Dio perdona…io no! Tradimento, orgoglio, perdono.

Il perdono è uno dei capisaldi della nostra tradizione religiosa, cosa che si riverbera anche nel diritto, in cui per un condannato sono previsti sconti di pena, indulto, riabilitazione penale, ecc… . Abbiamo la tendenza, tuttavia, a considerare il perdono più come una cosa che gli altri debbano a noi, che come un movimento da parte nostra verso chi ci ha mancato di rispetto.

Il perdono di Dio e dello Stato

Dio pedona… io no! Questo titolo di un film dell’amata coppia Bud Spencer e Terence Hill, è molto eloquente nel discorso che stiamo facendo. Il Cattolicesimo è spesso ritenuta la religione del peccato. A torto, a mio avviso, perché più che in altre confessioni, o quantomeno in maniera diversa, ruota attorno al concetto di perdono. Dio perdona chi si rimette nelle sue mani, tramite le modalità previste dalla teologia. Non spetta ai teologi sindacare, non è nel potere dei fedeli contrattare. Il perdono di Dio fa parte della nostra storia religiosa e culturale, al punto che nessuno se ne sente offeso, o ne tenta una qualche forma di revisione. 

Anche lo Stato perdona, in tutto o in parte, chi ha commesso dei reati contro la legge, e anche in questo caso nessuno, in genere, mostra risentimento. Anzi, chi ha fatto un reato è sovente portato a credere che il diritto non faccia abbastanza, che dovrebbe perdonare di più, che le pene sono troppo severe, ecc… . Il perdono verso di noi, in altre parole, non è mai troppo, non è mai a sproposito, anzi è sempre meritatissimo. Anche nelle forme più alte di errore, come quelle del peccato nei confronti di Dio, o di reato verso la legge dello Stato. 

Lo stesso vale per le offese che rechiamo ad amici, conoscenti, colleghi, partner, e via dicendo. Il credito che riteniamo di avere è pressoché illimitato, sono sempre gli altri a dover fare uno sforzo, venirci incontro, apprezzare i nostri passi verso di loro.

Io perdono, ma non dimentico 

Il discorso cambia, e di parecchio, quando siamo noi a dover perdonare per un torto subito. In questi casi, la cosa migliore che si possa sentire è: “Io perdono, ma non dimentico.” Che poi è un modo per dire che non se ne parla proprio. Perché questa disparità di posizione? Perché perdoniamo in quantità minore, e più faticosamente, di quanto vorremmo essere perdonati? Va detto che un’eccessiva predisposizione al perdono, soprattutto nell’ambito della vita di coppia, può talvolta risultare sospetta. Se perdoniamo con leggerezza un partner fedifrago, ad esempio, possiamo dare l’idea di non tenerci abbastanza, oppure di avere qualcosa da nascondere, oppure ancora di essere troppo dipendenti, e accettare qualunque compromesso pur di non perdere la relazione. Tuttavia il perdono non riguarda solo il tradimento in coppia, e  dobbiamo ammettere che, in generale, perdonare è più difficile che chiedere, o aspettarsi, il perdono. 

Per quanto pacifica, la cosa è talmente paradossale, che merita una piccola riflessione. Anzitutto, chi ci ferisce, lo fa in buona o cattiva fede? E poi, poteva fare diversamente? Avrebbe saputo resistere? Ha seguito se stesso, il suo istinto, oppure no? Queste domande, e altre simili che queste ci suscitano, ci portano in una direzione. Quanto è veramente responsabile chi ci offende con il suo comportamento? 

Sul perdono, e la difficoltà di perdonare, partirei anzitutto da noi stessi, da cosa avremmo fatto noi al posto dell’altro, e da come vorremmo essere trattati, per giungere poi ad un’altra conclusione. Il perdono, è utile ricordare (Lacan, Kristeva), non si riferisce all’offesa, o al reato, ma alla persona: è un atto relativo all’altro. Non riguarda il furto, l’aggressione o la rapina, ma l’individuo che li ha commessi. Così in coppia, non perdoniamo il tradimento, ma chi lo ha fatto. 

Il per-dono è un dono a noi stessi

Inoltre, il perdono libera il futuro. Restare ancorati all’evento che ci ha feriti, che è comunque passato, vuol dire non ripartire. Ecco, allora, la conclusione cui volevo giungere: il per-dono all’altro, sostanzialmente, è un dono fatto a noi stessi. Chiudere quella porta, è autorizzarci a guardare oltre, ad andare avanti. È allora forse questa la difficoltà? Restare fermi al torto subito è uno stop forzato, un drammatico alibi per non continuare a crescere senza l’altra persona. 

Sta forse qui la ragione per cui vorremmo che, invece, a parti invertite, ci perdonassero tutto? Non riusciamo a capire per quale motivo si ostinino a non ripartire, quando è tutto chiaro, quando tutto è superato, quando ormai tutto è inesorabilmente chiuso nel passato?    

Guerra, clima, economia. Come sopravvivere al caos?

Abbiamo già definito la condizione attuale, quella che è andata definendosi dopo la pandemia da Covid-19 e la guerra di Ucraina, come la grande frammentazione. Per frammentazione psichica intendiamo la frantumazione della psiche in parti consce e inconsce, che può avvenire in seguito ad un trauma. Nella fattispecie, abbiamo detto di come la nostra opinione sui fatti del mondo sia nella sostanza ambivalente e non definitiva, e di come questa ambivalenza sia il frutto del trauma che ci ha investiti in questa fase storica. Ad esempio, qualcosa dentro di noi ci dice, a tutta prima, che dovremmo stare da una certa parte, e ne siamo assolutamente convinti. Poi, però, dopo averci pensato sù,  cominciamo a non esserne più così sicuri: qualcos’altro ci dice che potremmo stare benissimo anche dall’altra parte. Ecco, servita la frammentazione. 

Frullato di verità e populismo

Lo spezzettamento della verità, direi anzi, il frullato di verità, (come quello che ci viene offerto dai social network), corrisponde al frullato della nostra identità, che infatti è sempre meno definita sotto tanti punti di vista. Avete mai notato che nello sport, pensiamo al calcio, ma non solo, non esistono più i ruoli predefiniti? Oggi si dice che un difensore deve sapere fare anche il centrocampista, che l’attaccante deve avere compiti difensivi, e via dicendo. Vale lo stesso nel tennis, nel ciclismo, e così via. Nel nostro lavoro quotidiano, in cui siamo chiamati a ricoprire diversi ruoli, funziona allo stesso modo, in virtù della frammentazione delle logiche produttive, e di conseguenza delle mansioni operative. 

Il social network è l’emblema del frullato di verità, perché per funzionare ha bisogno di un algoritmo. Se apro un social network, mi appare un elenco di stimoli che in qualche modo confermano le mie preferenze. Ma se, senza volerlo, induco l’algoritmo a propormi un contenuto affine e parzialmente alternativo, oppure è l’algoritmo stesso che decide di gettarmi sabbia negli occhi, il social network mi apparirà come un frullato di contenuti, dal gusto più o meno omogeneo, ma che non assomiglia a nessun elemento conosciuto. Ossia, avrà reso la verità come qualcosa di non afferrabile.  

In questa nebbia, va da sé che il populismo diventi una lanterna. Il populismo è la scomposizione di un teorema in micro vignette, la soluzione di un problema complesso in poche semplici operazioni. 

Dal caos al desiderio

Una soluzione che parta dal basso, invece, e che investa la nebbia nel suo processo di formazione, è quella della rifondazione dell’Umanesimo. Nel discorso che interessa qui, dobbiamo dirci che la fine del desiderio, del sogno e della speranza, è la vera responsabile della disperazione contemporanea. La frammentazione psichica indotta dal trauma socio-politico che ci circonda, e il frullato della verità favorito dalle innovazioni informatiche, non vanno aggrediti con il populismo, ma con la rifondazione dell’Umanesimo. Nella fattispecie, con la rinascita del desiderio

Sappiamo bene di come gli Italiani abbiano smesso di frequentare la chiesa, di andare a votare, e più in generale di credere nel futuro. La disperazione ci circonda a tutti i livelli, e i dati sul consumo di alcol e droghe, non fa che confermare queste considerazioni. C’è inoltre l’elemento della violenza di genere, che nasconde un grave vuoto interiore, per non dire una recrudescenza psicopatologica, a dispetto di letture sociologiche e semplicistiche. 

L’importanza di avere qualcosa in cui credere, non è di valore unicamente spirituale (che non sarebbe comunque poco), ma identitario. Muoversi con una prospettiva metafisica, spirituale, inseguire un ideale, è qualcosa che riempie di significato ogni istante della nostra vita. Avere fiducia nella politica e nella rappresentanza democratica, per essere più espliciti, non consente solo di partecipare alla vita pubblica, fornisce anche una ragione per sperare di cambiare domani ciò che oggi non ci piace. E infatti un elettorato che diserta le urne, perché privo di fiducia nel sistema politico, è un elettorato amareggiato, senza sogni, disperato, preda, di conseguenza di suggestioni e fascinazioni. 

Ecco perché insistiamo sulla necessità di investire in qualcosa che dia significato personale, al di là della corsa individualista all’apparire. Lo sport, l’arte, l’associazionismo, tutto quello che può farci alzare nel cuore della notte per raggiungere un meeting, una biennale, una manifestazione, è un modo per sconfiggere il vuoto interiore, e riempirlo di sogni, ambizioni, significati. In una parola, di desideri.   

Il bello e dannato (e anche un po’ furbo): istruzioni per l’uso

Vorrei fare il punto su una figura piuttosto diffusa e, al tempo, fortemente distruttiva delle relazioni affettive, che potremmo chiamare il “bello e dannato”. Questo individuo tende a spargere intorno a sé un fascino seduttivo, a provocare premure e preoccupazioni, ma allo stesso tempo a minare l’autostima e la stabilità in chi lo avvicina, e in qualche modo se ne invaghisce. Questo particolare personaggio (useremo il maschile, ma non è solo maschio) ha la capacità innata di illudere, mantenersi equidistante, e infine di deludere l’altro, ma con la drammatica conseguenza di gettare scompiglio, a volte anche contro la sua stessa intenzione volontaria. 

Sex appeal

Il bello e dannato è un individuo appetibile dal punto di vista erotico, che appare un po’ in crisi per alcune sfortunate circostanze, e che fa capire, a chi lo avvicina, che con un piccolo aiuto potrebbe uscirne più forte di prima. Le reazioni emotive di chi cade in questa trappola, di conseguenza, si mescolano alla speranza di poterlo agganciare sentimentalmente, nella fantasia di come potrebbe essere “grazie al mio aiuto”. 

Sovente il bello e dannato è tormentato, cerca un equilibrio che non trova, e la tendenza a mandare in confusione gli altri, non è necessariamente dolosa. La sua sofferenza lo porta, talvolta, ad abusare di alcolici o droghe, a cercare emozioni forti, ad adottare condotte rischiose, se non autolesive. È questa inquietudine che riversa sugli altri, nella ricerca (questa sì, autentica) di un catalizzatore che riesca a calmare la sua irrequietezza. 

Le sue modalità di richiesta di aiuto, tuttavia, non sono chiare. Saltano su vari livelli, da quello amicale a quello amoroso, talvolta passando da una seduttività erotica molto forte, che gli serve, tra l’altro, per controllare la situazione. La conseguenza è che chi entra in questo vortice vive una condizione borderline, ossia è molto vicino alla meta, ma anche sull’orlo di una delusione fortissima. 

Vittima designata

La vittima preferita di questi soggetti è una persona che cerca delle conferme. Chi  attraversa a sua volta delle difficoltà di natura relazionale, può vedere nel bello, ma raggiungibile, un riscatto alle proprie sofferenze. La vittima ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un’occasione più unica che rara, che, se saprà sfruttare, potrà garantirgli parecchi gradi di successo: aiutare definitivamente questo individuo, conquistarlo, e sistemare, al contempo, la propria situazione sentimentale.

Questo quadro, però è tutt’altro che auspicabile, perché si basa su uno sbilanciamento di potere, e su una seduzione psicologica. Il bello e dannato, infatti, non cerca una relazione paritaria, ma un bidone in cui svuotare tutte le sue frustrazioni. Non cerca un vero aiuto, ma ha bisogno, anzitutto, di avere saldamente in mano le redini della relazione, che può indirizzare a suo piacimento in qualunque direzione. Inoltre c’è una variabile di ulteriore vulnerabilità, rappresentata dalle compagnie. Può capitare che amici o conoscenti possano gettare benzina sul fuoco, e dare consigli sbagliati, a chi è già sopraffatto da mille dubbi. 

Il personaggio che abbiamo definito come bello e dannato, quindi, fa leva (involontariamente?) sulle fragilità altrui. Sono queste fragilità, pertanto, che devono essere tenute sotto controllo, quando si cade nella trappola che abbiamo delineato. Ed è proprio a queste fragilità che occorre dare risposte, prima di offrire un soccorso a chi, molto probabilmente, non ha nessuna intenzione di riceverne. 

La “terapia dell’orgasmo”: fantasia erotica e desiderio nella donna matura

Arriva un’età in cui la sessualità si svuota un po’ dai classici significati puramente affettivi, si libera da certi vincoli morali, ed entra in contatto con l’autostima e il senso di desiderabilità personale. Per la donna dopo gli “-anta”, (in modo particolare) il desiderio si lega anche al confronto con le nuove generazioni, al dubbio di essere ancora piacente, in definitiva al rapporto con il tempo che passa. 

Avere un confidente

La sessualità per la donna matura assume sfumature diverse, soprattutto al tempo dei social network. La fantasia erotica può prendere, ad esempio, la forma intellettualizzata dell’amicizia con un confidente. Avere un’intimità mentale, basata sulla condivisione di opinioni politiche, punti di vista sul mondo, o simili, può dare la sensazione di essere capiti, ma soprattutto la certezza di piacere all’altro. 

Dico intellettualizzata perché, in una prima fase, confrontarsi sulle idee politiche, o sulle squadre di calcio, ecc… , accorcia le distanze, senza necessariamente esporre verso un interesse, o un coinvolgimento, più diretti. 

L’amico social ha il ruolo che un tempo poteva essere del corrispondente: a volte soltanto un conoscente, a volte, chi lo sa, anche qualcosa di più. La differenza, enorme, sta nel fatto che ora lo scambio è più veloce, può essere multimediale, e soprattutto privatissimo e sconosciuto agli altri. Inoltre l’amicizia social può essere fisicamente distante, un altro elemento che aiuta a non farla sfuggire di mano, nel caso in cui le confidenze dovessero diventare più esplicite. 

Fantasia e desiderio 

Il rapporto della donna matura con la sessualità è condizionato dai cambiamenti nel corpo e nei suoi ritmi. La fantasia erotica e il desiderio, tuttavia, continuano a essere determinanti per il suo equilibrio mentale, come nelle altre epoche della vita. La differenza sta nella difficoltà di esprimere questa esigenza, di parlarne con il partner, perché a volte creduta fuori luogo. 

La sessualità riflette, come detto, l’esigenza di avere un rimando di amabilità, la conferma di piacere, e di non essere giudicati. In casi come questo la consulenza sessuale si lega al processo di coppia e diventa percorso a due, per riavviare un dialogo che non prescinda dai cambiamenti del corpo, ma ne discenda. 

Più che in altre occasioni, in questa vale la regola di non affidarsi ai tutorial online, di non ascoltare maestri improvvisati, o consigli generici validi un po’ per tutto. Al contrario, sarebbe molto più importante intraprendere un viaggio insieme al partner, per esplorare fino a che punto le fantasie possono essere condivise, e, possibilmente, inseguite insieme. 

Bondage e dintorni: la coppia BDSM

Con BDSM si intende una serie di pratiche sessuali il cui acronimo sta per:  Bondage (legare), Dominazione, Sadismo, Masochismo. L’argomento è, chiaramente, molto privato, e per questo è difficile avere dati statistici certi. Si stima, tuttavia, che circa il venti per cento degli Italiani abbia utilizzato almeno una volta pratiche di questo tipo. In conseguenza a questa alta diffusione nella popolazione, BDSM non definisce automaticamente un comportamento patologico: c’è chi, infatti, l’ha sperimentato per curiosità, chi per noia, o chi semplicemente perché incuriosito sul tema dal partner o dalle frequentazioni amicali. Vediamo di fissare alcuni punti su cui definire quando il ricorso massivo a condotte sadiche e/o masochistiche può essere definito patologico. 

Provare dolore per provare piacere

Il primo elemento da analizzare e su cui riflettere. In genere, per ottenere un piacere ricerchiamo il piacere, e per provocare agli altri un dolore, infliggiamo dolore. La cosa è talmente pacifica che nessuno penserebbe mai di mettere del sale nel caffè, per gustarlo meglio. Così come nessuno calzerebbe delle scarpe strette, per passeggiare più felicemente, o farebbe un bonifico a un suo nemico, per fargli un dispetto. La percezione che abbiamo di ciò che è piacevole e di cosa non lo è, così come appreso negli anni sulla nostra pelle, ci conduce a fare tutti i giorni la scelta più desiderabile, e scartare le altre. Nelle pratiche BDSM, al contrario, vige un’equivalenza differente: per aumentare, o prolungare, il piacere infliggo a me stesso, o all’altro, delle costrizioni o delle punizioni

Avere atteggiamenti sostanzialmente sadomasochistici non è tipico della sfera sessuale. Alcune culture organizzative sono basate proprio sulla capacità stoica di sostenere sforzi eccessivi, nell’attesa di un riconoscimento successivo. Per non parlare delle privazioni previste da certe pratiche religiose, che molti attuano ciclicamente. Nessuno si sogna di definire patologiche tali rinunce. Chiaramente deve esserci una misura, un limite, che può essere quello di quanto, concretamente, si consideri piacevole la privazione, la punizione o l’umiliazione, (nel caso delle pratiche BDSM). Ossia il limite non può essere superato, se la rinuncia diventa un supplizio. Oppure, più propriamente, dovremmo capire quanto essa ci faccia sentire  riconosciuti, quanto ci restituisca un clima confortevole. Perché se un individuo si sente a suo agio quando vilipeso, più di quando non lo è, al punto da aver bisogno di provare dolore, per arrivare a provare piacere, allora le cose cambiano. 

Il piacere di essere sottomessi

Un altro punto su cui indagare: la cultura della libertà. Con estrema difficoltà riusciamo a rintracciare tratti comuni del nostro vivere con quello di nostri simili, e infatti, notoriamente, amiamo dividerci su tutto. Tra cittadini italiani, ma anche tra cittadini europei, e così ’ via, non c’è argomento su cui non litighiamo anche ferocemente. La libertà e la democrazia, invece, restano il comune denominatore sotto il quale non siamo disposti a scendere, attaccati come siamo al privilegio di esprimere sempre qualunque nostra posizione, anche la meno sensata, anche la meno richiesta dagli altri.  

La difesa della libertà, ha condotto, in quest’ultimo periodo, persino alla rivolta del politicamente corretto. Sono state messe al bando espressioni e locuzioni popolari o familiari, perché ritenute irrispettose della dignità e del decoro di individui o della loro professione. Dalle posizioni sessiste al vituperato patriarcato, dalle minoranze linguistiche allo schiavismo, tutto è stato messo in revisione. Luca Ricolfi ci informa che negli Stati Uniti d’America è stata persino modificata la denominazione del cavo per amplificatori musicali jack maschio e jack femmina, perché irrispettosa, e sostituita con la versione più neutra plug e socket. 

Tutta questa fame per la libertà si stoppa, improvvisamente, davanti al BDSM e alle sue sfumature di grigio. Nel privato qualcuno diventa improvvisamente illiberale, al punto da sottomettere o essere sottomesso. Da dove arriva questa svolta schiavista, quale piacere, concretamente, può fornire? Oppure di nuovo, è un fatto di riconoscimento, di sentirsi accettati, se non altro in quella situazione di sottomissione? 

Un altro controsenso: il contratto

Sappiamo di come le pratiche BDSM avvengano, sovente, sotto la copertura di un contratto. Da un lato, evidentemente, il contratto fornisce una difesa in caso di svolta tragica delle torture, anche se ci sarebbe da capire, all’atto pratico, quanto concreta in un’aula di tribunale. Dall’altro lato, cosa secondo me più rilevante, con il contratto si cerca un consenso

Se sto facendo qualcosa di previsto, concordato, moralmente accettabile, a cosa mi serve un accordo? Sappiamo che i debiti di gioco sono sostanzialmente debiti d’onore, e quindi un patto fatto per gioco, ha un potere vincolante maggiore a quello della parola data? La presenza di un contratto, nelle pratiche BDSM, quindi, è l’aspetto più sinistro, quello che svela qualcosa di più sulle logiche profonde che legano i membri della coppia

Sottomettere qualcuno, specie se considerato piacevole, dovrebbe essere secondo la propria coscienza. Essere vilipesi, umiliati, o percossi, se piacevole, dovrebbe essere secondo coscienza. Se, al contrario, sto facendo qualcosa di sbagliato, al punto da avere bisogno di un consenso esplicito, forse c’è qualcosa che non va.   

La coppia BDSM

Siamo pronti, quindi, a definire la coppia BDSM, che non è semplicemente quella che saltuariamente, per gioco, fa uso di queste condotte: nella coppia BDSM la modalità relazionale tipo è sadomasochista, e le pratiche di dominazione violenta o umiliante non si limitano alla sfera intima. Al contrario, sono la struttura su cui si fonda l’impianto relazionale della coppia, e che, evidentemente, corrisponde ad alcuni principi cardine della psiche individuale dei due partner. 

Il sadomasochismo della coppia BDSM, inoltre, ha talvolta un funzionamento talmente patologico da dover essere giustificato, scusato, da un contratto: la cosa che in assoluto più allontana la dinamica di una coppia basata sull’amore e il rispetto reciproco, da una basata sulla perversione.  

One Mile Smile. Una storia d’amore e non solo.

Winslow, Arizona, 1886.

La polvere si sollevava lieve sotto i passi di Jack mentre usciva dalla drogheria, il sole battente faceva luccicare i binari della ferrovia poco più in là. Fu in quel momento che la vide.

Daniel era in piedi accanto al carretto del padre, una cesta di mele strette al petto. Il suo sguardo incrociò quello di Jack per un istante, e poi sorrise. Un sorriso lungo un miglio, uno di quelli che non si dimenticano. 

Da allora, ogni notte, Jack sognava quel sorriso. E ogni notte si svegliava col cuore in gola, in preda a un’angoscia che non riusciva a spiegare.

Sapeva bene che non avrebbe mai avuto il permesso di rivederla. “Lasciala stare, Jack,” gli aveva detto suo padre con quel tono che non lasciava spazio a repliche. Suo fratello maggiore lo aveva spinto contro la parete della stalla, ridendo amaro: “Dimenticala, prima che sia troppo tardi.”

Ma era già troppo tardi.

In un pomeriggio di fine estate, mentre le ombre si allungavano sulle colline, Jack salì alla vecchia miniera Duke. Portava con sé una bottiglia di liquore fatto in casa dal nonno, e perso nei suoi pensieri, beveva a piccoli sorsi. 

Si avvicinò al bordo del dirupo. Il vento soffiava dal canyon, portando con sé l’odore della terra secca e del ferro. Jack estrasse dalla tasca un pezzo di carta,  scrisse alcune parole, e lo posò a terra, accanto alla bottiglia vuota.

Quando i cercatori d’oro lo trovarono all’alba, il biglietto era ancora lì, appesantito da una pietra. C’era scritto solo questo:

Jack and Daniel Forever.

Potere. Una storia di uffici e di ricatti.

Emanuele entrò in sala riunioni con il tablet in mano e il nodo alla cravatta stretto un po’ troppo. Era il più giovane tra i presenti, e l’aria densa di discorsi sottintesi lo mise a disagio. Sabrina sedeva a capotavola, la schiena dritta, lo sguardo che sembrava misurare ogni cosa.

“Accomodati, ingegnere”. La sua voce era fredda, tagliente. Ma aveva un sorriso malizioso, di quelli che ti fanno chiedere se sei stato scelto o se sei solo stato preso di mira. Emanuele sedette alla sua destra, nel posto che la direttrice aveva tenuto libero per lui. Poi lei iniziò a parlare, snocciolando numeri e strategie. Aveva la sicurezza di chi sa che nessuno oserà metterla in discussione. Ogni tanto il suo sguardo tornava su di lui, indugiava, lo scrutava con un misto di sfida e compiacimento. E apriva nuovamente quel sorriso malizioso. 

Quando la riunione finì, tutti uscirono rapidamente. Lui fece per seguirli, ma la voce di Sabrina lo fermò:

“Emanuele, resta un attimo, per favore. Devo parlarti di una cosa”.

Il giovane ingegnere si girò, cercando di mantenere un’espressione neutra. Lei si alzò, chiuse la porta con calma, si avvicinò. 

“Ti trovi bene qui, Emanuele?”

Lui annuì. “Certo, direttrice”. 

“Bene.” La voce fredda divenne improvvisamente mielosa. Poi fece qualche altro passo in avanti. Ora il ragazzo poteva sentire il profumo costoso della donna. “Vedi Emanuele”, ancora quel sorriso malizioso, “Voglio essere sicura, come dire?” Con la mano sfiorò la sua cravatta. “Che tu sappia come funzionano le cose in questo ufficio.”

Emanuele si irrigidì. Aveva capito benissimo. Il tono, la vicinanza, il profumo: era tutto chiaro, chiarissimo. Avrebbe potuto dire qualcosa, o arretrare. Ma il potere era tutto in quel momento, in quell’ufficio chiuso. Quella di Sabrina non era una domanda, ma l’affermazione di dominio su un territorio.

“Certo, direttrice”. Le parole uscirono dalla sua bocca in maniera meccanica. 

Quella sera, mentre tornava a casa, Emanuele ripensò a quel momento. Al gelo che gli era corso lungo la schiena, al sorriso di Sabrina: uno di quei sorrisi che non si dimenticano.

Friend zone: cosa fare per non finirci.

Friend zone, o (friendzone), zona dell’amico, è la situazione in cui, in una coppia di amici, uno dei due è segretamente innamorato dell’altro, o comunque fortemente attratto, ma non può esprimere i priori sentimenti, perché sente di essere visto, per l’appunto, “soltanto” come un amico. 

Friendzonare qualcuno, quindi, significa inserirlo in quella lista di persone che non ci sentiamo di definire in altro modo che come dei buoni amici. 

Errata comunicazione

Nel film Yesterday di Danny Boyle (2019), Jack Malik è un cantautore di scarsa fortuna, che suona nei pub e ai festival di terza categoria, che si tengono nella sua città natale. Nessuno crede in lui come artista, per lo meno fino a quando non trova il modo di riproporre i classici dei Beatles, che nel frattempo il resto del mondo ha dimenticato. Nessuno, dicevo, crede in Jack, tranne la sua manager, autista, amica e confidente Ellie Appleton. Alla festa di addio, con amici e parenti, prima della partenza di Jack per Hollywood, Danny Boyle piazza una scena cruciale: Ellie, in lacrime, confessa di essere da sempre innamorata di Jack, e gli chiede come sia stato possibile che l’abbia inserita nella “colonna sbagliata”, ossia nella colonna “amica”, anziché nella colonna “fidanzata”. Jack trasecola, e scopre di avere friendzonato Ellie, ma il guaio peggiore è che non si è mai accorto di averlo fatto.

Osservando la coppia di questi due ragazzi, possiamo chiederci se la relazione che culmina con la friend zone non abbia delle caratteristiche tipiche, ricorrenti, che possono essere osservate in anticipo.  

Anzitutto direi di distinguere la friend zone in due macro categorie: quella in cui si viene friendzonati, e quella in cui, invece, si finisce per friendzonare qualcun altro.  

Ora, dobbiamo ammettere che la prima motivazione in assoluto per cui si viene visti come semplici amici sia lo scarso interesse. Se non suscitiamo attrazione, se l’altra persona non si sente attratta da noi, sarà molto più facile che ci veda come amico, e difficilmente riusciremo a conquistarla. 

Una seconda motivazione per cui si finisce in una friend zone, però, riguarda la comunicazione. Se nella vita affettiva ci capita questo spiacevole imprevisto, e soprattutto se ci capita più di una volta, dovremmo chiederci: quale messaggio stiamo inviando? L’errore di comunicazione è più diffuso di quanto si creda, ed è sovente collegato all’insicurezza, o alla paura di essere respinti. In questi casi, talvolta, si tende a mantenere un profilo più basso e distaccato di quanto si vorrebbe, per paura che l’altro capisca il nostro interesse e ci allontani. Il caso di Ellie e Jack, nel film Yesterday, può rientrare in questa seconda casistica. E infatti il ragazzo si innamora immediatamente della sua ex manager, non appena scopre i veri sentimenti di lei. 

L’assioma di Miss Liceo

L’altra grande categoria è quella in cui si mette qualcuno nella friend zone, salvo poi pentirsene amaramente. Potremmo definire questa sventurata eventualità come l’assioma di Miss Liceo. Sappiamo tutti che l’alunna, o l’alunno, più in vista della scuola, raramente si fidanza con il compagno di banco, il ragazzino affidabile e premuroso, sempre gentile, disponibile ad aiutare nei compiti. Questa situazione, che certamente può essere indotta da opportunismo, non raramente nasconde, invece, qualcosa di più profondo. Miss Liceo (Mr Liceo) ha un potere enorme su tutti i compagni della scuola. È popolare, fa tendenza, ma soprattutto non ha veri nemici, nessuno contraddice le sue mosse. 

Immaginiamo Miss Liceo innamorata del compagno di banco: cosa resterebbe della sua popolarità? Dovendo scegliere tra il potere e l’amore, sarebbe indotta a friendzonare l’amico? L’assioma di Miss Liceo, che per la verità si ripete anche in ufficio, in palestra, in spiaggia, e via dicendo, ci suggerisce una riflessione molto importante su noi stessi. Quando siamo noi a friendzonare qualcuno, potremmo chiederci: per quale motivo questa ragazza/ragazzo, non ci piace abbastanza? Siamo davvero sicuri che non sarebbe un successo accettare le sue avance? E ancora, ma qui ci vuole davvero tanta elasticità mentale: quale tipo di immagine interiore di noi stessi metterebbe in crisi, allacciare una relazione con questa persona? 

I grandi della Nazionale di calcio. Dino Zoff: capitano gentiluomo.

Dino Zoff, capitano gentiluomo, è nato a Mariano del Friuli il 28 febbraio 1942. Come giocatore ha ricoperto il ruolo di portiere, ma è stato anche un grande allenatore e dirigente. Tra i successi raggiunti in carriera si ricordano il Campionato Mondiale FIFA del 1982, in cui era il capitano, e il Campionato Europeo del 1968, (riserva di Albertosi e Vieri). Ha poi conseguito il secondo posto, come Commissario Tecnico, al Campionato Europeo del 2000, e una lunga serie di successi con squadre di club. 

Temperamento in campo

Dino Zoff è sempre stato un uomo riflessivo e moderato. Ha vestito la fascia da capitano in un ruolo insolito, quello di portiere, quando si diceva che il capitano dovesse stare vicino all’azione. Ma per lui l’autorevolezza era un fatto di carisma, non di aggressività. Raramente lasciava la porta per andare a discutere con l’arbitro, perché, il capitano, nel suo modo di concepirlo, è un punto di riferimento per i compagni, più che il portavoce dei malumori della squadra.  

Leader silente in campo, era sovente una coperta di Linus fuori dal campo. Sono molti i compagni che lo ricordano come capace di dare serenità e infondere fiducia. Dobbiamo pensare che, al tempo, i ritiri pre partita erano diversi da oggi. Non c’erano smartphone e social network, e in alcuni alberghi, specie all’estero, un telefono nella hall era già gran lusso. Così, nelle lunghe ore prima della partita, i giovani (Marco Tardelli, ad esempio) anelavano avvicinare il Capitano, stare un po’ con lui, respirare la sua tranquillità. 

Dino Zoff vacillò una sola volta, in quella che fu la parata più epica, della partita più epica, della sua epica carriera. Dopo il colpo di testa di Oscar, in Italia-Brasile del 1982. Chi c’era se lo ricorda, ma gli appassionati di calcio più giovani, dovrebbero conoscere quella partita, come gli studiosi di filosofia conoscono gli autori classici, anche se vissuti secoli prima di loro.  

Al tiro di Oscar, Dino Zoff afferrò con un guizzo la palla, la schiacciò a terra, e se la portò al petto. Ma alcuni brasiliani alzarono le braccia, in segno di giubilo. Per un istante leggemmo il terrore negli occhi del portiere, che non vedeva l’arbitro, e non sapeva se avesse fischiato il gol oppure no. Tutti gli italiani sanno come finì, quindi altri dettagli esulano da questo scritto. Ciò che conta qui, è la personalità pacata, ma sicura di sé e mai remissiva del grande Zoff. Leader nel compito, ma senza dubbio anche leader nel gruppo, personaggio straordinario di un calcio fatto da quelle “bandiere”, che oggi non esistono più. 

Immagine presso il pubblico

Bandiera, dicevamo. Ma cosa significa, questo, nel caso di Dino Zoff? Un altro frame iconico di quell’estate 1982, ritrae una partita a carte. In quegli anni così difficili per il Paese, non si può immaginare qualcosa di più familiare: un gruppo di amici e una partita a scopone. Siamo sul volo che riporta in Italia la nazionale, e il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, gioca, e gesticola animatamente, con il CT, Enzo Bearzot, Franco Causio, e il capitano, Dino Zoff. 

L’immagine che il pubblico conserva del capitano, è la seguente. Nel cuore della partita, ad un tratto, parte una polemica: accesa, come solo noi italiani sappiamo fare. Hai sbagliato tu, dovevi buttare la tale carta! Io?, Avrai sbagliato tu, che dovevi fare un’altra mossa! E via dicendo. Ebbene, davanti alle telecamere il Presidente Pertini, prima lascia passare un sette, e poi accusa il nostro di averlo fatto perdere. Soltanto i quattro al tavolo conoscono la verità: l’errore è chiaramente di Pertini. Allora Dino Zoff, dopo aver sfoderato per settimane, la sua classe come portiere, sfodera la classe del gentiluomo: “Per rispetto al Presidente”, disse in seguito “mi presi la colpa.”. Cosa aggiungere? 

Ci sarà un seguito, una lettera del Presidente al capitano, l’anno seguente. Ma questo non cambia l’immagine che il pubblico si porterà di questo personaggio cristallino, immagine che non appartiene soltanto al nostro calcio, ma senza dubbio anche alla nostra cultura popolare. 

L’individualismo narcisista

Nel nostro tempo è sempre più diffuso un tipo di individualismo che non ha a che vedere con la brama di potere, o con la volontà di primeggiare sugli altri, ma con una chiara pretesa di superiorità. Possiamo definire questo modo di vedere sé stessi in mezzo agli altri come “individualismo narcisista”, (o meglio, narcisistico). 

L’individualismo competitivo 

Il narcisismo è una modalità relazionale patologica, dal momento in cui la struttura di personalità di cui definisce i caratteri è considerata una formazione non adattativa. Nel linguaggio comune, non raramente si usano formule che alludono ad atteggiamenti narcisistici tutto sommato accettabili, quali ad esempio “avere un sano narcisismo”, o simili. Queste formule sono usate anche da noi “psi”, ma sappiamo bene che sono delle forzature semantiche: il narcisismo è, nella sua sostanza, qualcosa patologico, proprio perché determina l’incapacità di sintonizzarsi sulle frequenze dell’altro. 

L’individualismo sempre più estremo su cui abbiamo costruito il vivere tra i nostri simili, è cambiato nel corso del tempo. Negli anni in cui andavano ancora di moda termini come “comunismo”, “socialismo”, “collettivo”, e simili,  l’individualismo era la modalità di stare al mondo del soggetto occidentale, caratterizzato dal modello economico capitalista o competitivo. L’individualismo competitivo era intendere sé stessi come l’unica cosa importante al mondo, nonché l’unica cosa per cui valesse la pena scatenare competizioni feroci. 

Nei termini dell’individualismo competitivo possiamo certamente descrivere molti personaggi di spicco delle epoche precedenti alla nostra: i grandi imprenditori, per esempio, o i grandi leader politici dalla fama di uomini, o donne rudi, di ferro, o cose del genere. 

L’individualismo narcisista

Oggi vediamo mutuare la cifra genetica dell’individualismo, che diventa sempre più a carattere narcisistico. Il narcisismo, forma patologica molto diffusa, anche nelle sue varianti meno gravi, entra sempre più nelle nostre modalità relazionali, al punto di fondersi nell’individualismo.  

La pretesa individualista di svalutare le esigenze degli altri, in nome delle proprie, aveva una valenza economicista quando associata alla competizione capitalista, ma associata al narcisismo, determina a cascata effetti disastrosi. Il soggetto contemporaneo, come si vede ogni giorno, ha smesso di identificarsi nelle collettività o nei gruppi, e vede unicamente sé stesso come il terminale delle logiche del mondo. (Il funzionamento degli algoritmi, come abbiamo già spiegato, è uno dei fattori che rafforza questa percezione, in quanto l’algoritmo mette l’utente al centro dell’universo, ma senza dirglielo.)

Per uscire dal teorico, l’uomo di oggi ha smesso di andare a votare, pur continuando a lamentare la distanza della politica dalla propria vita. Atteggiamento massimamente narcisistico: la politica dovrebbe sapere quali siano i bisogni dei cittadini, senza che essi li segnalino tramite il voto. Questo è solo un esempio, ma po’ in tutte le attività umane vediamo diffondersi questo atteggiamento. 

La pretesa è quella di una superiorità a priori: io merito questa cosa a prescindere, non c’è neppure il bisogno di conquistarla con la competizione. Lo scivolamento dell’individualismo verso il narcisismo sta portando, per esempio, a numerose difficoltà relazionali, la cui massima esemplificazione può essere quella del rapporto con i social network, e con l’algoritmo, come abbiamo spiegato poco sopra. 

Il mio algoritmo mi abitua ogni giorno a non comunicare a nessuno le mie esigenze, perché le sa indovinare da solo. Se abbiamo un rapporto costante con il nostro smartphone, ne discende che la relazione con l’algoritmo è una delle più pervasive che intratteniamo. Ma non ne siamo totalmente consapevoli. Da qualche parte, però, è sempre attivo un confronto: nel mio rapporto con la politica, con i familiari, gli amici ecc… , chi non mi capisce come l’algoritmo, non merita la mia attenzione. 

Se l’individualismo competitivo ci aveva trasformati in tanti piccoli squali da contrattazioni di borsa, l’individualismo narcisistico ci sta trasformando in pigri egoisti, indolenti e un po’ viziati. Possiamo dire che questa sia l’unica forma di evoluzione che ci rende meno adatti ai mutamenti che stanno per arrivare.  

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