Adolescenti in vacanza. L’amore estivo come prova dell’esistenza di sé.

Una delle sfide più difficili per gli adolescenti durante le vacanze è sopravvivere all’amore estivo

L’innamoramento estivo ha un carattere di coinvolgimento totalizzante, che è tanto più grande e ingestibile, quanto più l’altra persona proviene da una città distante. Invaghirsi di qualcuno che vive lontano ha una doppia funzione, assolutamente vitale per l’individuo. Anzitutto mette al riparo da possibili malintesi circa le aspettative, (se siamo lontani va da sé – più o meno – che alla fine della vacanza dovrà finire anche questo nostro amore). E poi, di conseguenza, questo consente di sperimentare senza paure un amore infinito, idealizzato, assoluto. Non è raro che i ragazzi perdano il sonno pensando alla persona amata, che fantastichino per ore scrivendo messaggi che mai invieranno, e che anzi coprano gli amici di messaggi vocali, in cui cercano di spiegare (anzitutto a loro stessi?), la dimensione della sensazione da cui sono sovrastati. 

Così l’amore estivo, con la sua certezza (sostanziale) di non superare certi limiti temporali, è una grande palestra di esistenza di sé. L’adolescente scopre, nello sguardo, e nella relazione con l’altro, che la propria esistenza va oltre il qui e ora. Da un lato sperimenta dal vivo quell’amore totale di cui ha sentito parlare, o di cui ha forse anche parlato lui stesso, quando ha dovuto spiegare cosa intende per “amare”. Dall’altro lato, cosa tutt’altro che secondaria, sperimenta la capacità di strutturare il mondo a seconda delle sue intenzioni. (Se devo frequentare una persona lontana dovrò parlare con i miei genitori, prendere un treno al sabato pomeriggio, rientrare tardi, fare i compiti dove e quando possibile ecc…). Nonché fare i conti con il pensiero onnipotente.  

Ecco alcune delle ragioni per cui l’amore estivo è la cosa che rimane di più di una vacanza. Perché è come guardarsi allo specchio, ma uno specchio fatto dagli occhi dell’altra persona. E riconoscersi per la prima volta nell’amore dell’altro, è una cosa che non ha prezzo. 

La coppia infedele. Perché si tradisce? Si può prevenire il tradimento? Perché alcune volte l’infedeltà spacca la coppia, altre volte no? 

L’ampiezza del fenomeno impone di trattare l’infedeltà di coppia come un fatto all’ordine del giorno, quasi fisiologico. Le coppie in cui uno, o entrambi, i partner attuano forme di tradimento, infatti, variano dal cinquanta al settanta per cento. E non è realistico, pertanto, trattare come patologico un fenomeno così diffuso.

Competizione sessuale 

La nostra vita di specie è basata (Darwin) sulla competizione sessuale. Posto che questo aspetto andrebbe fortemente ripensato, nell’ambito di quello che chiamo la rifondazione dell’Umanesimo, va da sé che di tanto in tanto, pur all’interno di una coppia stabile, un individuo abbia la tentazione di verificare quali sarebbero le sue possibilità di adattamento, in caso di necessità. Del resto la competizione sessuale non deve per forza attuarsi per essere vinta. In alcune specie animali i maschi lottano per la femmina senza arrivare ad un vero scontro, soltanto mostrando la loro aggressività. Allo stesso modo, in un contesto quotidiano, non è detto che sia necessario arrivare al tradimento, per verificare la propria capacità competitiva. Per questo tanti flirt all’ordine del giorno, non arriveranno mai ad un incontro esplicito. 

Detto ciò, va poi segnalato che una delle motivazioni per cui nelle coppie avviene un tradimento è la noia. Occorre dare a questo termine un significato esteso, non banalizzante. Ossia, il comportamento infedele non avviene perché oggi uno non sa cosa fare, si annoia, e va a costruire una relazione clandestina, ma perché la routine, l’abitudine, fa dare tutto per scontato. La dinamica del desiderio, invece, investire l’altro di attese, di piccoli sogni, di progetti, è il contrario del banale, del previsto, del già sperimentato. 

Le coppie a distanza, per esempio, vivono proprio dell’attesa, del fantasticare a occhi aperti l’incontro, del pensare alle cose che si potrebbero fare con l’altra persona, quando la si incontrerà. 

Quando non si è disposti al perdono?

Superare la “noia” in coppia è fatto sempre più difficile perché deve essere voluto da entrambi. Ecco che ci avviciniamo ad un altro aspetto importante. Si può prevenire, oppure no, il tradimento? E perché alcuni tradimenti vengono perdonati, e altri no? La mia esperienza con pazienti in crisi di coppia, mi dice che molto spesso l’infedeltà è la fortuna di una coppia, non la sua condanna. 

Afferma di avere avuto comportamenti infedeli un po’ più del cinquanta per cento degli uomini, e un po’ meno del cinquanta per cento delle donne. Questo significa che molto spesso si viene traditi da qualcuno che si è già tradito, o cercato di fare, in precedenza. Per questo non è detto che entrambi abbiano la determinazione di lavorare per prevenire questa deriva della vita a due, e proprio per questo, soprattutto, non è detto che siano disponibili a perdonarla.  

Grazie al tradimento, infatti, molte volte si ha finalmente la scusa per lasciare l’altra persona, in una coppia ormai alla fine della sua storia. Questi sono i casi in cui l’infedeltà non si può prevenire, né superare. Anzi, sono i casi in cui andrebbe vista con favore, perché offre l’occasione per fare i conti con una vita stanca e abitudinaria. 

Alfredino Rampi: l’Italia nel pozzo di Vermicino

Chi c’era, se lo ricorda. Il 10 giugno del 1981 un bambino di sei anni, Alfredo Rampi, venne inghiottito da un pozzo artesiano a Vermicino, una località vicino Roma. 

Seguirono giorni di grande passione popolare, se ne parlò ovunque, e ci fu anche una lunga diretta tv, che a quei tempi era tutt’altro che scontata. 

L’evento si chiuse il 13 giugno con una tragedia, e quel che rimane di quei giorni è una specie di lutto collettivo, un dispiacere sordo. Credo che molti abbiano pensato che sarebbe potuto capitare a loro, e soprattutto tutti abbiamo immaginato che, con un po’ di fortuna (o di organizzazione) in più, quel bambino si sarebbe potuto salvare. 

La cosa che ci ha commosso di quella vicenda, e che ce la fa ricordare ancora oggi, è la stessa che ci ha fatto amare i grandi romanzi e i colossal senza lieto fine: l’ineluttabilità del destino. Abbiamo grande ammirazione per James Bond, e per la sua grande fortuna, ma amiamo molto di più Scarlett O’Hara, quando di fronte al tramonto trattiene le lacrime, perché domani è un altro giorno. Allo stesso modo rileggiamo Guerra e Pace, pur sapendo che Napoleone non prenderà mai Mosca, perché il destino non è dalla sua parte. Lo stesso vale per Titanic, Edipo re, l’opera dei Beatles, e le altre storie con un finale che non vorresti. Tutti siamo stati vittime di un destino avverso, almeno una volta, ed è proprio per questo che le storie tragiche ci toccano direttamente. Se dopo tanti anni ricordiamo ancora nitidamente la vicenda di Alfredino Rampi, dove eravamo in quei giorni, con chi ne abbiamo parlato, è perché nel pregare per lui, nel sognare di vederlo tornare dai suoi genitori, abbiamo visto il riflesso della nostra vita, delle nostre battaglie, delle nostre speranze. Un bambino a caso, senz’alcuna colpa, preso nelle maglie di una sorte avversa. Sapevamo che il destino non guarda in faccia a nessuno, ma ci abbiamo sperato ugualmente. Per questo Alfredino ci commuove ancora oggi: perché ci ricorda che il lieto fine, in una storia, non dipende da noi. 

Perché la bella della classe non sceglie mai il compagno di banco?

Alcune coppie nascono sulla base di condizionamenti esterni. La bella della classe, per esempio, non guarda mai al suo vicino di banco, che la ama segretamente, ma punta istintivamente al bello dell’altra classe, desiderato da tutte le ragazze della scuola. Le implicazioni di questa tendenza sono fortissime: viene stilata una gerarchia basata sul potere della seduzione, ossia sulla competizione sessuale. 

La coppia male assortita e le affinità elettive

Darwin sarebbe soddisfatto, non c’è dubbio, ma una coppia che nasce sull’esigenza di un riconoscimento esterno, è una coppia male assortita. Per natura avrà vita incerta, travagliata, solitamente breve, e amo distinguerla da un altro tipo di coppia, quella che Goethe definiva delle affinità elettive. Il più delle volte il vicino di banco è proprio il ragazzo di cui la bella della classe si fida di più: è bravo a scuola, è rispettoso, e sa dare buoni consigli. È l’amico perfetto, tanto che, molti anni dopo, è ancora tra i contatti sui social network. Quindi, se il ragazzo appariscente è sparito dagli orizzonti, mentre il vicino di banco, in quegli orizzonti, c’è sempre rimasto, verrebbe da chiedersi: per quale motivo la bella della classe non ha scelto il vicino di banco? 

La questione non è banale, perché un po’ tutti abbiamo fatto una scelta di questo tipo. E c’è di più, è una scelta che, con il passare del tempo, tendiamo a ripetere. Tra gli amici delle vacanze, nei gruppi studio dell’università, e più tardi tra i colleghi di lavoro. C’è sempre una persona di cui istintivamente ci fidiamo, ma con cui mai e poi mai andremmo a cena, e poi c’è la persona con cui andremmo a cena, e non solo, ma che poi perdiamo di vista nel giro di pochi mesi. 

Quanto è importante sedurre?

La cocciutaggine con cui inseguiamo una coppia male assortita, e rifiutiamo una coppia che invece potrebbe funzionare, è la cifra della nostra difficoltà di ignorare l’effetto sociale delle nostre scelte, ossia le ricadute che determinano nell’ambiente in cui ci muoviamo. 

Così ci stiamo avvicinando ad alcuni scomodi interrogativi: preferiamo avere un ruolo sociale di dominio, in cui tutti apprezzano le nostre doti di seduttori, piuttosto che una felice vita di coppia? E se sì, quanto tempo deve passare, prima che decidiamo di prenderne atto? 

Generazione Ultimo. Perché la lotta al narcisismo è la nostra guerra civile.

Fanno discutere le dichiarazioni del cantautore Ultimo, che ha affermato di non avere amici che votino o vadano in chiesa. La cosa non stupisce per nulla, anzi, ad essere precisi, la considerazione può essere estesa anche alle altre generazioni di Italiani, ormai irrimediabilmente risucchiati dal loro egocentrismo. 

Il vuoto di fede, di passione politica, (e aggiungerei anche di interesse per l’arte), tradisce una tendenza inarrestabile al narcisismo individualista, o individualismo narcisista, fate voi. Ci sentiamo sempre più in credito verso tutto e tutti, a cominciare dallo Stato (“non voto perché di quelli non mi fido più”), per finire alla chiesa e alla religiosità (“dopo quello che mi è successo, in chiesa non ci vado”).

Tuttavia la sensazione di averne ingoiate troppe, a ben guardare, è un pretesto per chiuderci in noi stessi. Chiediamo allo Stato di fare di più, di darci di più, di organizzare meglio le nostre vite. Ma non avevamo deciso noi, a suo tempo, di avere un Paese laico e liberale? Il mantra del capitalismo liberale è “meno Stato”, possibile che oggi, che il liberalismo taglia servizi, scuola e sanità pubblica, chiediamo, invece, di averne di più? Oppure i servizi essenziali ci sono, ma cerchiamo una scusa per affermare che per noi, che siamo importanti, gli altri dovrebbero fare di più?

Il rapporto con Dio va più o meno nello stesso modo. Dove origina il vuoto di credibilità, cosa ci aspettiamo che faccia per noi, questo Dio, dove ci ha traditi, al punto che ci siamo offesi? Ovviamente ciascun lettore avrà le proprie ragioni, ma talvolta ho l’impressione che alla base della nostra reazione avversa ci sia un risentimento narcisista, perché “io sono io, e a me certe cose non le si fanno”.

Tra i lettori, chi sentirebbe, in buona coscienza, di poter dare la propria vita per un ideale? O meglio, per cosa daremmo la nostra vita? La mia esperienza quotidiana, e credo sia sovrapponibile a quella di Ultimo, è che nessuno darebbe la propria vita per difendere diritti che non lo riguardino. Cioè, rischierebbe qualcosa soltanto per difendere i propri privilegi (veri o presunti). 

Il narcisismo individualista è il vero nemico del nostro tempo. Dobbiamo combattere una battaglia identitaria e culturale, direi persino ideologica, contro il narcisismo. Come se fosse una guerra civile. Il narcisista inquina i rapporti umani, corrode il senso di appartenenza ad una famiglia, ad un gruppo di amici, ad una comunità. Il narcisista è perennemente in credito verso tutti, che dovrebbero fare di più, perché “io valgo”. 

Ha ragione Ultimo, molti hanno smesso di votare e andare in chiesa. Ma la ragione per cui non lo fanno è talvolta pericolosa, perché muove da una sensazione di lesa maestà. Se individualismo e narcisismo si incontrano, e strutturano un nuovo tipo di soggetto contemporaneo, avremo una collettività di insoddisfatti. Che inoltre denigrano tutto quello che li circonda perché non sufficientemente a loro misura. 

“Sono io, quindi ho ragione”. Una risposta ad Aldo Cazzullo.

Alcuni giorni fa, nella sua rubrica “Lo dico al Corriere”, Aldo Cazzullo rispondeva ad un lettore circa il degrado dei rapporti umani, in un bellissimo articolo intitolato “Sono io, quindi ho ragione.”. Non riassumo l’articolo, perché non possiedo il copyright, ma vorrei commentare con un approfondimento. 

L’imbarbarimento delle relazioni umane, evidente agli occhi di tutti, dipende dalla frustrazione e dall’impotenza. Da alcuni lustri a questa parte ci sentiamo in declino, sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista politico. Percepiamo la nostra voce largamente inascoltata, e anzi molti hanno perso la speranza che mai lo potrà essere. 

La storia del trauma ci insegna che l’impossibilità di comunicare una condizione di sofferenza, o peggio sentire che essa sia tollerata, se non addirittura giustificata, crea fratture dentro di sé, e risentimenti verso l’altro. Le condizioni psicopatologiche che ne derivano, poi, possono andare dalla grave scissione mentale, a varie forme di aggressività (più o meno passiva) agita in maniera scriteriata. 

Ora, io credo che nell’analizzare l’imbarbarimento delle relazioni umane, sia necessario anche definire la cornice del quadro entro cui tale imbarbarimento prende corpo, che è, per l’appunto, di progressiva e ineluttabile perdita di potere sul nostro presente, e di fiducia riguardo il nostro futuro. 

Così, oltre a segnalare con un certo disprezzo e superiorità questa situazione, dovremmo anche cominciare a fare qualcosa prima che diventi endemica. Ossia, prima che si perda la fiducia nella politica, prima che si smetta di cercare lavoro, perché “tanto non c’è”, prima che si prenda a vomitare odio per strada, al lavoro, sui social network, perché davanti c’è soltanto qualcuno che non può difendersi. 

Rileggendo l’ultima frase penso che forse queste cose stiano già avvenendo. Se è così, allora, è tardi anche solo per lamentarsi. 

Torino e il Salone del Libro.

Eccolo, è arrivato anche quest’anno. Il Salone del Libro è la spunta blu della torinesità, il party da cui passare tutti almeno una volta, l’evento meno attesto, ma proprio per questo, il più partecipato. Nato alla fine degli anni Ottanta, sul crepuscolo della vicenda industriale, il Salone del Libro è, insieme al Torino Film Festival, il vero è proprio “We will meet again” dei tornesi. 

Ogni volta mi stupisco a vedere tanto contenuto entusiasmo, tanta abnegata adesione, tanto intellettuale understatement. E non è un caso, se, per capirlo, lo devo associare al TFF. Sì, perché la torinesità è sostanza senza fronzoli, è fare l’arrosto senza troppo fumo. Altre città sono più brave col fumo, e senza dubbio ci vuole anche quello, ma sotto la Mole lo consideriamo pacchiano: è un fatto di pudore, di modestia. 

Leggere un libro, come guardare un film, si fa nel silenzio, tra sé e sé. E poi lascia una scia luminosissima, che anche quella si tiene per sé. Ecco perché andiamo al Salone del Libro, per gli stessi motivi per cui amiamo il TFF, perché leggere ci dà tantissimo, ma possiamo non dirlo a nessuno.

Così Torino è ripartita, e riparte ogni anno, dal Salone del Libro. Un libro che si apre, del resto, fa più rumore di un cannone che spara. Non mi ricordo, ma forse anche di questo, aveva già detto Mozart. 

La coppia infantile.

Il percorso di crescita è in genere una corsa verso l’età adulta, una sua anticipazione, talvolta persino uno scimmiottamento. Vi sono individui, invece, che in coppia rifiutano il ruolo di adulti, e giocano a fare i bambini. 

“Io sono grande”

Sappiamo tutti di quanto i bambini tengano a sottolineare il loro grado di sviluppo, e quanto vengano rafforzati in questo dagli adulti che si occupano di loro. A scuola, per esempio, amano aiutare dei compagni più piccoli, per senso di responsabilità, oppure a casa assicurano di poter assumere certe iniziative, perché “io sono grande”. 

Il mondo che li circonda, del resto, tende a premiare questo atteggiamento, per insegnare loro l’autonomia, e renderli consapevoli delle loro azioni.

Questa dinamica non si perde con la prima infanzia, anzi continua ad essere presente in ogni fase di crescita. L’adolescente e il giovane rincorrono l’adultità come se fosse uno status sociale. I ragazzi sognano di guidare l’auto, di uscire da soli con gli amici, di firmare i libretti scolastici. I giovani adulti sognano cose diverse, ma pur sempre cose “da grandi”: tutti abbiamo sentito la frase: “Oggi compi 18 anni, finalmente potrai…”. Al bambino e al giovane, sovente, la loro condizione sta stretta. 

Responsabilità

Vediamo coppie, invece, in cui la situazione si ribalta, e invece di fare gli adulti, i loro componenti giocano a fare i bambini. Anche questo è un caso di coppia sul viale del tramonto, ma in maniera diversa dalle altre. La cosa che sorprende di più non è la difficoltà di prendere atto della crisi, piuttosto la fuga (immaginata) dal ruolo di adulto e dalle responsabilità che esso prevede. E ovviamente tra le responsabilità c’è anche quella di fare parte di un progetto di vita condiviso. 

Supponiamo per un istante di entrare in una sala operatoria durante un intervento, e di imbatterci in una equipe che si comporta come una classe di bambini. L’anestesista che rincorre l’infermiere, disordine ovunque, e tra urla e schiamazzi il paziente abbandonato in un angolo. E poi supponiamo ancora di entrare in un parlamento e trovare una situazione analoga: aeroplanini di carta, sbadigli, chiacchiere a mezza voce. Che impressione ne avremmo? Penseremmo senza dubbio che le persone che vediamo vorrebbero essere altrove, che non hanno nessuna voglia di fare quello che stanno facendo, e che trovano più divertimento nei comportamenti infantili, che soddisfazione professionale dal loro impegno. 

Questa è la stessa impressione che si può avere dalle coppie infantili. Quando due persone si divertono di più a fare giochi, sketch, battute infantili, piuttosto che vivere il presente o progettare cose da fare insieme, molto spesso è perché queste ultime non darebbero maggiore soddisfazione, o più semplicemente queste persone vorrebbero essere altrove. 

Quindi la riflessione si sposta dal fatto stesso che la coppia sia in crisi, al peso della responsabilità di doverlo ammettere. E come abbiamo detto, è proprio la responsabilità una differenza importante tra l’infanzia e l’età adulta.  

Il Ghosting. Tra narcisismo e paura della relazione

Insieme ad Angela Critelli e Sonia Sabato (^) ho tenuto una conferenza dal titolo “Il Ghosting: tra narcisismo e paura della relazione”. Riporto di seguito i principali argomenti toccati, nella consapevolezza che il tema meriterebbe ben più che un incontro per essere affrontato nella sua interezza.

Il Ghosting 

Partiamo anzitutto da una definizione. Il ghosting è il comportamento di chi decide di interrompere bruscamente una relazione sentimentale e di scomparire dalla vita del partner, rendendosi irreperibile. Inseriamo questo argomento tra le attività didattiche riguardanti l’educazione affettiva, poiché rappresenta, a tutti gli effetti, una nuova forma di violenza psicologica

Altri comportamenti simili, come non rispondere a messaggi, chiamate o email, o disattivare le notifiche di consegna, non rientrano nella definizione stretta di ghosting, ma configurano lo stesso tipo di atteggiamento narcisistico e passivamente aggressivo. Per questo le considerazioni che seguono valgono per tutte le forme di violenza legate alle comunicazioni digitali, non soltanto a quelle incluse dalla definizione standard. 

Il termine ghosting è nato negli anni Novanta del Novecento, con le prime comunicazioni a distanza consentite da internet, ma è diventato di uso comune nel corso degli anni 2000, dopo che un giornalista americano lo ha utilizzato per definire l’atteggiamento di una star di Hollywood, che per rompere la relazione con una partner, aveva preso a “comportarsi come un fantasma”. 

Ghosting, dunque, è un modo brusco per terminare una relazione senza doverlo dire, e schivando ogni responsabilità. Può essere utilizzato per chiudere qualunque tipo di relazione, ma riguarda per lo più le relazioni affettive, ossia quelle nelle quali può essere più difficile assumersi responsabilità. 

Narcisismo 

Il ghosting è legato alle opportunità consentite dalle nuove tecnologie, che si legano alle tendenze della nostra società individualista, ma livello psicologico è sovente associato al narcisismo, il grande comune denominatore di molti atteggiamenti e comportamenti disfunzionali, nelle relazioni contemporanee.

Il narcisismo è l’atteggiamento di chi fa di sé stesso il centro esclusivo del proprio interesse, nonché oggetto di ammirazione, mentre resta più o meno indifferente agli altri, di cui ignora o disprezza il valore. Il narcisismo è sempre un atteggiamento negativo, soprattutto nelle sue espressioni più radicali e patologiche, ma si può anche affermare che, entro certi limiti, saper ignorare i commenti degli altri, o riconoscersi del valore dopo un successo (sportivo, scolastico, lavorativo) sia una componente vitale di un sé adulto. 

Empatia

Se per empatia intendiamo la capacità di mettersi al posto dell’altro, di sentire cosa sente, come se fossimo in lui (lei), il ghosting condivide con il narcisismo proprio la totale mancanza di empatia. Ignorare l’altro è una pratica violenta in quanto ignora l’altra persona, ne svaluta l’importanza nella relazione, che invece dovrebbe essere di reciprocità e di riconoscimento reciproco. 

Come il narcisista svuota l’altro di valore, e vede soltanto sé stesso, allo stesso modo il ghoster riconosce nella relazione soltanto le proprie esigenze e le proprie bieche motivazioni. Le conseguenze sono plurime e deleterie. Da un lato il ghostato si sente sminuito proprio agli occhi della persona amata, per cui sperava di contare qualcosa,

ma dall’altro, fenomeno che tra i giovani può avere un impatto persino peggiore, può venire svalutato e deriso nel gruppo di pari. 

Un percorso di educazione affettiva dovrebbe porre al centro la relazione, termine sempre più desueto nel cyberspazio, in cui per definizione navighiamo da soli. Relazione significa promuovere lo spostamento dello sguardo dal “me” delle mie esigenze, al “noi” di una relazione, che può essere a due, se la relazione è affettiva, ma anche a molti, se la relazione è di gruppo, per esempio in una classe, o in una squadra. E tenendo, infine, presente, che se allarghiamo una relazione a un “noi” di moltissimi, allora parliamo del nostro vivere all’interno di una società.  

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(^) Angela Critelli, sociologa, e Sonia Sabato, psicologa clinica, hanno presentato con me “Il ghosting, tra narcisismo e paura della relazione”, nell’ambito di un percorso di educazione affettiva, in una scuola superiore di Torino. 

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