La coppia infantile.

Il percorso di crescita è in genere una corsa verso l’età adulta, una sua anticipazione, talvolta persino uno scimmiottamento. Vi sono individui, invece, che in coppia rifiutano il ruolo di adulti, e giocano a fare i bambini. 

“Io sono grande”

Sappiamo tutti di quanto i bambini tengano a sottolineare il loro grado di sviluppo, e quanto vengano rafforzati in questo dagli adulti che si occupano di loro. A scuola, per esempio, amano aiutare dei compagni più piccoli, per senso di responsabilità, oppure a casa assicurano di poter assumere certe iniziative, perché “io sono grande”. 

Il mondo che li circonda, del resto, tende a premiare questo atteggiamento, per insegnare loro l’autonomia, e renderli consapevoli delle loro azioni.

Questa dinamica non si perde con la prima infanzia, anzi continua ad essere presente in ogni fase di crescita. L’adolescente e il giovane rincorrono l’adultità come se fosse uno status sociale. I ragazzi sognano di guidare l’auto, di uscire da soli con gli amici, di firmare i libretti scolastici. I giovani adulti sognano cose diverse, ma pur sempre cose “da grandi”: tutti abbiamo sentito la frase: “Oggi compi 18 anni, finalmente potrai…”. Al bambino e al giovane, sovente, la loro condizione sta stretta. 

Responsabilità

Vediamo coppie, invece, in cui la situazione si ribalta, e invece di fare gli adulti, i loro componenti giocano a fare i bambini. Anche questo è un caso di coppia sul viale del tramonto, ma in maniera diversa dalle altre. La cosa che sorprende di più non è la difficoltà di prendere atto della crisi, piuttosto la fuga (immaginata) dal ruolo di adulto e dalle responsabilità che esso prevede. E ovviamente tra le responsabilità c’è anche quella di fare parte di un progetto di vita condiviso. 

Supponiamo per un istante di entrare in una sala operatoria durante un intervento, e di imbatterci in una equipe che si comporta come una classe di bambini. L’anestesista che rincorre l’infermiere, disordine ovunque, e tra urla e schiamazzi il paziente abbandonato in un angolo. E poi supponiamo ancora di entrare in un parlamento e trovare una situazione analoga: aeroplanini di carta, sbadigli, chiacchiere a mezza voce. Che impressione ne avremmo? Penseremmo senza dubbio che le persone che vediamo vorrebbero essere altrove, che non hanno nessuna voglia di fare quello che stanno facendo, e che trovano più divertimento nei comportamenti infantili, che soddisfazione professionale dal loro impegno. 

Questa è la stessa impressione che si può avere dalle coppie infantili. Quando due persone si divertono di più a fare giochi, sketch, battute infantili, piuttosto che vivere il presente o progettare cose da fare insieme, molto spesso è perché queste ultime non darebbero maggiore soddisfazione, o più semplicemente queste persone vorrebbero essere altrove. 

Quindi la riflessione si sposta dal fatto stesso che la coppia sia in crisi, al peso della responsabilità di doverlo ammettere. E come abbiamo detto, è proprio la responsabilità una differenza importante tra l’infanzia e l’età adulta.  

Jannik Sinner: la cultura della fatica.

Il training psicologico nello sport riguarda competenze che, come le abilità tecniche, possono essere potenziate. Il caso Jannik Sinner, giovane orgoglio del tennis italiano, mette in evidenza una capacità sottostimata, nello sport professionistico: la resilienza alla fatica e al sacrificio. 

Competenze allenabili, e non allenabili

Nello sport si contano almeno tre categorie di aspetti mentali. Quelli donati dalla natura, come la capacità di gestire lo stress di gara, o la concentrazione. Quelli condizionati dall’inconscio, o da eventi del passato dell’atleta, come la paura di infortunarsi nei contrasti, la fiducia in sé stessi, o la tendenza a serbare rancore. E poi vi sono gli aspetti più dipendenti dalla volontà, o quantomeno dalla motivazione interna, come seguire una dieta alimentare, avere una vita regolare, ecc… . L’attitudine al sacrificio, al lavoro duro, e più in generale la resilienza alla fatica, appartengono al terzo tipo. 

Ciascuna di queste tre categorie prevede percorsi diversi di preparazione mentale, ma quella che abbiamo citata per ultima risulta la meno “allenabile”, almeno per gli atleti maturi. Essa è infatti più legata alla personalità dell’individuo, alle sue disposizioni interiori. Diego Maradona, in Italia, amava molto frequentare gli amici, mentre Cristiano Ronaldo faceva una vita ritirata, mettendo al primo posto il suo lavoro. E potrei fare altri esempi. Gli sportivi affermati hanno già strutturato una loro modalità di integrare vita privata e attività agonistica, ma gli emergenti possono fare ancora molto per aggiungere questo aspetto nel loro bagaglio professionale. 

La cultura della fatica è un asset strategico dell’atleta

Jannik Sinner ci mostra che la resilienza alla fatica e al sacrificio non è una competenza secondaria. La motivazione interiore, diremmo intrinseca, nell’affrontare qualunque attività della vita, ma soprattutto nello sport professionistico, codifica per una maggiore tendenza al costante miglioramento, o al mantenimento dei livelli raggiunti. 

Esistono diversi espedienti per migliorare la motivazione intrinseca, uno di questi è fare leva sull’orgoglio, un altro sugli obiettivi personali, e così via. La cosa importante è che il giovane atleta, il suo staff tecnico, e tutte le persone che lo circondano, non sottovalutino la portata di questo che è a tutti gli effetti un asset della sua vita professionale. 

La cultura della fatica, in altre parole, non è un valore da proporre soltanto agli atleti meno dotati, quelli che devono sopperire con il duro lavoro alle lacune tecniche, ma può fare la fortuna anche dei più bravi. E la parabola di Jannik Sinner lo testimonia chiaramente.  

Il Ghosting. Tra narcisismo e paura della relazione

Insieme ad Angela Critelli e Sonia Sabato (^) ho tenuto una conferenza dal titolo “Il Ghosting: tra narcisismo e paura della relazione”. Riporto di seguito i principali argomenti toccati, nella consapevolezza che il tema meriterebbe ben più che un incontro per essere affrontato nella sua interezza.

Il Ghosting 

Partiamo anzitutto da una definizione. Il ghosting è il comportamento di chi decide di interrompere bruscamente una relazione sentimentale e di scomparire dalla vita del partner, rendendosi irreperibile. Inseriamo questo argomento tra le attività didattiche riguardanti l’educazione affettiva, poiché rappresenta, a tutti gli effetti, una nuova forma di violenza psicologica

Altri comportamenti simili, come non rispondere a messaggi, chiamate o email, o disattivare le notifiche di consegna, non rientrano nella definizione stretta di ghosting, ma configurano lo stesso tipo di atteggiamento narcisistico e passivamente aggressivo. Per questo le considerazioni che seguono valgono per tutte le forme di violenza legate alle comunicazioni digitali, non soltanto a quelle incluse dalla definizione standard. 

Il termine ghosting è nato negli anni Novanta del Novecento, con le prime comunicazioni a distanza consentite da internet, ma è diventato di uso comune nel corso degli anni 2000, dopo che un giornalista americano lo ha utilizzato per definire l’atteggiamento di una star di Hollywood, che per rompere la relazione con una partner, aveva preso a “comportarsi come un fantasma”. 

Ghosting, dunque, è un modo brusco per terminare una relazione senza doverlo dire, e schivando ogni responsabilità. Può essere utilizzato per chiudere qualunque tipo di relazione, ma riguarda per lo più le relazioni affettive, ossia quelle nelle quali può essere più difficile assumersi responsabilità. 

Narcisismo 

Il ghosting è legato alle opportunità consentite dalle nuove tecnologie, che si legano alle tendenze della nostra società individualista, ma livello psicologico è sovente associato al narcisismo, il grande comune denominatore di molti atteggiamenti e comportamenti disfunzionali, nelle relazioni contemporanee.

Il narcisismo è l’atteggiamento di chi fa di sé stesso il centro esclusivo del proprio interesse, nonché oggetto di ammirazione, mentre resta più o meno indifferente agli altri, di cui ignora o disprezza il valore. Il narcisismo è sempre un atteggiamento negativo, soprattutto nelle sue espressioni più radicali e patologiche, ma si può anche affermare che, entro certi limiti, saper ignorare i commenti degli altri, o riconoscersi del valore dopo un successo (sportivo, scolastico, lavorativo) sia una componente vitale di un sé adulto. 

Empatia

Se per empatia intendiamo la capacità di mettersi al posto dell’altro, di sentire cosa sente, come se fossimo in lui (lei), il ghosting condivide con il narcisismo proprio la totale mancanza di empatia. Ignorare l’altro è una pratica violenta in quanto ignora l’altra persona, ne svaluta l’importanza nella relazione, che invece dovrebbe essere di reciprocità e di riconoscimento reciproco. 

Come il narcisista svuota l’altro di valore, e vede soltanto sé stesso, allo stesso modo il ghoster riconosce nella relazione soltanto le proprie esigenze e le proprie bieche motivazioni. Le conseguenze sono plurime e deleterie. Da un lato il ghostato si sente sminuito proprio agli occhi della persona amata, per cui sperava di contare qualcosa,

ma dall’altro, fenomeno che tra i giovani può avere un impatto persino peggiore, può venire svalutato e deriso nel gruppo di pari. 

Un percorso di educazione affettiva dovrebbe porre al centro la relazione, termine sempre più desueto nel cyberspazio, in cui per definizione navighiamo da soli. Relazione significa promuovere lo spostamento dello sguardo dal “me” delle mie esigenze, al “noi” di una relazione, che può essere a due, se la relazione è affettiva, ma anche a molti, se la relazione è di gruppo, per esempio in una classe, o in una squadra. E tenendo, infine, presente, che se allarghiamo una relazione a un “noi” di moltissimi, allora parliamo del nostro vivere all’interno di una società.  

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(^) Angela Critelli, sociologa, e Sonia Sabato, psicologa clinica, hanno presentato con me “Il ghosting, tra narcisismo e paura della relazione”, nell’ambito di un percorso di educazione affettiva, in una scuola superiore di Torino. 

Ecoansia. L’angoscia per i cambiamenti climatici, fuori dal nostro controllo.

Donal Trump affronta il problema del riscaldamento globale con una battuta: “Si alza il livello delle acque? Bene, avremo più case con vista mare!”. L’ottimismo dell’ex (futuro?) presidente Usa, però, non è condiviso da tutti, e infatti sono molti a sviluppare sintomi di ecoansia, “la paura che si prova al pensiero ricorrente di possibili disastri ambientali” (Treccani).

Controllo

Vorrei mettere in evidenza alcuni tra gli aspetti fondativi dell’ecoansia. Il primo è la perdita di controllo per quello che ci capita. Quando a livello individuale sviluppiamo problemi legati all’ansia, in genere essi riguardano la paura di usare l’ascensore, di salire sull’auto di altre persone, prendere un aeroplano (e simili). Ossia situazioni in cui siamo assoggettati agli eventi, e nulla di quello che ci avverrà sarà sotto il nostro controllo. In altre epoche, una forma di paura sociale simile all’ecoansia è stata quella dell’incubo atomico. Anche in quel caso i cittadini erano totalmente dipendenti da scelte altrui, e non c’era nessuna posizione politica, sociale, economica che potesse garantire definitivamente dal quell’incubo. 

Oggi vediamo una situazione simile, le condizioni meteo peggiorano letteralmente a vista d’occhio, e la percezione di essere in balia degli eventi, e di non poter esercitare nessun tipo di controffensiva volontaria, spiazza e mette in crisi. 

Fiducia nel futuro 

Il secondo aspetto che vorrei segnalare, e che spiega perché ho citato Trump, è la paura verso il futuro, la disillusione, la conflittualità globale (ai nostri danni). Gli anni dell’incubo atomico erano anche gli anni della crescita economica, delle conquiste della scienza, delle grandi rivoluzioni culturali. L’ottimismo dilagava in qualunque ambito, le conquiste spaziali da un lato, e i trapianti di organi dall’altro, davano la percezione di un uomo ormai definitivamente padrone della natura. L’esatto opposto di quanto avviene oggi. 

La frammentazione sociale, economica, politica del mondo, come abbiamo già detto diverse volte, corrisponde ad una inevitabile frammentazione psichica. E la natura, che credevamo doma, si rivela infida, pericolosa, matrigna. Ma la frammentazione sociale non colpisce tutti nello stesso modo, come l’ecoansia. C’è persino qualcuno che può vedere nei cambiamenti climatici un’opportunità. È questione di punti di vista.

La fine del sacro non riguarda la natura 

E poi c’è un ulteriore aspetto, la fine del sacro. Inteso come ciò che crediamo inviolabile, insuperabile, la morte del sacro non ha riguardato la natura, e questa per l’uomo contemporaneo è un’onta insostenibile. Il femminicidio ci insegna che persino le relazioni più intime possono essere distrutte, senza vergogna o colpa. Le chiese sono vuote, perché l’uomo ha distrutto l’idea stessa di Dio, non abbastanza adeguata alle sue necessità. La politica, l’arte, tutti i campi dell’idealismo umano sono stati svuotati, piegati, ma non la natura.  

La natura continua ad essere sempre sopra di noi, sempre incontrollata, e oggi sempre più minacciosa. Ecco un’altra coordinata dell’ecoansia. Abbiamo imparato a dominare, persino a mistificare, tutto ciò che è (o dovrebbe essere) sacro, tranne la natura. E questo basta e avanza, per creare angosce profonde e gravemente insostenibili. 

Coppie al capolinea. Come riconoscerle, come uscirne.

La prima relazione in cui siamo coinvolti, appena dopo la nostra nascita, è all’interno di una coppia. La dimensione duale del rapporto con la madre, (o con chi ne fa le veci) influenza, di conseguenza, ogni rapporto a due che incontriamo nel corso della vita. Ci sono relazioni che ci ricordano quella primaria modalità di accudimento, ce ne sono altre totalmente diverse, e altre ancora che ne condividono soltanto alcuni aspetti. Vivere in coppia è difficile, perché arriva sempre il momento in cui la persona amata non risponde alle nostre aspettative, che derivano da quella esperienza primordiale. 

Relazioni tossiche

Ad ogni modo, non tutte le dinamiche che non rispettano le aspettative sono finite, ad alcune, in realtà, ci si può adeguare. Del resto a questo serve l’innamoramento, a trovare la forza di superare le differenze, per preservare qualcosa di più grande. Ci sono invece altre relazioni, che palesemente hanno esaurito la loro carica propulsiva, in cui le differenze diventano ogni giorno più pesanti. In questi casi non serve resistere, nascondersi dietro l’amore che si prova, perché il più delle volte è un amore “tossico”, e queste coppie sono al capolinea. Un esempio di relazione tossica è quella basata sull’asimmetria. Se c’è uno sbilanciamento di potere, come nel caso della violenza di genere, o della dipendenza affettiva o economica, in cui una delle due parti è soggiogata all’altra, l’“amore” che si prova non è sempre genuino, perché “intossicato” dalla necessità. 

Mind games

Quando in una coppia la comunicazione è dominata dai “mind games” (ne ho parlato in precedenza) ossia da quelle giravolte verbali che mirano solo a mistificare i fatti, anche questa coppia è al capolinea. I mind games sono attacchi vili che generano insicurezze, mentre un rapporto maturo dovrebbe emancipare, non legare. Una delle motivazioni alla base dei mind games è l’infedeltà. Le coppie infedeli amano mistificare i fatti, per poter continuare a mantenere l’attuale equilibrio. 

Identità di genere

Non se ne parla mai, ma è un’occasione di grande sofferenza in coppia. Se uno dei due partner smette di identificarsi nel rapporto di genere in atto, le cose si fanno molto difficili. Diamo per scontato che se un individuo forma una coppia con un altro individuo del genere opposto, l’identità di genere che ne deriva sia stabile o intoccabile. Poiché questo non è vero per tutti, può capitare che l’equilibrio si spezzi, e anche in questi casi la coppia è al capolinea. 

Se nella vita di coppia sentiamo echeggiare uno o più di questi aspetti, l’asimmetria, i mind games, e l’identità di genere, fermiamoci. Potrebbe andarne del bene dell’altra persona, del futuro che insieme pensiamo di costruire, ma anche del nostro benessere personale.   

A cosa serve, oggi, una biblioteca?

Ho recentemente presentato il mio libro Il Kintsugi dell’anima in una prestigiosa biblioteca di Torino. Tra le domande postemi dal pubblico durante la discussione, una è stata particolarmente interessante: quale utilità può avere oggi una biblioteca? I nostri dispositivi elettronici sono in grado di racchiudere in sé, (in memoria, o grazie alle reti) più libri di quanti ne possa esporre una biblioteca comunale. Pertanto non è così strano chiedersi a cosa possa servire, oggi, una struttura fisica adibita a tale scopo?

Guglielmo e Don Chisciotte 

Cercherò di rispondere, a questa suggestiva domanda, traendo spunto dalla storia della letteratura. La creatività umana, lo sappiamo bene, è alimentata da fantasie e angosce diffuse tra gli individui. Diverse tra queste riguardano le biblioteche. Ne Il nome della Rosa di Umberto Eco, si racconta di una biblioteca che nasconde un segreto terribile. Il protagonista vorrebbe entrare in questa biblioteca, cedere alla tentazione della conoscenza (già letto in un altro libro?), ma i saggi glielo impediscono. Le vicende si snodano attorno a questo edificio bizzarro e terribile, fino al drammatico epilogo che ne determina la distruzione in un rogo. 

In questo romanzo le fantasie e le angosce sono molteplici, si intrecciano e accavallano tra loro, ed è proprio la biblioteca a definirne contorni e confini. Anzitutto la conoscenza, di biblica memoria. Conoscere è pericoloso: per non ripetere l’errore di Adamo ed Eva, è bene creare una grande biblioteca, e richiudere lì dentro i segreti della conoscenza. Ma come per Adamo ed Eva, anche per il protagonista del romanzo è impossibile stare lontano: l’uomo è per natura portato a interrogarsi, indagare, cercare risposte. E questo anche a costo della sua stessa incolumità. La conoscenza cambia, per sempre. A volte uccide. E poi c’è il rogo. Nell’antichità un’importante biblioteca andò in fiamme, distruggendo chissà quali capolavori. E sappiamo bene che i regimi autoritari danno alle fiamme i libri. Cosa significa? Quale angoscia si nasconde dietro al rogo di una biblioteca? Come si vede il rapporto tra gli esseri umani e le biblioteche è un rapporto ancestrale, profondo, che chiama in causa le considerazioni più importanti che facciamo, e che vorremmo condividere con tutti, anche quelli che verranno dopo di noi. 

Nel suo Don Chisciotte della Mancia, Cervantes racconta di un nobiluomo che vive rinchiuso in una biblioteca. Il potere taumaturgico del libro compatta il sé di Don Chisciotte, lo aiuta a costruire un mondo fantastico in cui il bene è al sicuro, in buone mani, e il male non avrà il sopravvento. Don Chisciotte non può uscire dalla biblioteca, pena la sua sanità mentale. E infatti, in un’epoca antecedente ogni studio sulla psichiatria, Cervantes (che scrive dal carcere) mette alla berlina quest’uomo un po’ strano, ci fa sorridere bonariamente, ma oggi possiamo fare ben altre considerazioni. La follia, la paura, il vuoto esistenziale, il libro come antidoto alla morte del sé. Se l’arte esprime fantasie e angosce collettive, cosa significa che la biblioteca sia luogo di salvezza dalla morte psichica? Cosa vuole dirci Cervantes, e cosa sentiamo noi quando lo leggiamo? Perché se non chiudiamo il libro dopo la prima pagina significa che riesce a dirci qualcosa. 

John Keats

Torniamo alla domanda iniziale. A cosa serve oggi un edificio adibito a custodia, catalogo e prestito di libri, oggi che grazie all’informatica possiamo avere in tasca tutti i libri che vogliamo? Ebbene, la biblioteca, come ci insegna la letteratura, non è mai soltanto uno spazio fisico. È un luogo per incontrare menti, pensieri, emozioni, anche di persone che non ci sono più. È un luogo per cercare da soli qualche piccola verità, in un mondo che ci serve grandi verità ogni giorno, al punto che non sappiamo più di chi fidarci. Tornano alla mente le parole di John Keats: “Chiamate il mondo la valle del fare anima”. Ecco a cosa può servire oggi una biblioteca, a fare anima. Forse stiamo sconfinando nella psicologia, di nuovo mi sono fatto prendere la mano. Allora fermiamoci qui, di questo parleremo un’altra volta.  

La droga come mezzo marinaio. Il bambino infelice all’inseguimento della persona amata.

La droga è sballo, socialità, prestazione. Ma la storia di alcuni ragazzi con Disturbo da Uso di Sostanze ci insegna che la droga è qualcosa di più. Può diventare un aiuto per raggiungere la persona amata, un modo per essere finalmente visti, accettati, apprezzati. In questi casi il rapporto con la droga si trasforma in progetto di vita: non esiste più un “io” senza lei, ma soltanto un “noi”. La narrazione personale diventa, infatti, “io e la sostanza”. 

Infanzia infelice

Il primo tassello della vita di questi pazienti è la disperata ricerca di un modo per essere “visti” da qualcuno. La necessità di captare l’affetto dell’adulto, può portare un bambino a sperimentare diverse alternative. Ad esempio diventare uno studente modello, oppure un piccolo saggio che fa da genitore ai suoi genitori, oppure ancora colpevolizzarsi, per assumere su di sé le responsabilità delle sventure familiari. 

Nei casi di cui stiamo trattando si è visto che alcuni bambini, una volta cresciuti, imparano a colmare la distanza tra loro e gli adulti con l’aiuto della droga. 

Raggiungere l’adulto da cui non si è stati raggiunti è operazione devastante dal punto di vista emotivo, che necessita di un supporto esterno. Vedere la luce di quello sguardo, sentire che finalmente l’Altro è contento, non ha prezzo, e se questo risultato viene ottenuto con l’aiuto di una droga, (o dell’alcol, o di psicofarmaci), le conseguenze sono straordinariamente distruttive. 

Il padre malato ha finalmente sorriso, ma ci sono riuscito grazie a quella sostanza che mi ha calmato l’angoscia. La madre depressa ha detto bravo, perché ho fatto tutto senza dimenticare niente, ma l’ho fatto grazie ad un bicchiere di alcol, perché altrimenti sarei andato su tutte le furie. Ecc… In queste situazioni, non sono più io a fare qualcosa, ma noi, io la mia fidata compagna/compagno. 

Cortocircuito: le maschere 

In questo modello, come si vede, c’è un cortocircuito. Fare qualcosa con l’aiuto di una droga non è privo di effetti collaterali. Se da un lato la droga aumenta certe prestazioni, alza le soglie della fatica, e per questo garantisce la visibilità tra i pari, dall’altro crea una dipendenza che può essere anche fisica. 

Inoltre, e soprattutto, quando la narrazione è “a due”, una parte difficile del trattamento è quella delle cosiddette maschere. Nel momento in cui un individuo raggiunge l’Altro con l’aiuto della droga, e impara a raggiungere tutti gli Altri significativi con l’aiuto di una droga, imparerà giocoforza a fare sempre di più tutto quanto in questo binomio. Fino a quando sarà legittimo chiedersi: quando parlo con te, con chi sto parlando? Con te, o con voi due? 

Ecco perché quando per un adulto che è stato un bambino infelice, conquistare la persona amata diventa un progetto disperato, da raggiungere a qualunque costo, la droga può rappresentare una risorsa, un alleato, un’amica. Ed è proprio in casi come questo che il Disturbo da Uso di Sostanze si incastra nell’identità profonda, nella personalità di un individuo. Con le conseguenze che si possono immaginare. 

Migranti interni: il dialetto come collante dell’unità familiare

L’argomento migrazioni interne è ormai stabilmente scomparso dal dibattito pubblico, come se non fosse più cosa di attualità. L’Italia è una patria, gli italiani sono a casa loro ovunque, quindi perché parlarne? Eppure non è sempre così, considerato l’alto livello di malessere che attraversa tutt’oggi chi deve spostarsi per necessità, che sia studio, lavoro, o altro. 

Tradizioni popolari, cibo, dialetto 

Aspetti fortemente indicativi del malessere di chi cambia residenza, sono dati dal rinnovato attaccamento alle tradizioni popolari della città d’origine, talvolta mai considerate in precedenza, e dall’idealizzazione della sua cultura gastronomica, con il contemporaneo rifiuto di quelli del luogo di arrivo. E poi, altro elemento oggi fortemente identitario, l’uso massivo del dialetto, o di espressioni gergali/dialettali, anche nel rapporto quotidiano con i nuovi conterranei. 

Lasciando per ora da parte l’attaccamento alle tradizioni locali e alla cultura gastronomica, vorrei soffermarmi un attimo sull’uso del dialetto. Nel corso del Novecento, gli spostamenti dalle campagne verso le città sono stati accompagnati da profondi vissuti di inferiorità. La produzione in fabbrica, la “città mostro” che tenta i giovani, il progresso, ecc…, sono stati vissuti con deferenza dai contadini, che si sentivano fuori posto anche a causa delle difficoltà comunicative. 

La gente di campagna si vergognava a parlare dialetto in città, sentiva di non essere come gli altri. La scuola dell’obbligo ha insegnato la lingua italiana, e questo ha consentito a persone provenienti dalla val Brembana di comunicare con chi era nato a Palermo, e così via. 

Oggi assistiamo al processo inverso, chi cambia città non prova a dimenticare il dialetto, ma anzi ne ricerca la forza espressiva, per colorare il suo discorso, e anche, inutile negarlo, per escludere chi non capisce.

Dialetto come legame familiare?

Si struttura un’idiosincrasia a doppia mandata. Da un lato il nuovo arrivato è spaesato, non conosce nessuno, deve ambientarsi. Dall’altro, però, alcune volte, fa di tutto per non integrarsi, per tenere gli altri a distanza. È così che nasce un sospetto. Quali vincoli profondi legano un persona che cambia vita alla sua città di origine? Prendiamo un torinese che sogni di imbarcarsi sulle navi: una volta partito per mare, che senso avrebbe tenersi strette tutte le sue tradizioni, dialetto compreso? 

Qui occorre ribadire la distinzione tra pubblico e privato. Nel pubblico, ad oggi, i dialetti sono praticamente scomparsi. Sono stato in vacanza a San Vito Lo Capo, in Sicilia, e a Ceriale, in Liguria. Ho potuto notare che in entrambe le realtà il prete dice messa in italiano (e non in dialetto), i menu dei ristoranti sono scritti in italiano, i pescatori al mercato del pesce usano l’italiano, per vendere le loro primizie. Così possiamo chiederci: se un abitante di San Vito Lo Capo o di Ceriale sente parlare il suo dialetto, a cosa pensa? Al suo parroco, alla sua amata pizzeria, al mercato del pesce al mattino? Io credo di no. Dico, invece, che a sentire il dialetto penserà, sostanzialmente, alla sua casa, alla sua famiglia, alla nonna che lo chiamava quando era bambino. 

Se nel Novecento il dialetto era segno di arretratezza culturale, oggi, che non abbiamo più aree arretrate, è segno di appartenenza. Escludere, o sorprendere, gli altri parlando in dialetto, non ha il senso di dichiarare il proprio analfabetismo, ma piuttosto il proprio attaccamento al contesto di partenza. 

O forse, più direttamente, alla famiglia d’origine. 

Alessandro Baricco, il nostro classico

È stato con un misto di commozione e gratitudine che ho accolto Abel, il nuovo libro di Alessandro Baricco. Con l’occasione vorrei definire, se non il peso specifico, almeno le coordinate della figura di Baricco nel nostro tempo. E arrivare, così, ad affermare, che se non possiamo ancora chiamarlo classico, poco ci manca. 

Il Max Biaggi della cultura italiana

Baricco è stato sovente definito il Max Biaggi della cultura italiana. La presenza di Umberto Eco, il gigante per eccellenza, sul suo stesso palcoscenico, ne ha inevitabilmente adombrato la fama, per molti anni. Così, è proprio oggi che Eco non c’è più, e la cultura italiana è costellata di acculturati faziosi e rancorosi, che riscopriamo il talento smisurato di Alessandro Baricco. 

Scrittore, drammaturgo, fondatore di una “scuola per narratori”, Baricco è forse il nostro ultimo vero intellettuale. L’uomo di intelletto non è colui che va in tv a dire come educare i figli, scrive libri in difesa di gente indifendibile, o si affaccia ai balconi ad annunciare la fine (o il tramonto) del nostro tempo. L’intellettuale fa cose. 

Toccare le coscienze è un fatto di talento, e proprio questo stupisce di Alessandro Baricco, il suo smisurato talento, specie se paragonato ai contemporanei. Pensiamo per un attimo a Herman Hesse, alla sospensione del tempo interiore nei suoi libri. Intere generazioni hanno amato Il lupo della steppa, Tempo di fieno, o lo sfortunato Peter Camenzind.  E li hanno amati perché da quei libri hanno ricevuto qualcosa. 

Scommetto che tutti noi ricordiamo almeno un’immagine di Siddharta, e ricordiamo anche l’epoca in cui lo abbiamo letto per la prima volta. Perché i classici sono sempre attuali, se non altro dentro di noi. 

Fuoriclasse, e fuori dalla classe

Alessandro Baricco è un fuoriclasse assoluto, come Hesse, Hemingway, o Michael Ende. La sua opera supera il tempo, ci emoziona, e soprattutto ci interroga. In questo differisce dai contemporanei, che non gettano domande, ma sparano risposte. Soltanto che quelle risposte, che loro sentono buone, non lo sono necessariamente per tutti noi. 

La grande opera artistica e intellettuale, e qui ci torna utile Umberto Eco, è più simile al Pendolo di Foucault, che apre, stimola, inquieta, che non al consiglio generico “Va dove ti porta il cuore”, che riempie di sicurezza, e lascia addormentare sereni. O se vogliamo, è più simile ad una seduta di psicoterapia, in cui le certezze vengono messe in dubbio, non fortificate. 

Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde.” Scelgo questo segmento, non me ne vogliano i fans, a emblema dell’intera opera di Alessandro Baricco. In questa scansione di Castelli di rabbia c’è più di una frase fatta: c’è un progetto di ricerca che è filosofica, spirituale, ma anche psicoanalitica. Perché i libri che fanno dormire sereni, sono più simili ai fumetti che ai grandi romanzi. E poi c’è una sensazione: che uscito dall’ombra di Umberto Eco, daremo finalmente a Baricco ciò che è di Baricco. Ovvero, che se non possiamo ancora chiamarlo classico, in fondo, poco ci manca. 

Il mio ultimo libro

Il Kintsugi dell'anima

Una raccolta di scritti brevi che offre speranza e crescita personale, affrontando temi universali come famiglia, lavoro, sport e attualità. Invita i lettori a scoprire opportunità di miglioramento anche nelle difficoltà, trasformando la fragilità in forza.