale. 

Relazioni tossiche

Ad ogni modo, non tutte le dinamiche che non rispettano le aspettative sono finite, ad alcune, in realtà, ci si può adeguare. Del resto a questo serve l’innamoramento, a trovare la forza di superare le differenze, per preservare qualcosa di più grande. Ci sono invece altre relazioni, che palesemente hanno esaurito la loro carica propulsiva, in cui le differenze diventano ogni giorno più pesanti. In questi casi non serve resistere, nascondersi dietro l’amore che si prova, perché il più delle volte è un amore “tossico”, e queste coppie sono al capolinea. Un esempio di relazione tossica è quella basata sull’asimmetria. Se c’è uno sbilanciamento di potere, come nel caso della violenza di genere, o della dipendenza affettiva o economica, in cui una delle due parti è soggiogata all’altra, l’“amore” che si prova non è sempre genuino, perché “intossicato” dalla necessità. 

Mind games

Quando in una coppia la comunicazione è dominata dai “mind games” (ne ho parlato in precedenza) ossia da quelle giravolte verbali che mirano solo a mistificare i fatti, anche questa coppia è al capolinea. I mind games sono attacchi vili che generano insicurezze, mentre un rapporto maturo dovrebbe emancipare, non legare. Una delle motivazioni alla base dei mind games è l’infedeltà. Le coppie infedeli amano mistificare i fatti, per poter continuare a mantenere l’attuale equilibrio. 

Identità di genere

Non se ne parla mai, ma è un’occasione di grande sofferenza in coppia. Se uno dei due partner smette di identificarsi nel rapporto di genere in atto, le cose si fanno molto difficili. Diamo per scontato che se un individuo forma una coppia con un altro individuo del genere opposto, l’identità di genere che ne deriva sia stabile o intoccabile. Poiché questo non è vero per tutti, può capitare che l’equilibrio si spezzi, e anche in questi casi la coppia è al capolinea. 

Se nella vita di coppia sentiamo echeggiare uno o più di questi aspetti, l’asimmetria, i mind games, e l’identità di genere, fermiamoci. Potrebbe andarne del bene dell’altra persona, del futuro che insieme pensiamo di costruire, ma anche del nostro benessere personale.   

A cosa serve, oggi, una biblioteca?

Ho recentemente presentato il mio libro Il Kintsugi dell’anima in una prestigiosa biblioteca di Torino. Tra le domande postemi dal pubblico durante la discussione, una è stata particolarmente interessante: quale utilità può avere oggi una biblioteca? I nostri dispositivi elettronici sono in grado di racchiudere in sé, (in memoria, o grazie alle reti) più libri di quanti ne possa esporre una biblioteca comunale. Pertanto non è così strano chiedersi a cosa possa servire, oggi, una struttura fisica adibita a tale scopo?

Guglielmo e Don Chisciotte 

Cercherò di rispondere, a questa suggestiva domanda, traendo spunto dalla storia della letteratura. La creatività umana, lo sappiamo bene, è alimentata da fantasie e angosce diffuse tra gli individui. Diverse tra queste riguardano le biblioteche. Ne Il nome della Rosa di Umberto Eco, si racconta di una biblioteca che nasconde un segreto terribile. Il protagonista vorrebbe entrare in questa biblioteca, cedere alla tentazione della conoscenza (già letto in un altro libro?), ma i saggi glielo impediscono. Le vicende si snodano attorno a questo edificio bizzarro e terribile, fino al drammatico epilogo che ne determina la distruzione in un rogo. 

In questo romanzo le fantasie e le angosce sono molteplici, si intrecciano e accavallano tra loro, ed è proprio la biblioteca a definirne contorni e confini. Anzitutto la conoscenza, di biblica memoria. Conoscere è pericoloso: per non ripetere l’errore di Adamo ed Eva, è bene creare una grande biblioteca, e richiudere lì dentro i segreti della conoscenza. Ma come per Adamo ed Eva, anche per il protagonista del romanzo è impossibile stare lontano: l’uomo è per natura portato a interrogarsi, indagare, cercare risposte. E questo anche a costo della sua stessa incolumità. La conoscenza cambia, per sempre. A volte uccide. E poi c’è il rogo. Nell’antichità un’importante biblioteca andò in fiamme, distruggendo chissà quali capolavori. E sappiamo bene che i regimi autoritari danno alle fiamme i libri. Cosa significa? Quale angoscia si nasconde dietro al rogo di una biblioteca? Come si vede il rapporto tra gli esseri umani e le biblioteche è un rapporto ancestrale, profondo, che chiama in causa le considerazioni più importanti che facciamo, e che vorremmo condividere con tutti, anche quelli che verranno dopo di noi. 

Nel suo Don Chisciotte della Mancia, Cervantes racconta di un nobiluomo che vive rinchiuso in una biblioteca. Il potere taumaturgico del libro compatta il sé di Don Chisciotte, lo aiuta a costruire un mondo fantastico in cui il bene è al sicuro, in buone mani, e il male non avrà il sopravvento. Don Chisciotte non può uscire dalla biblioteca, pena la sua sanità mentale. E infatti, in un’epoca antecedente ogni studio sulla psichiatria, Cervantes (che scrive dal carcere) mette alla berlina quest’uomo un po’ strano, ci fa sorridere bonariamente, ma oggi possiamo fare ben altre considerazioni. La follia, la paura, il vuoto esistenziale, il libro come antidoto alla morte del sé. Se l’arte esprime fantasie e angosce collettive, cosa significa che la biblioteca sia luogo di salvezza dalla morte psichica? Cosa vuole dirci Cervantes, e cosa sentiamo noi quando lo leggiamo? Perché se non chiudiamo il libro dopo la prima pagina significa che riesce a dirci qualcosa. 

John Keats

Torniamo alla domanda iniziale. A cosa serve oggi un edificio adibito a custodia, catalogo e prestito di libri, oggi che grazie all’informatica possiamo avere in tasca tutti i libri che vogliamo? Ebbene, la biblioteca, come ci insegna la letteratura, non è mai soltanto uno spazio fisico. È un luogo per incontrare menti, pensieri, emozioni, anche di persone che non ci sono più. È un luogo per cercare da soli qualche piccola verità, in un mondo che ci serve grandi verità ogni giorno, al punto che non sappiamo più di chi fidarci. Tornano alla mente le parole di John Keats: “Chiamate il mondo la valle del fare anima”. Ecco a cosa può servire oggi una biblioteca, a fare anima. Forse stiamo sconfinando nella psicologia, di nuovo mi sono fatto prendere la mano. Allora fermiamoci qui, di questo parleremo un’altra volta.  

Per una psicologia del post occidentale

Allo stato attuale di sviluppo della nostra società, dobbiamo ammettere due cose: la civiltà occidentale va verso il declino, e la cultura su cui l’abbiamo fondata non ci ha reso felici. Ripensare il nostro approccio alla vita, al mondo e agli altri, può essere un modo per non scomparire, e anzi, imparando dagli errori, adeguarci al mondo che cambia. Ma è anche un modo per costruire una psicologia rivolta a tutti gli essi umani, non soltanto quelli che vivono a occidente. 

Declino (infelice) 

La cultura cui apparteniamo ha perso il suo slancio vitale, non è più dominante nel mondo, ed è condivisa da una parte sempre più esigua di esseri umani. Rispetto agli anni dei grattaceli, delle metropolitane e degli aerei supersonici, in parole povere, il modo di vivere all’occidentale affascina sempre meno, anzitutto noi stessi. Inoltre dobbiamo ammettere che questo modo di vivere non ci ha dato felicità. Ad oggi il disagio mentale è totalmente fuori controllo, in una stagnazione economica endemica, e in cui la fiducia nel futuro continua a precipitare.

Per decenni i nostri intellettuali si sono scagliati contro la tecnica, che andava trasformando, a loro dire, i cittadini in automi. Invece la tecnica non ha trasformato tutti in automi, qualcuno ha anche saputo trarre giovamento da grandi innovazioni come l’aria condizionata, Internet, o la telefonia mobile. 

Sono invece i modelli culturali su cui ci siamo basati, ad aver perso la sfida del tempo. Sono come le colonne del tempio di Sansone, che si vanno sgretolando, e noi rischiamo di restarci sepolti. 

Un focus

“Ad un problema complesso corrisponde sempre una soluzione semplice, immediata, e di facile attuazione: quella sbagliata.” Questa battuta di un grande giornalista contemporaneo significa che una strategia multidimensionale non è definibile in poche parole. Se siamo a questo punto, se il modo di vivere all’occidentale fa acqua da tutte le parti, è difficile invertire la rotta, soprattutto in maniera spartana e semplicistica. 

Tuttavia è possibile individuare alcuni capisaldi culturali che possono essere rivisti se si vuole pensare ad una nuova psicologia, stavolta che non guardi più soltanto all’uomo occidentale, ma agli uomini (e alle donne) del medio oriente, dell’Africa sub sahariana, e così via…

La iper competizione: non ha creato benessere economico per tutti, ha fatto sentire esclusi molti, e anzi ha generato malessere tra chi è stato inadeguato. La competizione è diventata una ragione di vita, uno modus operandi, ed oggi assistiamo a competizioni persino dove non dovrebbero essercene. Doveva essere uno sprone economico, è diventato un progetto di vita individuale.

Il modello culturale patriarcato/femminismo. Questo modello, basato sul conflitto e non sulla cooperazione, ha condotto le campagne femministe a non proporre il superamento del patriarcato, ma il suo rovesciamento. In questo modo l’occidente si è incancrenito in fasi opposte di rivalse reciproche, fino a corrodere la fiducia, elemento indispensabile per il vivere collettivo.

Di conseguenza: individualismo. Ci sono state epoche in cui abbiamo saputo lavorare a progetti comuni, come ai tempi della nascita degli stati moderni, ma poi siamo diventati sempre più individualisti, e questo è stato rinforzato dai modelli economici, specie dopo la caduta del Muro. Il manager di un’azienda guadagna fino a mille volte più di un dipendente, così come il giocatore simbolo di una squadra di calcio. 

La morte del sacro. Una società senza religioni né religiosità, senza spiritualismi, né passioni idealistiche per la politica, o per l’arte, è una società senza speranza.  

Nell’immaginare il post occidentale, questi sono alcuni elementi del nostro vivere che dovremmo provare a rivedere, a ripensare. O quantomeno a registrare. Si tratta di pensare ad una nuova psicologia, considerare l’uomo in maniera diversa da come abbiamo fatto fino ad ora. E almeno per questo, non è mai troppo tardi. 

Il mio ultimo libro

Il Kintsugi dell'anima

Una raccolta di scritti brevi che offre speranza e crescita personale, affrontando temi universali come famiglia, lavoro, sport e attualità. Invita i lettori a scoprire opportunità di miglioramento anche nelle difficoltà, trasformando la fragilità in forza.