Adolescenti: il senso di colpa nel divorzio dei genitori

Non è raro che i figli vivano con un senso di fallimento personale il divorzio dei genitori. Uno dei pensieri inconfessabili, soprattutto durante l’adolescenza, riguarda l’egoismo. Ma quando arriva la colpa, perché “potevo fare di più”, lì bisogna sapersi fermare. 

Adolescenti saggi e comprensivi 


A parte alcuni casi di violenza o soprusi, gli adolescenti vivono la famiglia come un luogo di affetti e ristoro, e la lacerazione indotta dal divorzio, intendo anche nei casi di separazioni consensuali e “pacifiche”, definisce la perdita di un equilibrio.  Solitamente i figli mostrano nei confronti del divorzio atteggiamenti maturi e consapevoli, fornendo letture comprensive, specie se inconsciamente alleati con uno dei due genitori.  “I miei non vanno d’accorso, hanno fatto bene a lasciarsi”. “Mia madre sente un amico d’infanzia, mio padre esce sempre per conto suo, era ora che ci dessero un taglio”. E cose simili.

 
La posizione indulgente verso il divorzio è una forzatura difensiva, una maschera di ghiaccio che nasconde e congela sentimenti di vuoto e abbandono

La consapevolezza che si sedimenta nella memoria dell’adolescente riguarda la premura che i genitori hanno nei suoi confronti, quanto sono disposti a rinunciare per lui/lei. Quanto valgo per loro? Soprattutto con il passare del tempo, i ragazzi imparano a relativizzare i conflitti di coppia, e a inserirli in un più ampio contesto relazionale. Così appena passata la tempesta, iniziano a covare rancori, perché “Davvero a me non hanno mai pensato”. Oppure: “Non ci voleva molto, bastava avere un po’ più di buon senso, in una direzione o nell’altra”. Questo avviene soprattutto quando le relazioni con i nuovi partner vanno in crisi, e i ragazzi ripensano all’altro genitore. 


Colpa

Qui arriva la colpa. Quando le nuove relazioni finiscono, l’adolescente si chiede: “Allora potevo fare di più?”. Ed ecco che l’identificazione inconsapevole con uno dei genitori diventa rovesciamento dei ruoli, la saggezza diventa incarico di cura e accudimento, rimprovero di non aver fatto da genitore ai genitori. 
Il senso di vuoto e abbandono, quel sottile rimprovero mai esplicitato di non essere stati visti per troppo egoismo, diventa auto rimprovero, nella certezza che si poteva fare di più. 

Ecco allora che si rende necessaria una presa di consapevolezza complessiva da parte dell’adolescente, perché ciò che da subito ha vissuto come un sopruso, una lacerazione della sua stabilità, sta diventando un penso sulla coscienza, il rimprovero di non essere stato abbastanza bravo.

Come superare l’aracnofobia?

Irrazionale

La fobia è una paura irrazionale, immotivata. Quindi per aracnofobia non intendiamo una generica sensazione di disgusto, o disagio, di fronte alla vista di un ragno, ma qualcosa di più pervasivo e invalidante. 
Che sia una paura irrazionale significa che non deriva da dati della realtà oggettiva. Che sia sostanzialmente immotivata significa che il pericolo che percepiamo è esponenzialmente maggiore di quello reale, ossia gonfiato dalla nostra mente. È come se avessimo delle lenti che ci fanno vedere tutte le cose normalmente come esse sono, tranne i ragni, che ogni volta ci appaiono sempre più grandi, più minacciosi e pericolosi. 

Rapporti di forza


Facciamo un esame della questione. In una situazione tipo, poniamo, un essere umano incontra sulla sua strada un ragno. Quali sono i rapporti di forza? Chi dei due ha una posizione privilegiata? Chi dovrebbe temere per la propria incolumità?  In una situazione standard, quando un essere umano incontra un ragno, ha di fronte a sé solo scelte vincenti. Può decidere di cambiare strada, e nessun ragno potrebbe mai rincorrerlo per obbligarlo allo scontro. Può decidere per il confronto, a mani nude, con un attrezzo, o con qualche insetticida. E anche in questo caso la sorte dell’aracnide sarebbe segnata. Potrebbe catturare l’insetto, e tenerlo, non so, in una teca di vetro. E anche in questo caso il malcapitato non avrebbe modo di eccepire nulla. 
Come si vede, in una situazione standard, (in genere) un essere umano avrà sempre la meglio su un ragno. Lo stesso vale in situazioni più articolate e complesse. Ossia se un individuo incontra un ragno in camera da letto, sul comodino, tra libri, sveglia e suppellettili. O in bagno, prima di entrare in doccia, o in auto, quando si ferma per fare benzina. Anche in tutte queste situazioni, per quanto più complicate rispetto all’esempio iniziale, l’umano avrà sempre la possibilità di sbarazzarsi dell’insetto, senza mai sentirsi realmente minacciato nella sua incolumità. 

Psicoterapia


Ecco quindi che veniamo al nocciolo della questione, se l’arcanofobia non è l’espressione di una paura concreta che riguardi la sopravvivenza, di cosa è la cifra? È a questo punto che entriamo nel territorio della psicoterapia. Perché evidentemente le associazioni che la nostra mente attua in relazione al concetto “ragno”, una volta che la vista mette al corrente il cervello della presenza di un ragno sul nostro cammino, sono associazioni che riguardano pericoli enormi per la nostra sopravvivenza psichica. Il ragno non codifica per un pericolo fisico, oggettivo, esterno, ma per un pericolo interno, psichico, che può essere persino più grave e invalidante. 
Nell’attacco di panico un individuo sente che sta per morire, manca l’aria, il cuore sta per cedere. Se queste sensazioni sono date dalla vista di un ragno significa che il ragno è l’emblema di un pericolo mortale per il . Il ragno non può dare la morte, ma può dare la morte psichica, cosa appunto, ben più grave. 
La psicoterapia punta proprio a smascherare i legami sotterranei tra la vista del ragno e la sensazione di pericolo. E l’obiettivo non può essere solo quello della desensibilizazione. Perché come per i disturbi alimentari, c’è un motivo ben preciso se la nostra mente associa il pericolo ad un ragno, piuttosto che a un panda o a un elefante. 

TSO: il trattamento psichiatrico che difende la società, ma non aiuta i pazienti

Nessun trattamento lascia i pazienti insoddisfatti quanto il TSO. La prospettiva che mette il malato al centro delle logiche sanitarie sembra rovesciarsi in psichiatria, dove il focus è più il benessere o la sicurezza del contesto, che il malessere del soggetto sofferente. 

Pazienti insoddisfatti


Per capire quanto dico basta valutare il grado di soddisfazione nei trattamenti sanitari di emergenza. A parte alcune eccezioni, si intende, la maggior parte dei pazienti che accedono al Pronto Soccorso per patologie cardiache, traumatologiche, o, come è successo durante la pandemia, gravi problematiche respiratorie, valuta molto positivamente le cure ricevute. Pazienti e loro familiari sono soliti fare regali ai medici, scrivere biglietti di ringraziamenti, mandare mail di elogi alle direzioni sanitarie. La riconoscenza per il trattamento, a parte alcuni casi di malasanità, è di solito altissima.


In psichiatria le cose vanno molto diversamente. Il paziente psichiatrico vive il TSO con un senso di fallimento individuale, e soprattutto in seguito ne conserva un ricordo negativo. Per alcuni è addirittura un’esperienza da dimenticare, di cui vergognarsi, perché si è persa la dignità. Altri invece vi hanno soltanto trovato nuove diagnosi, da curare con sempre nuovi farmaci, che i protocolli giurano essere miracolosi.

Basaglia, e poi?


Lo stigma sociale sulla patologia mentale continua ad essere forte, anche nel dopo Basaglia, al punto che la società sembra anzitutto difendere sé stessa, più che aiutare i pazienti. Prova di ciò è un caso gravissimo di cronaca in cui un paziente psichiatrico è stato inseguito nei boschi per giorni, come nei film americani dei reduci del Vietnam, accusato di aver ucciso il padre e un amico di famiglia. È stata scatenata una caccia all’uomo, al grido “state attenti, è pericoloso”, fino a quando è stato catturato. Lo stesso trattamento non viene di solito assicurato per i rei di femminicidio, per i quali, invece, valgono mille cautele, perché si sa, uno è innocente fino a prova contraria. 


Il Trattamento Sanitario Obbligatorio ha una connotazione fisica, medica, come se valesse per la mente quello che vale per le ossa, il cuore o i polmoni. Il malessere mentale viene identificato con il malfunzionamento di una parte del corpo, la testa. La psichiatria contiene, rallenta, spegne, ma non resetta, perché alla fine del TSO il malessere non è stato cancellato. 


Il supporto psicologico in psichiatria è considerato un accessorio, un abbellimento, ma non il cuore della cura, che, per l’appunto, è esclusivamente contenitiva. Ecco allora quale dovrebbe essere la vera svolta del post Basaglia, l’innovazione che i protocolli dovrebbero prevedere per approcciare casi resistenti a qualunque farmaco. 


Certo, la psichiatria dovrebbe perdere il primato, dovrebbe condividere con altri, gli psicologi, scelte, approcci, modalità di intervento. E sopratutto dovrebbe allontanarsi un po’ dal suo totem per eccellenza, da quella coperta di Linus rappresentata dallo psicofarmaco. Allora ci possiamo chiedere: la psichiatria è pronta per questa svolta? 

Come aiutare il paziente psichiatrico? Il contenimento generativo

Nel trattamento del paziente psichiatrico, in psicoterapia individuale, o in una struttura psichiatrica residenziale, si tende a fare un uso improprio del rimando di realtà. Questa è una delle ragioni per cui alcuni risultati vengono raggiunti in maniera parziale e momentanea, ossia perché il paziente trova il modo corretto di rispondere alle richieste, ma senza avere interiorizzato una nuova struttura di pensiero. 

Esame di realtà 

Rimandare costantemente dati di realtà al paziente psichiatrico è fuorviante e controproducente. La sua struttura mentale, (almeno in un primo momento), non è in grado di sostenerla, anzi possiamo dire che la sua sintomatologia è proprio una costruzione reattiva alle minacce che sente provenire dal mondo esterno. 

Poiché dal punto di vista emotivo il paziente è sensibile a chi si occupa di lui, può avvenire che nello sforzo di evitare l’abbandono da parte del curante egli cominci a mostrare dei miglioramenti. Tuttavia si nota che le reazioni del paziente ai rimandi di realtà continuano a essere di due categorie. Da un lato può offendersi perché si percepisce come  “preso in giro”, dall’altro si sente svilito in quanto “non capito”. 

La conseguenza è che al primo colpo di vento il castello di carte crolli in un istante. In questo caso alla frustrazione del paziente, che torna a farsi del male o a ripensare alla morte ecc… , si aggiunge la frustrazione dei curanti, talvolta affrontata con difese narcisistiche molto rigide, del tipo “con questi pazienti il lavoro è sempre inutile”, oppure “ecco i danni che fanno servizi territoriali inadeguati”, ecc… 

Contenimento

Il fallimento dell’integrazione degli sforzi terapeutici con la struttura interna del paziente riflette il fallimento di un’altra integrazione, quella con le prime cure parentali. Il paziente psichiatrico è molto spesso perseguitato dal fantasma del rigetto, come se avesse sentito da sempre intorno a sé un ambiente insufficientemente adeguato alle sue necessità. 

Molti pazienti hanno una storia di tentativi di adeguamento alle aspettative ambientali, tentativi sempre puntualmente naufragati, per le ragioni più diverse. Di conseguenza ne possiamo ricavare che l’esame di realtà non è in grado di aiutare i pazienti, se ad esso non si associa una forma di contenimento generativo. Ossia se non si aiuta il paziente a pensare il mondo in modo diverso da come ha sempre fatto.

Se l’ambiente originario ha rigettato il paziente in quanto bambino non desiderato, o non conforme alle aspettative, diventa proprio questo l’obiettivo del percorso di cura. 

Fornire una nuova esperienza emozionale e mentale, in grado di preparare (da capo) il paziente ad affrontare il mondo, a partire dalle sue dotazioni di base e dalle sue caratteristiche personolgiche. 

Questo è evidentemente un lavoro più lungo e travagliato di quello con pazienti il cui l’esame di realtà è integro, ed è giocoforza un lavoro fortemente esposto ad errori e regressioni. Ma è senza dubbio un approccio più maturo al trattamento di pazienti psichiatrici o a “doppia diagnosi”, ossia quei pazienti che fino a qualche anno fa non venivano neppure approcciati nella cura, perché ritenuti troppo gravi. 

Il ritorno (romantico?) dell’esistenzialismo

L’uomo del nostro tempo è sempre più frammentato, disagiato, incattivito. Alla base di questa deriva, evidente soprattutto dopo la pandemia da Covid-19, ci sono le coordinate culturali in cui ci muoviamo, sbilanciate a favore dell’informatica e dell’economia

Pragmatici e insoddisfatti

Il pragmatismo (nelle sue varie declinazioni) è la filosofia che permea di sé gran parte dei nostri atteggiamenti (ed entro certi limiti è un bene), ma soprattutto è un ideale che vorremmo raggiungere nostro malgrado. Sovente ci rimproveriamo di non essere abbastanza pragmatici, ossia di non fare fino in fondo ciò che, intimamente, sappiamo essere giusto. 

Ad esempio sappiamo che dovremmo lasciare una città, o un Paese, se le condizioni non sono favorevoli, ma poi subentrano degli ostacoli, o dei sentimenti, e rimandiamo il nostro proposito. Oppure sappiamo che sarebbe furbo, intelligente, adattativo fare un certa scelta piuttosto che un’altra, ma qualcosa ci frena, e non se ne fa niente. 

Se il pragmatismo è uno dei capisaldi della nostra cultura, per riprendere la rotta nella deriva identitaria dovremmo affrontare anche il nodo che lo riguarda. Rivederlo, ripensarlo, se non del tutto abbandonarlo.  

Esistenzialismo? Sì, grazie

Il pragmatismo ignora il rapporto che abbiamo con l’esistenza, per proiettarci verso esistenze future. Eppure la nostra esistenza è oggi, qui ed ora, non domani. E la nostra esistenza, ossia il rapporto che abbiamo con il mondo che ci circonda, non è fatta di credenze, di regole di comportamento da validare, o da piani di azione, ma da relazioni

L’esistenzialismo è andato fortemente di moda nel Novecento, ma è stato derubricato proprio per la sua “ossessione” per l’individuo, per l’attenzione al rapporto tra l’individuo e il mondo, il tempo, la storia ecc… . E non in ultimo, l’esistenzialismo ha indagato il rapporto dell’individuo con il malessere. Heidegger l’ha chiamata angoscia, Sartre l’ha chiamata nausea, ecc… . 

Oggi sappiamo che nella relazione di accudimento originaria abbiamo sperimentato per la prima volta il fatto di esserci, di esistere per qualcuno. Perché qualcuno ci ha ascoltati, si è preso cura di noi. Se parlare del rapporto che abbiamo con l’esistenza è esistenzialismo, ben venga un ritorno all’esistenzialismo, ben venga una sua rinascita. All’interno, per esempio, di quella che da tempo andiamo auspicando, la rifondazione dell’umanesimo.  

Ma l’esistenzialismo di cui parlo è profondamente psicanalitico, è intriso di relazioni. Perché cosa era sfuggito ad Heidegger e a Sartre (forse a Sartre un po’ meno) era il carattere relazionale dell’esistenza. Ossia è quando sappiamo che non ci pensa nessuno, che ci sentiamo davvero inutili, morti, inesistenti. 

Società di massa borderline

Odio, rabbia, aggressività, sono sempre di più la cifra della società in cui ci muoviamo. L’insoddisfazione ci circonda, ma diversamente dal passato, ed è confermato da tutte le statistiche, invece di reagire in maniera propositiva, costruttiva, reagiamo distruggendo. Anzitutto a parole, ma non solo. 

Frammentazione 

La frammentazione dello spazio politico, sociale, economico ha determinato una frammentazione dell’identità. Non tanto e non solo nei termini in cui Ferenczi definiva la frammentazione interna (e inconscia) di parti scisse, sovente di origine traumatica; ma una frammentazione in parti distanti e difficilmente riconducibili a unica identità. 

Prendiamo la politica, per esempio. Un tempo gli schieramenti erano netti e definitivi,  ed esserne parte garantiva anche un sostegno all’identità. C’erano le sezioni sul territorio, i giornali, le reti tv con programmi dedicati, ecc…tutto questo aiutava anche a definire la propria identità. Oggi la politica è ultra frammentata, ed è molto più difficile identificare un progetto di appartenenza. Anzi, il partito del non voto ci dice che sono sempre meno quelli che si identificano in un progetto politico. 

Lo stesso vale per la religione e il rapporto con il sacro. Le chiese si svuotano, ma non c’è un travaso altrove. Le nuove generazioni praticano un blando ambientalismo, ma è ancora troppo poco, e poi ammetterete che l’impatto sull’identità individuale dato da un’appartenenza religiosa, non lo possa dare (almeno ad oggi) una filosofia ambientalista, per radicale che sia. 

Potrei fare altri esempi, come il clima impazzito, l’ascensore sociale, o il rapporto con i poveri del mondo, ma direi che ci siamo capiti. La frammentazione, lo spezzettamento, del contesto in cui ci muoviamo slabbra, di conseguenza, la nostra stessa identità: ci sfugge lo sguardo d’insieme, fatichiamo ad avere il controllo sulle variabili, aumenta il senso di impotenza. 

Professione hater: verso un mondo borderline?

Così prendono il sopravvento l’irritabilità, il livore, la rabbia. Si è persino diffusa una figura che un tempo non esisteva: lo hater, l’odiatore. Vomitare perenne insoddisfazione, e poi odio che diventa scoppio d’ira, quando meno te lo aspetti. Ai semafori, in assemblea di condominio, a scuola. Affrontare la frustrazione distruggendo, anzitutto a parole, ma non solo, però, rasenta la forma patologica che conosciamo nei nostri reparti, il disturbo borderline di personalità

La coesione del sé, negli anni dello sviluppo, va di pari passo con l’aumento delle competenze intellettive superiori, quelle che ci aiutano a generare strategie vincenti. 

Ecco una grande differenza rispetto al paziente con sindrome borderline. Il borderline ha un sé frammentato, ma non ha sviluppato la capacità di individuare modalità costruttive, evolutive, di risposta al suo malessere. Infatti sovente è incappato nella tossicodipendenza, nella farmacofilia, oppure in comportamenti a rischio, ecc. 

L’individuo con identità frammentata, ma che non ha ancora una personalità borderline, ha invece la capacità di individuare strade alternative. Ecco la direzione che dobbiamo seguire. La collettività sta scivolando verso la condizione borderline. Ma ritengo che ci sia ancora spazio per recuperare il senso di smarrimento dato dalla frammentazione sociale, e invertire la rotta dell’odio per l’odio, per tornare ad una prospettiva evolutiva. Ossia trasformare la rabbia in proposta, in azione costruttiva. Nessuno dice che sia facile, ma l’alternativa potrebbe essere il baratro. 

Anoressia e donne in carriera

Alcune donne di potere soffrono di solitudine. Conformemente al ruolo che ricoprono, però, e all’immagine che devono dare all’esterno, questa sofferenza non può e non deve essere espressa: a loro non sono consentite fragilità. 

Disturbi alimentari e solitudine

Il disturbo alimentare è sostanzialmente storia di solitudine. E’ da soli che ci si forza a digiunare, è in solitudine che si fanno abbuffate notturne, è nel silenzio della propria intimità che si espelle il cibo, magari dopo aver mangiato in compagnia. 

Non stupisce quindi che molte donne in carriera, o comunque donne forti, tutte d’un pezzo, abituate a essere seguite piuttosto che a seguire, possano soffrire di disturbi alimentari: perché il potere fa rima con solitudine, e l’angoscia che può derivare dal comando necessita di strategie primordiali per essere affrontata. 

Le modalità legate all’assunzione/rifiuto del cibo sono tra le prime ad essere acquisite, come ben sanno le mamme che allattano: da neonati infatti impariamo a comunicare il bisogno di cibo, o a esprimere il senso di sazietà. E da neonati impariamo che quel ‘buco nello stomaco’ può essere riempito se chi ci sta davanti sa capire le nostre richieste. Ma se da adulti ricopriamo un ruolo in cui non possiamo fare richieste, perché non sono previsti attimi di fragilità, ecco che quel ‘buco nello stomaco’ dobbiamo riempirlo da soli, ossia ognuno come riesce. 

Vuoto e pieno

L’ingestione compulsiva di cibo assomiglia allo riempimento forzato di un contenitore. Spingere qualcosa giù, come i vestiti in una valigia. Riempire forzosamente il vuoto primordiale, negare l’utilità del prossimo, dell’Altro, e bastare a se stessi, o almeno provarci. Immaginate se un neonato stanco di aspettare il biberon che non arriva potesse alzarsi, e con rabbiosa voracità ingoiarne l’intero contenuto, mandando al contempo tutti al diavolo. Negare l’importanza del soccorso, proprio quel soccorso che non è arrivato quando ne avevamo più bisogno: fare da sé, a costo di sbagliare, a costo di farci male. Alla donna in carriera, non possiamo negarlo,  non sono consentite fragilità, e il corto circuito è servito. 

Colpa 

Ogni pranzo che si rispetti prevede un’ultima portata, e per il comportamento alimentare l’ultima portata sono rabbia, colpa, senso di abbandono. La colpa e le altre emozione negative del disturbo alimentare sono i diademi della solitudine,  di chi non ha altro giudice se non la propria coscienza. Ed eccoci, così, tornati alla solitudine, da cui siamo partiti. La donna in carriera, o comunque la donna forte, tutta d’un pezzo, abituata non a seguire, ma ad essere seguita, è donna sostanzialmente sola. E da sola, infatti, deve affrontare, oltre alle sue paure di leader, anche il senso di colpa per non essere riuscita, proprio lei, a riempire quel vuoto primordiale: quel ‘buco allo stomaco’ che con tanta rabbiosa voracità ha provato a riempire, mandando al contempo tutti gli altri al diavolo.    

Cos’è il disturbo borderline di personalità ?

Personalità

Tutti sappiamo cos’è la personalità, ciascuno di noi ne ha una. E sappiamo che la personalità è piuttosto ben definita e stabile nel tempo. Ciascuno di noi, inoltre, si riferisce alla personalità usando espressioni comunemente condivise. Ad esempio utilizziamo i termini di Carl G. Jung per dire che una persona è introversa o estroversa, e non dobbiamo spiegare al nostro interlocutore cosa intendiamo, perché lo coglie da sé.

Alcuni tipi di personalità si assomigliano, pur nelle differenze tra individui: per questo se ci dicono che una persona è timida tutti capiamo cosa dobbiamo aspettarci, indipendentemente dal ruolo sociale che quella persona ricopre, dal lavoro che fa o dal suo livello economico. 

Lo stesso avviene per altri tipi di persone, per esempio quelle arroganti, oppure per le persone sottomesse, o quelle egocentriche, ecc…

Disturbo borderline di personalità 

Anche le patologie del carattere si assomigliano, pur appartenendo a persone diverse, e per questo delineano quadri individuali differenti a seconda del soggetto.

E’ il caso del disturbo borderline di personalità. Con questa espressione viene definita una condizione di alta impulsività, accompagnata da instabilità emotiva e dell’immagine di sé. Ossia una condizione che non rientra in nessuna delle altre categorie diagnostiche, come per esempio la depressione o l’ansia, e pertanto è una patologia che riguarda la personalità. 

Il disturbo borderline di personalità può essere spiegato con la presenza di un sé fortemente frammentato: in alcuni casi, per esempio se sottoposto a forte stress, l’individuo va in escandescenze e perde il controllo. La frammentazione del sé durante la crisi può diventare iper frammentazione, o addirittura atomizzazione: e infatti queste persone dicono di loro stesse che ‘vanno in mille pezzi’. 

Trattamento 

In genere tratto questo disturbo con la terapia orientata alle Relazioni Oggettuali. E’ una terapia di stampo neo psicanalitico ben collaudata, che pone grande attenzione al transfert. Essa parte dalle scoperte di Sigmund Freud e prende in considerazione le relazioni affettive primordiali del paziente, mirando a individuare dove e quando le emozioni e il loro connotato cognitivo non si sono ben integrate nel sé. 

Va detto che alcuni disturbi possono essere diagnosticati in comormidità con altri, e questo può complicare il decorso del trattamento. Il disturbo borderline, nello specifico, potrebbe presentarsi insieme ad una diagnosi di disturbo della condotta alimentare, o di abuso di sostanze stupefacenti. In questi casi il trattamento necessiterebbe di tempi più lunghi, per consentire al paziente di integrare in una nuova immagine di sé tutte le parti frammentate. 

Da Vivian Maier a John Lennon: l’arte come cura del sé. La fase due della psicoterapia.

Nella fase due della psicoterapia sovente chiedo ai pazienti di fare arte. Non pretendo opere immortali, ma produzione creativa, estro: per quello che riescono e secondo le loro disposizioni. 

Uscire dal silenzio e dare corpo a stati interni può essere molto salutare. Ma solo se è anche consapevolezza e autodeterminazione: ossia comunicazione con l’altro, richiesta di riconoscimento. 

Ho recentemente visitato la mostra d’arte della fotografa Vivian Maier. Ho notato che la mia richiesta nella fase due della psicoterapia assomiglia alla distanza tra l’operare di questa artista e quello di un altro gigante del Novecento: John Lennon

La fotografa Vivian Maier ha trascorso la sua vita nel silenzio: quasi nascosta tra la gente, ha scattato migliaia di fotografie che ha praticamente tenuto per sé. E’ l’ideale dell’arte fatta per fare arte, della tensione ideale, della purezza, se vogliamo, dell’artista come poeta del creato. Non c’è la pretesa di dire niente agli altri, di suggerire, di affermare, ma solo il piacere di una narrazione intimistica, come quella di un diario segreto. Per John Lennon è il contrario. Il suo rapporto con l’arte è una passione viva che va oltre il denaro, le convenzioni sociali, il successo. Egli vuole comunicare, costi quello che costi: perdere amici, soldi, o addirittura essere espulso dagli Stati Uniti. L’esigenza comunicativa è la spina dorsale della sua storia artistica: per questo abbandona il suo fortunato gruppo. Non importa se quello che dirà sarà scomodo, l’importante è riuscire a dirlo, essere ascoltati. 

La fase due della psicoterapia è quella in cui un individuo guarda gli altri negli occhi: da pari a pari avanza le proprie richieste. Fare arte diventa così la metafora del coraggio narrativo, il coraggio di chi smette di dire e fare solo cose che fanno piacere agli altri, ma comincia a dire e fare anche qualcosa che agli altri può essere scomodo. 

Consiglio a tutti di incontrare l’opera di questi due monumenti del nostro tempo. E consiglio a tutti di osservare la differenza tra la qualità della vita di chi trova il modo di dire quello che sente, e di chi invece lo tiene per sé, forse nella paura che possa non piacere. 

La religiosità è un’alternativa alla psicoterapia? La differenza tra ‘sopportare’ ed ‘elaborare’.

Molti movimenti religiosi perseguono la felicità dell’uomo. 

Le religioni in genere (spero di non essere troppo generico né generalista) hanno come obiettivo la salvezza dell’anima. Esse offrono un impianto di credenze che definiscono il funzionamento delle cose ultime, e di conseguenza una serie di riti a cui attenersi per raggiungere l’obiettivo della salvezza. Che però è un obiettivo dell’‘al di là’. 

Non c’è dubbio che le credenze religiose diano serenità e felicità agli uomini anche ‘al di qua’, ma si tratta per lo più di una conseguenza, non è l’intento principale. 

Vi sono poi i movimenti religiosi, ovvero quelle forme di spiritualità che hanno come target il miglioramento della vita attuale degli esseri umani. Questi movimenti lasciano più che altro sullo sfondo riflessioni sulla vita eterna e sulla salvezza dell’anima, non hanno una teoria circa il culto dei defunti, né una serie di pratiche rituali definite e standardizzate. Si concentrano sul presente.  

In molti casi queste forme di spiritualità si propongono come alternative alla psicoterapia. Nei loro libri si parla di ‘auto efficacia’, di ‘respirazione consapevole’, di ‘ritrovare se stessi’ ecc…,  pratiche che vengono anche proposte per il trattamento della fobia sociale, della depressione o del Disturbo Post Traumatico da Stress

Si sa che una parte decisiva nella cura è compiuta dall’aspettativa, per lo meno per quanto riguarda il mettersi a disposizione, l’aprirsi a possibili soluzioni alternative. Però c’è una differenza sostanziale tra imparare a sopportare un peso o lasciarsi scivolare addosso un problema, e invece trovare delle soluzioni. 

La religiosità non è un’alternativa alla psicoterapia. Imparare a respirare o orientare il letto ad est non sono in grado di sciogliere i conflitti: ce ne accorgiamo soprattutto quando dobbiamo affrontare traumi profondi come la violenza o gli abusi, oppure problemi che riguardano il rapporto con il cibo, come i disturbi alimentari, o difficoltà relazionali come il saper lasciare andare. In tutti questi casi non si tratta di fortificare se stessi per ‘sostenere’ meglio i pesi della vita, ma si tratta di elaborare, digerire. 

Chi ha subito un trauma non lo supera convincendosi di esserne in grado, soprattutto se questo trauma nel frattempo ha creato ferite profonde.

Allo stesso modo chi non riesce a entrare in una galleria difficilmente lo farà senza modificare le implicazioni profonde, i significati simbolici che egli attribuisce alla galleria. 

Le nuove forme di spiritualità insegnano agli individui a essere più riflessivi, sereni, a trovare la felicità. Ma non sono un sostituto della psicoterapia. In estrema sintesi insegnano ad adattarsi, non promuovono il cambiamento. 

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