La violenza nelle relazioni omosessuali: come difendersi?

Molto spesso nelle relazioni omosessuali la violenza, il sopruso, la prevaricazione, non sono fisiche, ma psicologiche

Mind games: le manipolazioni “a fin di male”

In un precedente articolo ho definito mind games tutte quelle manipolazioni psichiche atte a mantenere soggiogato qualcuno, pur nella consapevolezza che lo si sta facendo contro il bene della coppia. Nelle coppie omosessuali sovente sono proprio questi “colpi bassi” a costituire violenti attacchi all’autostima e all’equilibrio individuale. 


In questa sede non possiamo parlare del perché queste cose avvengano, per qual motivo il mind gamer si adoperi a sminuire l’altro e al contempo a tenerlo stretto a sé, ma possiamo dire alcune parole in difesa della parte debole, di quella che subisce i mind games, e vi soccombe.


Essere parte debole in una relazione significa fare quotidianamente delle rinunce. La ragione sostanziale per cui si fanno rinunce è che si teme di perdere l’altra persona, ossia che vivere l’abbandono sarebbe enormemente più penoso che sopportare quelle rinunce. Quindi dobbiamo chiederci, che cosa mi lega così forte a qualcuno, da temere di perderlo anche se il saldo è negativo? 

Isolamento, impoverimento, dipendenza affettiva


Le relazioni affettive sono molto sovente causa di malessere, e questo perché, in definitiva, non siamo mai trattati dagli altri come vorremmo, ma come vogliono loro. Per meglio dire, abbiamo delle aspettative che sono basate sulle nostre relazioni primarie di accudimento, e ci aspettiamo, a priori, che l’altro faccia, piuttosto che non faccia, determinate cose, che però non sono necessariamente quelle che vorrebbe fare lui/lei in sua coscienza.  


In una relazione equilibrata la distanza tra le aspettative e le risposte affettive reali pesa di meno, è tutto sommato sopportabile, perché vale per entrambe le parti. Se pesa di più per una delle due, si rischia di entrare in un circolo vizioso che andrebbe spezzato il prima possibile, perché potrebbe condurre a isolamento sociale, o all’impoverimento dell’individuo, o peggio ancora a dipendenza affettiva.  


Quando in una coppia omosessuale si crea questo tipo di sbilanciamento siamo in presenza di una forma di violenza, che pur non essendo fisica, ne ha però tutti i connotati psicologici. Ed è drammaticamente sufficiente. 

TSO: il trattamento psichiatrico che difende la società, ma non aiuta i pazienti

Nessun trattamento lascia i pazienti insoddisfatti quanto il TSO. La prospettiva che mette il malato al centro delle logiche sanitarie sembra rovesciarsi in psichiatria, dove il focus è più il benessere o la sicurezza del contesto, che il malessere del soggetto sofferente. 

Pazienti insoddisfatti


Per capire quanto dico basta valutare il grado di soddisfazione nei trattamenti sanitari di emergenza. A parte alcune eccezioni, si intende, la maggior parte dei pazienti che accedono al Pronto Soccorso per patologie cardiache, traumatologiche, o, come è successo durante la pandemia, gravi problematiche respiratorie, valuta molto positivamente le cure ricevute. Pazienti e loro familiari sono soliti fare regali ai medici, scrivere biglietti di ringraziamenti, mandare mail di elogi alle direzioni sanitarie. La riconoscenza per il trattamento, a parte alcuni casi di malasanità, è di solito altissima.


In psichiatria le cose vanno molto diversamente. Il paziente psichiatrico vive il TSO con un senso di fallimento individuale, e soprattutto in seguito ne conserva un ricordo negativo. Per alcuni è addirittura un’esperienza da dimenticare, di cui vergognarsi, perché si è persa la dignità. Altri invece vi hanno soltanto trovato nuove diagnosi, da curare con sempre nuovi farmaci, che i protocolli giurano essere miracolosi.

Basaglia, e poi?


Lo stigma sociale sulla patologia mentale continua ad essere forte, anche nel dopo Basaglia, al punto che la società sembra anzitutto difendere sé stessa, più che aiutare i pazienti. Prova di ciò è un caso gravissimo di cronaca in cui un paziente psichiatrico è stato inseguito nei boschi per giorni, come nei film americani dei reduci del Vietnam, accusato di aver ucciso il padre e un amico di famiglia. È stata scatenata una caccia all’uomo, al grido “state attenti, è pericoloso”, fino a quando è stato catturato. Lo stesso trattamento non viene di solito assicurato per i rei di femminicidio, per i quali, invece, valgono mille cautele, perché si sa, uno è innocente fino a prova contraria. 


Il Trattamento Sanitario Obbligatorio ha una connotazione fisica, medica, come se valesse per la mente quello che vale per le ossa, il cuore o i polmoni. Il malessere mentale viene identificato con il malfunzionamento di una parte del corpo, la testa. La psichiatria contiene, rallenta, spegne, ma non resetta, perché alla fine del TSO il malessere non è stato cancellato. 


Il supporto psicologico in psichiatria è considerato un accessorio, un abbellimento, ma non il cuore della cura, che, per l’appunto, è esclusivamente contenitiva. Ecco allora quale dovrebbe essere la vera svolta del post Basaglia, l’innovazione che i protocolli dovrebbero prevedere per approcciare casi resistenti a qualunque farmaco. 


Certo, la psichiatria dovrebbe perdere il primato, dovrebbe condividere con altri, gli psicologi, scelte, approcci, modalità di intervento. E sopratutto dovrebbe allontanarsi un po’ dal suo totem per eccellenza, da quella coperta di Linus rappresentata dallo psicofarmaco. Allora ci possiamo chiedere: la psichiatria è pronta per questa svolta? 

La paura del corpo e le relazioni a distanza

Stiamo diventando sempre più bravi nelle relazioni a distanza, e sempre più fobici a rapportarci con gli altri in presenza. A ben guardare questa potrebbe essere una conseguenza della pandemia, in cui ciò che inizialmente era innaturale, ossia fare cose con gli altri senza averli vicini, era diventata, per necessità, una prassi. 

Paura del corpo

La tendenza a considerare “invadenti” le persone che ci stanno vicine, e ad evitare comportamenti di eccessiva prossimità come il contatto fisico, l’uso di diminutivi, gli atteggiamenti erotizzati, ci parla di una paura per il corpo e di ciò che evoca. Non sto ovviamente parlando degli abusi, che per quanto il legislatore fatichi a definire in termini giuridici, hanno connotati psichici molto chiari, sia nella vittima, sia in chi li attua. 

Sto parlando del corpo nelle relazioni, in tutte le relazioni, non solo quelle affettive. Quando saliamo sulla metropolitana, quando prendiamo il sole in spiaggia, quando viaggiamo con amici, ma anche all’assemblea di condominio, o nello spogliatoio della palestra, o in discoteca, abbiamo con noi un corpo che non possiamo eliminare. 

La cosa, per quanto scontata, è paradossale, perché sui social network, su cui passiamo molto tempo, e su cui incontriamo molte persone, il nostro corpo non c’è. 

Il passaggio dal mondo virtuale a quello fisico, il meatspace, porta evidentemente delle turbolenze.

Un’altra adolescenza

Abbiamo un corpo, quindi, che non possiamo eliminare. È un bel problema, perché sui social network ci stiamo abituando ad una sostanziale assenza del corpo. Pubblichiamo e commentiamo storie, inviamo note vocali, video, immagini: tutto senza fisicità. La ricomparsa del corpo ci spaventa, perché il corpo ha le sue regole, i suoi funzionamenti, se vogliamo le sue esigenze, e ciò che può essere negato, nascosto, o semplicemente taciuto, a distanza, non può esserlo in presenza. 

La variabile “corpo” nel meatspace, in qualche modo, ci richiama alla memoria l’adolescenza, quando per la prima volta abbiamo scoperto che tra noi e gli altri c’era il corpo. Il nostro, anzitutto, ma anche il loro. Come abbiamo superato quella fase? Quali strascichi, conseguenze, questioni irrisolte, ha lasciato alle spalle? 

Tra le conseguenze della pandemia c’è la riscoperta delle relazioni “in presenza”, con il carico di angosce che possono elicitare. Confondere la “prossimità” degli altri con l’“invadenza” nasconde, secondo me, una paura per il corpo e le sue peculiarità che ricordano molto da vicino l’adolescenza. È forse quello il vero buco nero della vita che vorremmo superare, dimenticare, cancellare dalla nostra memoria? 

Società di massa borderline

Odio, rabbia, aggressività, sono sempre di più la cifra della società in cui ci muoviamo. L’insoddisfazione ci circonda, ma diversamente dal passato, ed è confermato da tutte le statistiche, invece di reagire in maniera propositiva, costruttiva, reagiamo distruggendo. Anzitutto a parole, ma non solo. 

Frammentazione 

La frammentazione dello spazio politico, sociale, economico ha determinato una frammentazione dell’identità. Non tanto e non solo nei termini in cui Ferenczi definiva la frammentazione interna (e inconscia) di parti scisse, sovente di origine traumatica; ma una frammentazione in parti distanti e difficilmente riconducibili a unica identità. 

Prendiamo la politica, per esempio. Un tempo gli schieramenti erano netti e definitivi,  ed esserne parte garantiva anche un sostegno all’identità. C’erano le sezioni sul territorio, i giornali, le reti tv con programmi dedicati, ecc…tutto questo aiutava anche a definire la propria identità. Oggi la politica è ultra frammentata, ed è molto più difficile identificare un progetto di appartenenza. Anzi, il partito del non voto ci dice che sono sempre meno quelli che si identificano in un progetto politico. 

Lo stesso vale per la religione e il rapporto con il sacro. Le chiese si svuotano, ma non c’è un travaso altrove. Le nuove generazioni praticano un blando ambientalismo, ma è ancora troppo poco, e poi ammetterete che l’impatto sull’identità individuale dato da un’appartenenza religiosa, non lo possa dare (almeno ad oggi) una filosofia ambientalista, per radicale che sia. 

Potrei fare altri esempi, come il clima impazzito, l’ascensore sociale, o il rapporto con i poveri del mondo, ma direi che ci siamo capiti. La frammentazione, lo spezzettamento, del contesto in cui ci muoviamo slabbra, di conseguenza, la nostra stessa identità: ci sfugge lo sguardo d’insieme, fatichiamo ad avere il controllo sulle variabili, aumenta il senso di impotenza. 

Professione hater: verso un mondo borderline?

Così prendono il sopravvento l’irritabilità, il livore, la rabbia. Si è persino diffusa una figura che un tempo non esisteva: lo hater, l’odiatore. Vomitare perenne insoddisfazione, e poi odio che diventa scoppio d’ira, quando meno te lo aspetti. Ai semafori, in assemblea di condominio, a scuola. Affrontare la frustrazione distruggendo, anzitutto a parole, ma non solo, però, rasenta la forma patologica che conosciamo nei nostri reparti, il disturbo borderline di personalità

La coesione del sé, negli anni dello sviluppo, va di pari passo con l’aumento delle competenze intellettive superiori, quelle che ci aiutano a generare strategie vincenti. 

Ecco una grande differenza rispetto al paziente con sindrome borderline. Il borderline ha un sé frammentato, ma non ha sviluppato la capacità di individuare modalità costruttive, evolutive, di risposta al suo malessere. Infatti sovente è incappato nella tossicodipendenza, nella farmacofilia, oppure in comportamenti a rischio, ecc. 

L’individuo con identità frammentata, ma che non ha ancora una personalità borderline, ha invece la capacità di individuare strade alternative. Ecco la direzione che dobbiamo seguire. La collettività sta scivolando verso la condizione borderline. Ma ritengo che ci sia ancora spazio per recuperare il senso di smarrimento dato dalla frammentazione sociale, e invertire la rotta dell’odio per l’odio, per tornare ad una prospettiva evolutiva. Ossia trasformare la rabbia in proposta, in azione costruttiva. Nessuno dice che sia facile, ma l’alternativa potrebbe essere il baratro. 

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