Pragmatismo americano, disagio e vuoto interiore. La fine del secolo a stelle e strisce e la follia del nostro presente.

Il tramonto del Pragmatismo anglosassone

Disagio, malessere e psicopatologia aumentano a vista d’occhio, insieme alle modalità, sempre più brutali, con cui vengono espressi. Di contro tutti gli ambiti tradizionali in cui incanalare le energie negative, e provare a cambiare la società, sembrano avere perso attrattiva: politica, religione, arte, istruzione. Persino lo sport, da sempre occasione di svago di massa, è ormai soltanto un pretesto per scatenare livori profondi, altrimenti inespressi. 

Cosa resta? Resta un soggetto scoperto, fragile, totale preda dei suoi istinti più arcaici. Incapace di individuare modalità costruttive per difendere il proprio , che egli sente sempre più esposto, vulnerabile, in via di frammentazione

Quando andiamo in crisi, in genere è per una concausa di motivazioni. L’essere umano ha una capacità di adattarsi alle situazioni maggiore di altri esseri viventi, per questo quando uno o due aspetti della nostra vita vengono meno, riusciamo a reagire appoggiandoci a quelli che ci restano, fino a trovare un nuovo equilibrio. Invece se nello stesso momento si sfaldano diversi elementi, allora crolliamo. Per questo si dice che la crisi è multidimensionale, perché non è data soltanto da un fattore. 

Per capire le ragioni di tanto malessere nel nostro attuale presente, quindi, dobbiamo analizzare diversi fattori, e guardare un po’ indietro. Ad esempio dobbiamo finalmente riconoscere che il Pragmatismo, una delle filosofie su cui abbiamo poggiato (inconsapevolmente?) la nostra esistenza, non si attaglia alla nostra cultura. La fine del secolo americano ci lascia scoperti di modelli culturali adeguati, e nella nostra innata esterofilia cominciamo a guardare a oriente, nella speranza che almeno laggiù abbiano delle risposte efficaci per noi. Ma questo è il punto, in oriente hanno risposte efficaci per loro, come le avevano in USA nel Novecento per gli americani di allora, e non è detto che ne abbiano anche per noi. 

Stavolta dobbiamo far da soli, cercare dentro, non fuori, le risposte. E chissà, forse scoprire che una cultura più propriamente europea esiste davvero. Quantomeno nell’incontro tra tradizioni filosofiche e personologiche che non si riconoscono né in quelle più propriamente anglosassoni, né in quelle del medio o dell’estremo oriente. 

Alla ricerca del senso dell’essere (e del fare)

Talvolta consideriamo il Pragmatismo come se fosse la ricetta del benessere. Ma il Pragmatismo (Pragamaticismo, ecc…, in tutte le sue varianti), e soprattutto la concezione che a livello più base si tende a farne, non può funzionare per noi. Prendiamo la Brexit, per esempio. Ho sentito analisti politici dire che in seguito alla Brexit non ci sarà nessun problema, poiché i britannici sono pragmatici. Significa che se il tempo dirà che la scelta di uscire dall’Unione europea sarà stata cattiva, essi chiederanno di rientrare. Ecco l’essenza del pragmatismo utilitarista, valutare la bontà di una posizione rispetto alle sue conseguenze. Ossia, non c’è nessun presupposto identitario, nessuna passione condivisa, nessuna identificazione con problemi comuni, ma pura e semplice valutazione pragmatica. 

Alle nostre latitudini, d’altro canto, sento sovente dire: “Non fate studiare ai giovani la filosofia o la musica, che non portano da nessuna parte. Fate studiare informatica, ingegneria, fisica.” Altra posizione diabolicamente pragmatica. E’ meglio avere un musicista entusiasta, o un ingegnere svogliato, perché non sente suo il lavoro che fa? E cosa ne pensate di un ingegnere svogliato, che si muove in un ambiente demotivante, non meritocratico e svalutante? Ecco che il ragionamento prende corpo. Il Pragmatismo per noi non funziona (sono pragmatico, se lo affermo?). Abbiamo bisogno di appassionarci, di credere in quello che facciamo, di sentire che è nostro. In una parola abbiamo bisogno di sentire che quello cha facciamo abbia un senso: per noi, per la nostra storia di vita passata, presente e auspicabilmente futura.  

Frammentazione 

Va da sé che individui che fanno cose non appaganti, ma convenienti, siano individui perennemente sull’orlo di una crisi di nervi. Non a caso anche questa è un’immagine del cinema americano del Novecento. La frammentazione sociale che stiamo vivendo, come ho già sostenuto altrove, sta conducendo ad una società “borderline”, ossia emotivamente instabile, caratterizzata da condotte altamente rischiose per il soggetto, e intrisa di vuoto esistenziale. Non c’è dubbio che l’identificazione massiva con i presupposti teorici del Pragmatismo non faccia che acuire, esasperare, questa frammentazione. In ciascuno di noi convivono le cose che amiamo, e che danno senso profondo a quello che facciamo, e le cose che invece abbiamo dovuto credere, seguire, percorrere, perché l’esperienza diceva che fossero più convenienti. 

Per fare qualche esempio si può accennare a individui che hanno sposato la persona sbagliata, pur amandone un’altra. A quelli che fanno il lavoro sbagliato. Andando un po’ più in profondità potremmo dire di quegli individui che hanno scelto di identificarsi con ideali o con immagini di sé che non li rispecchiano, ma che comunque erano più semplici da gestire. Come si vede questa posizione è certamente altamente patogena, perché scinde ulteriormente gli individui, già ampiamente alienati dalle note vicende e trasformazioni del nostro presente. 

Così ritengo che per fare fronte alla frammentazione sempre più dilagante dovremmo partire anche da considerazioni filosofiche di base. Una è questa, la filosofia americana non fa per noi. Non rispecchia quello che siamo. Dovremmo guardare un po’ più dentro dento di noi, e stabilire che il senso dell’essere è dato anche dal credere, fare, e rincorrere cose che amiamo e che ci fanno stare bene. 

Società di massa borderline

Odio, rabbia, aggressività, sono sempre di più la cifra della società in cui ci muoviamo. L’insoddisfazione ci circonda, ma diversamente dal passato, ed è confermato da tutte le statistiche, invece di reagire in maniera propositiva, costruttiva, reagiamo distruggendo. Anzitutto a parole, ma non solo. 

Frammentazione 

La frammentazione dello spazio politico, sociale, economico ha determinato una frammentazione dell’identità. Non tanto e non solo nei termini in cui Ferenczi definiva la frammentazione interna (e inconscia) di parti scisse, sovente di origine traumatica; ma una frammentazione in parti distanti e difficilmente riconducibili a unica identità. 

Prendiamo la politica, per esempio. Un tempo gli schieramenti erano netti e definitivi,  ed esserne parte garantiva anche un sostegno all’identità. C’erano le sezioni sul territorio, i giornali, le reti tv con programmi dedicati, ecc…tutto questo aiutava anche a definire la propria identità. Oggi la politica è ultra frammentata, ed è molto più difficile identificare un progetto di appartenenza. Anzi, il partito del non voto ci dice che sono sempre meno quelli che si identificano in un progetto politico. 

Lo stesso vale per la religione e il rapporto con il sacro. Le chiese si svuotano, ma non c’è un travaso altrove. Le nuove generazioni praticano un blando ambientalismo, ma è ancora troppo poco, e poi ammetterete che l’impatto sull’identità individuale dato da un’appartenenza religiosa, non lo possa dare (almeno ad oggi) una filosofia ambientalista, per radicale che sia. 

Potrei fare altri esempi, come il clima impazzito, l’ascensore sociale, o il rapporto con i poveri del mondo, ma direi che ci siamo capiti. La frammentazione, lo spezzettamento, del contesto in cui ci muoviamo slabbra, di conseguenza, la nostra stessa identità: ci sfugge lo sguardo d’insieme, fatichiamo ad avere il controllo sulle variabili, aumenta il senso di impotenza. 

Professione hater: verso un mondo borderline?

Così prendono il sopravvento l’irritabilità, il livore, la rabbia. Si è persino diffusa una figura che un tempo non esisteva: lo hater, l’odiatore. Vomitare perenne insoddisfazione, e poi odio che diventa scoppio d’ira, quando meno te lo aspetti. Ai semafori, in assemblea di condominio, a scuola. Affrontare la frustrazione distruggendo, anzitutto a parole, ma non solo, però, rasenta la forma patologica che conosciamo nei nostri reparti, il disturbo borderline di personalità

La coesione del sé, negli anni dello sviluppo, va di pari passo con l’aumento delle competenze intellettive superiori, quelle che ci aiutano a generare strategie vincenti. 

Ecco una grande differenza rispetto al paziente con sindrome borderline. Il borderline ha un sé frammentato, ma non ha sviluppato la capacità di individuare modalità costruttive, evolutive, di risposta al suo malessere. Infatti sovente è incappato nella tossicodipendenza, nella farmacofilia, oppure in comportamenti a rischio, ecc. 

L’individuo con identità frammentata, ma che non ha ancora una personalità borderline, ha invece la capacità di individuare strade alternative. Ecco la direzione che dobbiamo seguire. La collettività sta scivolando verso la condizione borderline. Ma ritengo che ci sia ancora spazio per recuperare il senso di smarrimento dato dalla frammentazione sociale, e invertire la rotta dell’odio per l’odio, per tornare ad una prospettiva evolutiva. Ossia trasformare la rabbia in proposta, in azione costruttiva. Nessuno dice che sia facile, ma l’alternativa potrebbe essere il baratro. 

Giovani sotto stress. La società senza politica, religione e passione per l’arte.

Gli Italiani non votano, non vanno più in chiesa, non amano la cultura. Il disinteresse, direi quasi il tedio, è rotto soltanto da una blanda forma di ambientalismo, che se non altro denota ancora la voglia di credere in qualcosa. Dagli Hikikomori (ragazzi che si chiudono alle relazioni) ai tentati suicidi, dagli accessi al pronto soccorso psichiatrico ai TSO, le forme di disagio giovanile dilagano, e nessuno riesce a proporre contromisure efficaci.  

Gli studenti e la politica

Le generazioni passate erano quelle dell’impegno politico, dei cortei, della partecipazione popolare alle decisioni sui diritti civili, sulle guerre, sulla vita pubblica. Oggi però la politica ha deluso, non lo scopro certo io, la gente si è stufata. Così l’astensionismo aumenta ad ogni tornata elettorale, e i partiti politici accusano chi non vota, invece di capire che anche il non voto è un messaggio. Fare politica è una passione, una ragione di vita. C’è chi ha scritto dei libri, sulla politica, chi per la politica è stato perseguitato, e chi ci ha rimesso la vita. In gran parte lo slancio ideale verso la politica appartiene ai giovani, ha a che fare con il mondo dei giovani. I giovani sanno essere grandi idealisti, sanno passare le notti a discutere di ipotesi, di alternative, di proposte. Così la disaffezione nei confronti della politica, per quanto colpisca l’intera società, fa più danni tra i giovani (o quelli che un tempo venivano genericamente chiamati gli “studenti”), la parte della società che naturalmente dovrebbe occuparsene.  

La passione per la politica ha almeno due importanti funzioni psicologiche e identitarie: canalizza le energie e costruisce significati. Se un giovane, poniamo, si iscrive a un partito politico, ne segue la vita e le tendenze culturali, ne appoggia le proposte e ne promuove la diffusione, da un lato incanala delle energie, per esempio l’aggressività, in una cornice di proposte concrete, dall’altro individua dei significati nella propria vita, e nel proprio operato, che vanno al di là della mera quotidianità, e anzi si spingono a coinvolgere le generazioni future. Per questo in passato è stato molto importante che i giovani si aggregassero a discutere di politica, perché il confronto, anche aspro, tra idee, posizioni, ipotesi, è certamente più proficuo e meno deleterio di un confronto tra sassaiole e bottigliate, come talvolta avviene, ad esempio, nel caso del tifo sportivo.  

Per questo si vede come la crisi della politica, il fatto che i giovani non credano più nei partiti e non ne seguano più la vita con passione, li lasci privi di un grande meccanismo di gestione e rivalutazione di condotte e di speranze. Senza politica i giovani stanno peggio.  

L’azione cattolica 

Un altro ambito che storicamente ha costituito fonte di aggregazione e di partecipazione attiva, è stato quello religioso. Nei decenni scorsi erano migliaia i giovani che partecipavano a eventi, meeting, percorsi spirituali proposti da organizzazioni religiose. Pensiamo al mondo cattolico, per esempio, alle giornate della gioventù, ai ritiri spirituali, alle gite parrocchiali

La disaffezione degli Italiani nei confronti della chiesa è reso evidente da un dato segnalato dalla CEI, Conferenza Episcopale Italiana: nelle scuole sono sempre meno gli alunni che chiedono di prendere parte alle lezioni di religione. Questo è preoccupante per un motivo: il sacro non suscita interesse, non è usato per interpretare la vita e il mondo. Come la politica, anche la spiritualità incanala energie che potrebbero essere disperse malamente, e offre un’opportunità di leggere il mondo, ossia di ragionare su cosa si potrebbe fare per migliorare questa o quell’altra cosa. Insomma, come la politica, la spiritualità è strettamente connessa alla “speranza”. 

Se le cose stanno nel modo in cui dice la religione, cosa sono io? E cosa sono, su cosa si basano, i rapporti con gli altri? Che cosa può dare senso alla mia giornata, alle mie notti, alle mie vacanze? Il senso del sacro è fortemente fondativo dell’identità, una società in cui gli individui non cercano il sacro, non credono nelle religioni, non si fanno domande filosofico – esistenziali, è una società che va in pasto all’economia, e abbiamo già detto altrove del pericolo che questo può rappresentare. 

Arte: cultura o provocazione? 

Veniamo ad un altro grande motore delle idealità e delle identità, la cultura. John Lennon, secondo alcuni il più grande artista del Novecento, disse di avere chiuso l’esperienza Beatles quando capì che la sperimentazione era finita, e che la loro arte si era trasformata in un unico grande business. Secondo John Lennon il business non è arte. Era un idealista, non c’è dubbio, e infatti da solo muoveva le masse. Ecco, un idealista muove le masse. Con l’idealismo non si mangia, lo sappiamo, ma si riempie la testa di pensieri, di significati, di speranze. E questo è tantissimo. A quanto pare i movimenti artistici si spostano sempre più dalla comunicazione alla provocazione, e gli artisti piegano le loro capacità tecniche in senso commerciale: per vendere si deve parlare di loro. Per qualcuno è certamente un bene, alcune proposte artistiche sono interessanti, non c’è dubbio, ma la provocazione non può diventare la ragione di tutta la pratica artistica. O quantomeno, se lo diventa lo fa a scapito dell’altro significato dell’arte, quello che in termini molto generali potremmo definire “fare cultura”.

Lo scivolamento dell’arte verso la provocazione a tutti i costi, verso la massificazione, verso i grandi numeri, è il terzo aspetto che credo importate sottolineare. L’arte come la politica e la religione sono moti interiori che costruiscono il senso dell’essere, che aiutano chi se ne occupa a costruire significati. 

Se le persone hanno perso la voglia di sognare, di sperare, di immaginare un mondo diverso, per forza di cose restano invischiate nel pantano del qualunquismo, per forza di cose restano vittime delle seduzioni della rete. 

Il disagio giovanile è il risultato catastrofico, tra l’altro, di questo impoverimento passionale per la vita, per le sue attività sociali, per quel sogno del domani che ci culla ogni sera quando ci addormentiamo. 

Il disagio è strettamente correlato alla patologia mentale, che sovente non è altro che l’aumento a proporzioni insostenibili di quello stesso disagio. E il primo passo per contrastare il disagio è riempire l’essere di sogni, di speranze, di slanci vitali. 

Il secondo passo sarà, poi, quello di riempirlo di relazioni vitali, di affetti, di progetti condivisi. Ma come diceva Michael Ende, questa è tutta un’altra storia, e ne parleremo un’altra volta. 

Lo smartphone in classe

Ricordo quando nelle scuole si diffusero i video game portatili, quando arrivarono le calcolatrici professionali e più tardi le agendine elettroniche. Ogni volta grandi levate di scudi da parte degli insegnanti: dove andremo a finire, la didattica non sarà più la stessa, i ragazzi non seguiranno con attenzione. Le innovazioni tecnologiche spaventano, non si conoscono bene, non si sa quali contromisure adottare, così è più facile demonizzare, che provare ad armonizzare. 

Internet: quale verità?

Come ho già riportato altre volte, la specificità di Internet (e del suo tempo) rispetto al tempo dei media tradizionali è la frammentazione della verità. Prima di Internet la verità era ‘franosa’, ‘debole’, ‘inafferrabile’, ma non frammentata. Su un giornale di sinistra, o una tv di sinistra, avevi una certa lettura dei fatti, su testate capitaliste o cattoliche un’altra: l’ordine era debole, ma comunque garantito. 

Su Internet invece ognuno è opinionista: giornalisti, studenti di filosofia, storici ecc… . Ne discende che l’interpretazione di un fatto non sia legata alla linea editoriale che la contiene, ma all’individuo che la esprime, che tra l’altro la può variare da un giorno all’altro, in base alle sue convenienze personali. 

Di conseguenza quella che era una verità ‘debole’ è diventata una verità frammentata, atomizzata, polverizzata. Sotto un post social ha pari dignità e visibilità ogni tipo di commento: favorevole, contrario, neutro. 

Frammentazione psichica

Ogni buon filosofo sa che la verità è multiforme, per questo Internet non può essere criticato se ospita punti di vista diversi. Il problema arriva quando la frammentazione non riguarda la verità, ma il sé che la interpreta. La frammentazione della vita psichica, specie quando è inconsapevole, è dannosa e crea sofferenze. 

Lo smartphone in classe, o comunque in mano ai ragazzi, può creare questo effetto paradosso, ed è questo che va arginato. Il preadolescente e l’adolescente sono ancora poco esperti di pensiero ipotetico, ossia di quel pensiero astratto che arriva con la maturazione.

L’esposizione incontrollata a informazioni che frammentano l’opinione sulla verità, può aggredire un sé in costruzione, se non ben supervisionato da parte degli adulti. 

Gli aggeggi informatici (pensiamo anche ad orologi smart o occhiali) entrano ed entreranno sempre più nelle scuole, quindi più che ostacolarli converrà capire da subito come gestirne le controindicazioni. Se non è possibile fermare l’esposizione incontrollata, bisognerà quantomeno tenerne conto nelle diverse fasi scolastiche, e apportare all’azione formativa specifici strumenti pensati ad hoc

Riforma scolastica: la complessità

Ecco che tornano vecchi fantasmi. Sostenere che servano nuovi strumenti potrebbe significare che gli insegnanti non siano abbastanza adeguati, ma è una semplificazione della realtà. Fornire ai ragazzi una formazione adeguata ai tempi non può coincidere con lo scaricare il peso di questa formazione su famiglie o corpo docente. 

Per entrare in classe con uno smartphone, e non uscirne fagocitati, è necessario che la scuola tenga conto della nuova complessità delle cose, e soprattutto della complessità della vita psichica di uno studente. Complessità che è ben superiore a quella di alcuni anni fa, in cui i ragazzi erano inquietati ‘soltanto’ dall’adolescenza. 

8 marzo e femminismo. Il discorso mai concluso sulla violenza di genere.

Una donna su tre

Una donna su tre afferma di essere stata vittima di violenza nel corso della vita, ossia circa il 33 per cento del totale. Tra queste una su sette afferma che la violenza sia stata di matrice sessuale

Se a questo dato aggiungiamo che gli uomini in questione non sono gli stessi due o tre che vanno in giro ad aggredire e violentare, appare chiaro che il tema ‘violenza nella coppia’, o se preferite ‘violenza di genere’, coinvolge un numero spaventosamente alto di individui. 

Parlare di violenza di genere in ambito femminismo e parità di diritti, pertanto, è difficile e pericoloso. Da un lato si rischia di mettere fuorilegge milioni di uomini, accusandoli di avere fatto violenze che forse neppure hanno compreso. Dall’altro significa mettere e al bando milioni di donne, accusandole di avere caratteri deboli e di ripetere gli stessi vecchi errori nelle relazioni affettive. 

Le cose tuttavia sono più complesse di così, e infatti nel femminismo contemporaneo il discorso sulla violenza di genere, per quanto affrontato migliaia di volte, non è mai stato portato ad una conclusione.

Femminicidio e diritto di proprietà

Lo snodo cruciale che dovrebbe fare convergere gli sforzi del neo femminismo contemporaneo (ma vi prego troviamogli un altro nome) è quello del femminicidio

In genere si guarda al femminicidio (circa 300 casi all’anno in Italia) come a un evento raro e lontano, che riguarda persone strane, violente, distanti dal nostro modo di vivere. Qui sta il punto fondamentale del femminismo odierno, nel sottovalutare la portata culturale del femminicidio. 

Il femminicida e la sua vittima non sono necessariamente persone strane e avulse dal contesto sociale, anzi, tutt’altro. Il presupposto culturale di base, non ideologico si badi bene, ma socio culturale, del femminicidio è il diritto di proprietà. 

Il mio smartphone è un oggetto soltanto mio, come la mia automobile, la mia chitarra, o la custodia dei miei occhiali. Se questi oggetti sono miei ne posso disporre in maniera totale, e posso stabilire se tenerli, regalarli ad altri o gettarli nel cestino. Il femminicidio è l’estensione del diritto di proprietà ad una persona. 

Il femminicidio è il banco di prova del femminismo contemporaneo: si deve comprendere che si tratta della punta di un iceberg, un iceberg che rappresenta il disconoscimento dell’altro come individuo autonomo e indipendente. 

Il punto non è la violenza: tanta o poca che sia non fa molta differenza. Il punto vero è il diritto di proprietà. Se credo che una persona mi appartenga, che non sia degna di fare un passo senza la mia approvazione, sto già facendo una violenza di proporzioni inaudite. 

Il discorso sulla ‘violenza nella coppia’, o ‘violenza di genere’ se preferite, non è mai stato portato a conclusione perché non si è mai concentrato sul concetto di proprietà. Ecco su cosa devono insistere le azioni educative, i convegni, le tavole rotonde, del femminismo contemporaneo. Ammesso che se ne facciano ancora. 

Adolescenza, web e alimentazione: i ragazzi sono ben informati?

Una delle modifiche irreversibili che il web ha portato alla nostra vita riguarda il rapporto con il cibo. L’aumento dei contenuti social a sfondo alimentare non può non avere un impatto sulla percezione che abbiamo della nutrizione e di tutto quello che le ruota intorno. In adolescenza, inoltre, ogni micro evento va considerato sempre come elevato a potenza. Questo a causa della difficoltà degli adolescenti di adeguarsi al corpo che cambia, ma anche alla competizione tra pari, che a seconda dei casi può essere altamente distruttiva. 

Ho già detto altrove del food porn, ossia della moda esibizionista di postare i piatti che abbiamo cucinato o che stiamo per mangiare, vorrei ora soffermarmi sull’informazione e sulla disinformazione. 

Fake news

La capacità di leggere i contenuti impliciti di un testo, di un video o di un evento storico è centrale nella scuola come nella vita di tutti i giorni. La libertà di pensiero di cui godiamo si basa sulla possibilità di dare interpretazioni diverse, anche contrastanti, di uno stesso fenomeno. Tuttavia fare errori di valutazione molto grandi può essere controproducente, anche nel lungo periodo, e decifrare correttamente i dati che abbiamo davanti può discriminare tra conseguire un successo o un fallimento. 

Sui social network è facile incappare in sedicenti sessuologi, medici, esperti di storia, di lingue straniere ecc… e naturalmente anche di nutrizionisti. Dico di sedicenti non per sfiducia, ma perché dietro ai nomi ‘Emily 99 studentessa di medicina’, ‘Peppe Trapp ginecologo’, ‘Maneskina osteopata e erborista’ è difficile scorgere professionisti in grado di aiutare chi ha problemi di salute. 

Così il problema si sposta sull’utente della rete, sulla sua capacità di distinguere e scegliere tra un buon consiglio e un parere scientifico. 

Disturbi e disturbatori alimentari  

Il discorso alimentare in adolescenza può aprire faglie di vulnerabilità. La competizione nel gruppo classe, ma peggio ancora nello spogliatoio della palestra, può scatenare ossessioni profonde legate alla qualità o alla quantità del cibo assunto. Se aggiungiamo che i canali informativi privilegiati dagli adolescenti sono giocoforza quelli collegati al web, capiamo quali difficoltà abbiano educatori e famiglie nel modulare il flusso e la qualità delle informazioni. 

Le dinamiche di gruppo possono indurre i ragazzi a estrapolare frasi o frammenti di video dai social network e farne regole di vita. Il rinforzo ad un messaggio non è dato da chi lo emette, ma dal valore che viene assegnato dai membri del gruppo di riferimento. 

Se la ragazza più in vista della palestra riposta un video in cui, poniamo, si afferma che lo zucchero fa male, e infatti lei non lo assume, l’effetto di emulazione può essere dirompente. Il disturbatore alimentare, che emette sentenze legate alla sua esperienza, e che lui sente (legittimamente) efficaci, stimola, così, l’esordio di un vero e proprio disturbo alimentare. Non sarà però lui a pagarne il prezzo, ma i ragazzi e le loro famiglie. 

Cosa non ha funzionato del femminismo? La risposta sbagliata ad una giusta domanda.

Oggi nel mondo la politica è un fatto sostanzialmente maschile, la religione è un fatto sostanzialmente maschile, i grandi gruppi economici sono gestiti sostanzialmente al maschile. Dovremmo concludere, senza troppa retorica, che il femminismo ha fallito? 

Da Simone de Beauvoir alle Pussy Riot

Il punto di partenza di ogni filosofia femminista è dimostrare che i generi non hanno un ordine di importanza, e non è dal genere che discende il peso che uno acquisisce nella società. 

Tuttavia i femminismi si declinano solitamente in azioni che paradossalmente negano la parità e sostengono la superiorità femminile. La conseguenza è un irrigidimento delle posizioni, ossia un aumento della conflittualità anziché una sua diminuzione. 

Il muro contro muro conduce la parte forte ad arroccarsi sui privilegi consolidati per spostare il focus dello scontro su altri livelli, diversi da quelli in questione. Trovo eccezionali a tale proposito le parole di Lorenza Foschini, grande giornalista Rai.  Dopo essere giunte, insieme ad altre grandi firme femminili, a condurre i TG della sera, alla metà degli anni Novanta si accorsero che i direttori di testata, di rete e i direttori generali erano tutti uomini. ‘A quel punto’ disse la Foschini ‘abbiamo capito di essere state giocate: il potere non stava nel leggere il Tg, come per anni ci avevano fatto capire.’

Così ai tempi di Chiara Ferragni, come a quelli di Simone de Beauvoir, ai grandi propositi, ai grandi discorsi, fanno seguito proposte spartane, urlate, non ragionate. Valga per tutte quella delle famose incursioni delle ‘Pussy Riot’, le ragazze che nude aggrediscono personaggi famosi. Le reazioni che scatenano queste proteste sono più estreme e rigide delle intenzioni che le hanno originate.

Femminismo da piazza e da salotto.

La contrapposizione muro contro muro cementa l’identità, ma è una forzatura nazional populista dei presupposti del femminismo. Non c’è una sola rima in Christine de Pizan, una sola pagina di Simone de Beauvoir, un solo accenno nell’intera opera di Julia Kristeva che ammicchi allo scontro, alla contrapposizione, all’invettiva di piazza. 

Dividere i femminismi in quelli da piazza e quelli da salotto è un modo per fare del male al femminismo, e per rafforzare, in sostanza, le posizioni dello status quo.

L’errore strategico del femminismo, perciò, è stato quello di volgarizzare lo scontro, di esacerbare le distanze, di chiedere riconoscimento di diritti sotto minaccia (sovente di stampo sessuale) dimenticando che nel rapporto tra generi uno sa ancora fare molto male, come  mostrano i dati sul femminicidio.  

E’ ancora tempo di femminismo?

Oggi nel mondo, come dicevo, la politica, le religioni, il potere economico sono gestiti sostanzialmente al maschile. La nostra cultura, se vuole davvero essere la più liberale, deve trovare il modo di garantire la pari dignità a tutti i cittadini, come peraltro va affermando nei suoi principi generali. 

Ritengo che il movimento femminista debba anzitutto liberarsi dai connotati ‘sessisti’, perché la libertà della donna non può essere un obiettivo delle donne, ma di tutta la società. Ripulire dal dibattito gli elementi di scontro significa eliminare per esempio termini come ‘maschilismo’, ‘patriarcato’, o lo stesso termine ‘femminismo’. Favorire l’incontro significa sfavorire lo scontro. 

Ancora una volta il ragionamento converge su Julia Kristeva, la sua opera, il suo sforzo di unire il buono che c’è nelle religioni, nelle filosofie, nella psicoanalisi: il ritorno all’umano. Nello scontro di società che sotto traccia serpeggia nel nostro tempo potrebbe essere proprio la questione del femminile a spostare l’ago della bilancia della storia. Qualcuno si sente pronto?

Padri assenti: ‘presenti nell’ombra’, ‘non pervenuti’, ‘evasi’.

Un padre può risultare assente per ragioni indipendenti dalla sua volontà. La mia intenzione qui non è quella di accusare, ma di analizzare serenamente, nel tentativo di comprendere; Aiutare i figli a capire come e perché hanno sentito un vuoto da quella parte, e aiutare i padri a prendere coscienza di come alcuni loro atteggiamenti potrebbero essere letti, contro la loro stessa intenzione, come disinteresse.

Fasi diverse, percezioni diverse 

Il peso del padre nella vita di un ragazzo o di una ragazza oscilla in maniera diversa a seconda della fase di crescita. Durante l’infanzia i bambini hanno bisogno di una presenza fisica, concreta, intendo anche a livello di affettuosità. Andare a scuola, agli allenamenti, o in vacanza non è la stessa cosa senza un padre, o senza la presenza tangibile di un padre. Durante l’adolescenza invece la presenza deve essere meno fisica e un po’ più psichica. I ragazzi vogliono sentirsi meno pressati, meno controllati, ma non per questo meno considerati, spronati, o anche ostacolati, nel caso facessero cose al limite del lecito. 

Metto in evidenza almeno tre casi in cui un padre possa essere percepito come assente. 

Padri ‘nell’ombra’

Il primo è quello degli uomini presenti, ma nell’ombra. In questi casi il padre c’è ma soltanto sullo sfondo: è una sagoma seduta sul divano, senza voce, e il cui sguardo non si posa mai sul figlio. La madre bada a tutte le esigenze del bambino, lo aiuta nei compiti, incontra gli insegnanti, ecc…, ma ogni tanto agita lo spettro paterno: ‘guarda che lo diciamo a tuo padre’, oppure ‘se lo scopre papà sono dolori’.

Questi padri non si vedono, sono muti, ma esistono, si percepisce che ci sono. A loro è sempre garantito un posto a tavola, per esempio, o un posto alla recita di fine anno; I figli faranno sempre loro una telefonata dall’aeroporto, poche parole formali, per dovere di cronaca. E’ poca roba, d’accordo, ma è pur sempre qualcosa. Il figlio ha verso il padre una specie di timore reverenziale, non di più; Del resto il padre non ha neppure mai niente da dirgli, nel bene come nel male. Così il figlio sente questo padre come assente, lo ricorderà a posteriori come assente, pur se di fatto era in casa, vivevano sotto lo stesso tetto. 

Padri ‘non pervenuti’

Ben diversa la situazione dei padri che potremmo definire ‘non pervenuti’. Il padre non pervenuto è un uomo che viaggia molto, o passa il suo tempo fuori casa: in cantina a fare le sue cose, come si usava un tempo, oppure al bar con gli amici, oppure in qualunque altro luogo o situazione che non sia a casa con il resto della famiglia. Il padre ‘non pervenuto’ manca tutti gli appuntamenti importanti della vita dei figli. Il saggio di danza, il primo concerto, l’esame per la patente. Questi padri hanno impegni inderogabili, e i figli passano la vita ad allungare il collo nella speranza di vederseli arrivare, di vederli presenti, ma invano. I figli di questi uomini non di rado covano dei risentimenti, perché hanno l’impressione di essere messi sempre al secondo posto.

Padri ‘evasi’

Infine c’è il padre ‘evaso’. E’ quello che ha vissuto una vita di coppia travagliata, conclusa con una separazione conflittuale. Secondo le sue intenzioni ha abbandonato i figli nelle grinfie della madre ed è scappato a rifarsi un’altra vita. Nella percezione del figlio, invece, il padre evaso è una specie di traditore, un codardo, che ha lasciato la nave in balia della tempesta anziché dare il suo contributo per aiutare i passeggeri. 

Il figlio del padre evaso non nutre disillusione o risentimento: può arrivare a sviluppare un rancore molto profondo per il genitore, anzi a generare man mano un astio verso tutto ciò che assume caratteristiche ‘paterne’, come per esempio gli insegnanti o le autorità. Se un figlio (o una figlia) percepisce il padre come un vile che lo ha abbandonato, può arrivare a detestare gli uomini, e in certi casi persino a rinunciare ad avere una famiglia propria, per non avere mai più a che fare con un ruolo come il suo.    

Perché gli italiani non votano? Non chiamatela depressione

Un autorevole editorialista ha sentenziato che la causa del recente astensionismo alle regionali di Lazio e Lombardia sarebbe la depressione. E ha pure insistito: i partiti politici non si chiedano se è meglio candidare questo o quel personaggio, ma si dedichino allo studio dei depressi e della depressione. 

Ora, è evidente che se questo editorialista ha dei dati epidemiologici che definiscono il 60 per cento degli abitanti di Lazio e Lombardia come depressi debba comunicarli al ministero competente. Sarà certamente lesto ad analizzarli e trarne le debite considerazioni. In caso contrario, però, credo sia bene puntualizzare almeno due aspetti. 

La depressione è una malattia che può essere molto grave

Il primo è che la depressione – nelle sue varie forme – è una malattia altamente invalidante: trasforma la vita delle persone che ne soffrono, nonché quella delle persone che esse hanno intorno. 

Se non curata la depressione incide fortemente sulla vita di un individuo, distorce le traiettorie della sua esistenza. Non soltanto quell’individuo potrebbe essere felice mentre non lo è, potrebbe anche fare e dire molte cose che invece non riuscirà mai a fare o dire: esprimere i suoi sentimenti, aiutare gli altri, avere degli hobby ecc… . 

La fatica, il travaglio, la disperazione con cui molti depressi guardano alla vita possono contagiare figli, fratelli, famigliari, nelle modalità più diverse. Per non dire che molti sviluppano rapporti morbosi con psicofarmaci o con droghe, nel tentativo di autoregolare il loro umore, ma incappando in un fai da te farmacofilico e inefficace. 

Per questo chiedo agli analisti politici di avere più rispetto della depressione: un cliente davvero molto brutto, che fa ironizzare soltanto chi ha avuto la fortuna di non vederlo mai da vicino.

L’errore non è mio, siete voi…

Il secondo aspetto è che, come ho già detto altre volte, è fuorviante porre fuori da noi la causa di un problema che ci riguarda. Dire che gli astensionisti siano depressi è riduttivo e semplicistico. Da psicoterapeuta non posso che fare notare il pericolo dietro al dire: la tale cosa non va perché tizio caio sempronio non vuole capire sentire ammettere adeguarsi interessarsi informarsi (in ultima analisi adattarsi.) 

Porre fuori da noi la spiegazione di qualcosa che ci riguarda e non funziona è una forma di difesa comprensibile, ma che non migliora le cose. Se quello che faccio non va anzitutto devo fare autocritica. 

La costruzione di un senso del mondo che separa nettamente me uguale buono da altro da me uguale cattivo è una costruzione che consente l’adattamento, non c’è dubbio. Ma un adattamento che si basa sull’incomunicabilità. E’ come tornare mentalmente ai tempi del muro di Berlino. Chi è di qua, con me, ha ragione. Chi è di là, con te, ha torto. Se la storia insegna qualcosa, dovemmo provare a superarlo.   

Baby alcol: il falso sé social alla prova del gruppo

Le spaventose rivelazioni di Espad sui baby alcolisti confermano dati già nell’aria da alcuni anni. ‘Un milione di italiani tra i 10 e i 14 anni già si sbronza. E il 66 per cento lo ha fatto tra i 15 e i 17 anni’ (fonte La Stampa-Instagram). 

Generazione Influencer

Il modello base dei rapporti tra adolescenti è giocoforza il social network. Non è un giudizio di valore, sia chiaro, ma una constatazione di fatto. Quasi tutti i ragazzi hanno almeno un account social, che costituisce un’estensione, se non un completamento, della loro personalità. Di conseguenza le relazioni tra coetanei, amicizie, rivalità, amori ecc… se non nascono direttamente in rete, certamente vengono aiutate, puntellate, riempite, dalla componente virtuale della loro personalità. 

Fin qui niente di male. Il social networking, però, porta una conseguenza. L’immagine di me che tenderò a dare sul profilo sarà sempre un po’ più cool, un po’ più trendy, un po’ più performante della realtà. Non significa che il mio profilo sarà un fake, ma che le informazioni (e soprattutto le foto di quello che faccio) baderanno un po’ più all’aspetto piacevolezza, strizzeranno l’occhio al mio follower, per il quale, c’è da scommetterci, vorrei avere il ruolo di ‘influencer’ .

Anche fino a qui, se vogliamo, niente di male. E’ del tutto legittimo voler dare di sé un’immagine di persona piacevole, che fa cose divertenti, che ha una vita piena e felice. Fa parte del gioco, anzi sarebbe strano il contrario. Le relazioni però, ad un certo punto, si devono vivere in presenza, di persona, ed è qui che le cose si complicano.  

Quanti likes hai?

Prima dei social network andavi a scuola e soltanto lì incontravi i compagni di classe. Se nascevano simpatie ci si vedeva fuori dal contesto. Prima solo per un caffè, poi un’altra volta si andava al cinema, così con alcuni si arrivava alla pizza, e a lungo andare con altri alle vacanze estive di gruppo. Era un conoscere sempre meglio persone che già frequentavi, e che a vari livelli sentivi affini. Il gruppo dello stadio, il gruppo dei concerti, quello del calcetto. Una volta raggiunti gli amici in birreria tutti sapevano già chi eri, non dovevi ricoprire un ruolo, se non marginalmente. 

La generazione social ha una difficoltà in più nelle relazioni: si porta dietro i followers e i likes del social network. Quando oggi un adolescente incontra gli amici sente il peso dei suoi followers e dei suoi likes: non può tradire la propria reputazione. Così ad una festa di coetanei ci sono ragazzi che cercano anzitutto di confermare l’immagine che gli altri si sono fatti attraverso il suo profilo social, e come abbiamo detto è cosa ardua, se il profilo strizza l’occhio al follower.

Baby alcol

Il consumo smodato di alcol tra giovani e giovanissimi è certamente correlato anche alla necessità di apparire spigliati, simpatici, sicuri di sé. In altre parole al sostegno di un falso sé, un sé idealizzato, unicamente piacevole e ‘social’. 

La riflessione torna così sulla difficoltà di aprirsi e lasciarsi incontrare in maniera autentica da altre persone, ma che è anche difficoltà di voler incontrare, di voler conoscere. In questo modo la responsabilità non ricade più sulle reti o sull’uso che ne facciamo, ma unicamente sulla reale disposizione, disponibilità, con la quale ci rapportiamo agli altri. 

Come si vede queste riflessioni valgono per tutti non solo per i più giovani. Essi talvolta non hanno alternative: non hanno mai conosciuto o frequentato gli altri in un’epoca senza social networks.

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