Ratzinger e la fine del nichilismo

Joseph Ratzinger, fu Papa Benedetto XVI, è la prova che il nichilismo non è una direzione, un’evoluzione naturale della filosofia, un dato di fatto inevitabile, ma una tendenza, una moda, una scelta di vita. 

Si è detto e scritto tanto su questo personaggio: ai tempi di Giovanni Paolo II, di cui era stretto collaboratore, durante il suo, di papato, tra il 2005 e il 2013, e nell’epoca di Papa Francesco, in cui Ratzinger prese il nome di Papa emerito. Spesso a sproposito, non c’è dubbio, e spesso senza conoscere davvero molte delle verità che hanno indotto le sue scelte, e che verosimilmente continueranno ad esserci ignote.

Una cosa però, credo si possa affermare con buona certezza: l’opera intellettuale di Joseph Ratzinger codifica per la fine del nichilismo, ci dice che il nichilismo, come posizione nei confronti di ciò che facciamo è, nei fatti, una scelta. 

Dopo le dimissioni di Benedetto XVI non c’è più al mondo un interesse personale che non possa essere piegato da un interesse più alto, una carica, un ruolo che non possano cadere per una ragione superiore, per quanto celata ai più. Significa che non tutto è necessariamente relativo, non tutto sfuma necessariamente nel nulla della nostra piccola esistenza, ma può esserci un’idea, una volontà, se vogliamo una speranza che va oltre i nostri interessi particolari. 

Il fatto che il nichilismo possa essere superato equivale a dire, in termini psicologici, che le istanze superiori del nostro cervello, la neocorteccia, le alte capacità cognitive di astrazione e simbolizzazione, possono allearsi con le parti più profonde, il sottocorticale, oltre che alla nostra coscienza, per indirizzare il nostro comportamento

Ossia per determinare la nostra direzione, non essere determinati da questa direzione. 

Non è quello che facciamo che ci induce ad essere chi e come siamo, ma può esserci una ragione superiore che ci aiuta a definire cosa facciamo e come.

Ecco, il nichilismo può essere superato da una ragione superiore, da una motivazione più forte. E se il nichilismo può essere superato significa che non è assoluto, che è relativo, ossia che può essere sconfitto. 

Si è detto e scritto tanto su Ratzinger, spesso a sproposito. Ma credo che questa riflessione farebbe piacere anche a lui, e a chi come lui ha dedicato lunghe ore di studio a questi argomenti. Molto probabilmente Joseph Ratzinger è la fine del nichilismo: forse dovrei cambiare il titolo. 

La bestemmia: tra ipocrisia e paradosso

Tra le bizzarrie umane la bestemmia è senza dubbio una delle meno dotate di senso. La bestemmia infatti è per certi versi un paradosso, ma soprattutto una forma di autodifesa miope e pretestuosa. 

Dante Alighieri e Bob Dylan 

La bestemmia è un paradosso, perché nel tentativo di negare qualcosa in realtà l’afferma con forza. Se nega l’esistenza della divinità, per esempio, per farlo deve prima accettare proprio tale esistenza: le bestemmie sono espressioni che contengono la figura vilipesa, e quindi possono sottintendere il contrario di quanto vanno affermando.  

Se uno non crede in qualcosa, o in qualcuno, non è costretto ad aprire una frase parlandone: può ignorarlo e basta, o argomentare altro. Se per esempio ritiene che Dante Alighieri non sia mai esistito, o che non sia stato il poeta più grande della storia, non ha bisogno di esordire negandone la grandezza, o diffamandone l’onorabilità. Può semplicemente riferirsi, poniamo, a Giorgio Caproni, o a Bob Dylan, come ai più grandi poeti di ogni tempo: sarà poi il suo interlocutore a tirare le somme.

Una difesa meschina e mal costruita

L’altro aspetto inquietante della bestemmia, e che ritengo più importante dal mio punto di vista, è quello legato alla responsabilità. Ho già detto altre volte di quanto per gli uomini l’esigenza di trovare un capro espiatorio sia fondamentale in molte situazioni: ma questo non può diventare un modus operandi, una facile abitudine per dare ad altri la colpa di qualcosa.

Se nella vita raggiungiamo un buon obiettivo, per esempio affettivo, professionale, o economico, ci guardiamo allo specchio come Fonzie, e gongoliamo pieni di noi stessi. Se invece subiamo una sconfitta, o veniamo urtati da una brutta vicenda, ecco che partono le imprecazioni. Questo meccanismo può sembrare comprensibile, ma dal punto di vista psicologico è cosa tutt’altro che matura.

La bestemmia è un atto difensivo che pone fuori da noi stessi la responsabilità di un fallimento. I successi sono tutti nostri, gli insuccessi no. Per questo dico che è una difesa spartana e disperata: mi ricorda quei ladri che colti con le mani nel sacco incolpano i loro creditori. 

Come trovare la felicità: al tempo della tecnica e della dittatura economica

Occidente: la tecnica e il capitalismo

Secondo qualcuno l’Occidente avrebbe già conquistato il mondo. Ci si riferisce al fatto che la tecnica e il capitalismo (si badi, non la democrazia) sono le due gambe della cultura occidentale, e che sarebbero state esportate fino a creare una grande società globale basata per l’appunto su i loro presupposti. 

Dopo la caduta del muro di Berlino non soltanto la tecnica e l’economia hanno assunto il ruolo di despoti della nostra vita, ma è anche andato scomparendo il concetto di felicità. Lentamente, s’intende, ma inesorabilmente: dal dibattito pubblico è sparito ogni riferimento all’idea di felicità (gran parte della cultura di sinistra, un tempo, parlava dell’uomo e della sua felicità, ma anche la Costituzione degli Stati Uniti d’America, ovvero il massimo baluardo della cultura occidentale, la sancisce tra i diritti fondamentali.) Ma quel che è peggio anche dal dibattito privato. Nelle nostre vite non si parla più di amori, di benessere, di realizzazione personale, si parla invece di viaggi, acquisti di auto, acquisto di case, ovvero si monetizza sempre più il benessere e la realizzazione personale: come se la capacità di spesa fosse la cifra della realizzazione. 

Dopo la caduta del muro di Berlino, dicevo, si è andata affermando un’equivalenza: tecnica più ricchezza uguale felicità. La ricerca della felicità è scomparsa dalla vita degli uomini, perché la felicità è la conseguenza della presenza della tecnica e del benessere economico. 

Prendiamo l’Italia e la politica. Un tempo la politica dibatteva temi fondativi dell’essere umano, come il diritto all’aborto, l’università per tutti, la sanità ecc… In seguito abbiamo avuto una politica unicamente orientata alla crescita economica. Imprenditori, economisti, economisti e ancora imprenditori, hanno a più riprese governato il Paese, (o i suoi ministeri chiave) con l’obiettivo di migliorare le condizioni economiche della collettività. Significa che non si è ritenuto importante che la collettività fosse felice, ma che la collettività fosse, per quanto possibile, ricca. 

Anche la corsa alla tecnica ha seguito questo trend. Pensiamo alle pubblicità dei televisori: per decenni si è insistito sul fatto che il televisore di ultima generazione ti facesse godere la partita di più e meglio del vecchio, ovvero che ti rendesse più felice. Abbiamo poi scoperto, sulla nostra pelle, che uno degli sprazzi di felicità più intensi del popolo italiano, ovvero la partita dei mondiali, (amici-pizza-birra) non è dato dal tv ultra piatto o ultra smart, ma dal resto. Infatti se l’Italia non partecipa ai mondiali, guardare sul tv ultra piatto o ultra smart le altre squadre non ci rende felici.

A controprova di questa tesi posso portare due elementi: l’ora di religione e il mercato dell’arte. 

La Cei ha fatto sapere che i ragazzi che scelgono di frequentare l’ora di religione sono sempre di meno. Questo è molto eloquente, perché significa che molti giovani ritengono superflue le domande su Dio, il sacro, la vita e simili. Se come abbiamo detto la politica si appiattisce sull’economia, (e in effetti i giovani non sono più attratti dalla politica) e neppure la religione attrae come capacità di generare significati, dove trovare la felicità? 

In ultimo (ma per ora) il mercato dell’arte. Indipendentemente dalle tendenze, dai modelli imposti dai galleristi e dalla (supposta) cronica mancanza di nuovi geni, gli artisti concordano su un punto: il mercato si sfilaccia, la gente non sa più emozionarsi davanti ad un’opera d’arte, tutti cercano soprattutto la provocazione. La provocazione è la cifra di molte tendenze artistiche, anche quando non c’è più nulla su cui provocare. Anche in questo caso, come si vede, il mercato, i volumi di vendita, il numero di visualizzazioni di un post, diventano predominanti, fino a schiacciare l’idea di felicità sul parametro della moneta. 

Cos’è la felicità?

A questo punto urge una discussione. Come possiamo definire la felicità? Felicità è un moto dell’animo o una posizione più o meno in vista tra i pari? In altri termini, la felicità è qualcosa di intra psichico o è un costrutto relazionale, ovvero riflette ciò che possiamo permetterci come cose materiali o come aspetti inter soggettivi in un gruppo più o meno esteso di persone di riferimento? 

Un tempo si diceva che la felicità fosse data dal superfluo, e si prendeva ad esempio il motorino. Una volta che uno ha soddisfatto i bisogni primari, quello che resta può garantire il superfluo. Chi poteva permettersi il motorino, secondo questa teoria, era felice. 

In questo caso felicità sarebbe la disponibilità tecnica ed economica in riferimento al gruppo di pari. 

Ma certamente tra chi legge questo articolo ci sarà qualcuno che non concorda con questa tesi, qualcuno che dice no, si può essere felici anche senza avere niente. E che cosa, allora, porta alla felicità? 

Ebbene, che cosa sia la felicità, e che cosa conduca alla felicità, sono domande di senso dell’essere e sono a cavallo tra filosofia e psicologia: infatti non prevedono una risposta unica, ma tante quanti sono le persone che se le pongono. Pertanto come ognuno di noi saprebbe ben riconoscere una persona felice, ciascuno di noi ha comunque un’idea diversa su cosa sia la felicità. E proprio per questo è della massima importanza che si ponga questa domanda e che sappia trovare una risposta. 

L’altro punto decisivo è dove trovare questa risposta. Se la risposta è ‘nella tecnica e nell’economia’ si apre uno scenario inquietante: anzitutto perché in quel modo la felicità non sarà mai afferrata una volta per tutte, ma anzi tenderà a sfuggirci continuamente. E poi perché al mondo ci sarà sempre qualcuno che avrà una combinazione tecnica/economia superiore alla nostra. In questo caso andremmo a legare la nostra felicità con le condizioni di altri, con il rischio di considerare la felicità un bene finito da conquistare con una competizione. 

Se invece la risposta è ‘dentro di noi’ si apre tutto un altro scenario, che riguarda l’opportunità o la disponibilità di mettersi a cercarla. Credo che gran parte della filosofia si sia occupata di questo, quindi bisognerebbe darsi la pena di andare a leggere qualcosa. 

C’è una terza eventuale risposta: ‘la felicità è per alcuni aspetti dentro di noi, per altri aspetti al di fuori di noi’. In questo caso la ricerca della felicità diventa possibile grazie a un dialogo ragionato e orientato con un esperto del campo, ovvero con lo psicoterapeuta. Egli legge dall’interno le disposizioni individuali di ciascuno, e le favorisce ‘per via di levare’ come diceva Sigmund Freud parafrasando Leonardo Da Vinci. 

L’arte, il sacro, l’amore (non per se stessi). 

Dunque io faccio psicologia, non filosofia. Ragionare sui massimi sistemi è essenziale all’uomo almeno quanto mangiare, non c’è dubbio: ma arriva il momento in cui l’uomo deve guardare dentro di sé, e trovare le sue proprie risposte. Inevitabilmente queste risposte avranno dei legami con la sua storia personale, e perché no? con la storia familiare che egli e la sua famiglia d’origine si raccontano. 

Così il rapporto con l’arte, con ciò che è bello, ma anche il rapporto con Dio, con i defunti, ecc… diventano importanti in quanto legati ad un significato individuale che il soggetto ha imparato ad attribuire anche a partire dalle relazioni di accudimento primario che ha avuto. 

Il sogno dell’infanzia, propriamente, di chi è? Poniamo: un bambino di otto anni sogna di giocare in serie A. Ci possiamo domandare: il sogno della serie A è suo? Oppure è il sogno degli adulti che egli ha intorno, che senza volerlo gli trasferiscono un loro desiderio? Il desiderio dell’adulto si trasferisce per esempio attraverso l’amabilità, o la desiderabilità, perciò un bambino può acquisire il sogno dell’adulto e farlo suo, nel tentativo di aderire alle aspettative, ovvero di essere più amato. Come si vede il rapporto con l’arte, con Dio, con la storia ecc… è certamente un fatto filosofico di maturazione individuale, ma non sappiamo quanto influenzato dalle dinamiche affettive originarie, ovvero dagli incroci tra aspettative genitoriali e investimenti filiali. 

Per meglio dire non lo sappiamo fino a quando non lo indaghiamo. E così arriviamo al grande corto circuito del Novecento innescato da Sigmund Freud: la filosofia è in grado di attribuire significati soltanto dopo l’analisi dell’inconscio. Ovvero dopo che abbiamo stabilito se quello che facciamo o pensiamo sia propriamente nostro o una reminiscenza del passato. 

Siamo così passati dal grande inganno occidentale, che intende la felicità come accumulo di competenze tecniche e di disponibilità economiche, al paradosso degli affetti, che imbriglia la nostra felicità nella felicità di qualcun altro, ovvero nel realizzarne le aspettative. 

Vediamo quindi come la felicità sia un concetto complesso e altamente individuale, che va definito da persona a persona, soprattutto lasciando emergere gli aspetti più propriamente individuali della personalità, e eliminando quindi tutti i peggiori condizionamenti esterni. 

E’ un viaggio lungo e accidentato, lo so. Ma ne vale la pena.  

La religiosità è un’alternativa alla psicoterapia? La differenza tra ‘sopportare’ ed ‘elaborare’.

Molti movimenti religiosi perseguono la felicità dell’uomo. 

Le religioni in genere (spero di non essere troppo generico né generalista) hanno come obiettivo la salvezza dell’anima. Esse offrono un impianto di credenze che definiscono il funzionamento delle cose ultime, e di conseguenza una serie di riti a cui attenersi per raggiungere l’obiettivo della salvezza. Che però è un obiettivo dell’‘al di là’. 

Non c’è dubbio che le credenze religiose diano serenità e felicità agli uomini anche ‘al di qua’, ma si tratta per lo più di una conseguenza, non è l’intento principale. 

Vi sono poi i movimenti religiosi, ovvero quelle forme di spiritualità che hanno come target il miglioramento della vita attuale degli esseri umani. Questi movimenti lasciano più che altro sullo sfondo riflessioni sulla vita eterna e sulla salvezza dell’anima, non hanno una teoria circa il culto dei defunti, né una serie di pratiche rituali definite e standardizzate. Si concentrano sul presente.  

In molti casi queste forme di spiritualità si propongono come alternative alla psicoterapia. Nei loro libri si parla di ‘auto efficacia’, di ‘respirazione consapevole’, di ‘ritrovare se stessi’ ecc…,  pratiche che vengono anche proposte per il trattamento della fobia sociale, della depressione o del Disturbo Post Traumatico da Stress

Si sa che una parte decisiva nella cura è compiuta dall’aspettativa, per lo meno per quanto riguarda il mettersi a disposizione, l’aprirsi a possibili soluzioni alternative. Però c’è una differenza sostanziale tra imparare a sopportare un peso o lasciarsi scivolare addosso un problema, e invece trovare delle soluzioni. 

La religiosità non è un’alternativa alla psicoterapia. Imparare a respirare o orientare il letto ad est non sono in grado di sciogliere i conflitti: ce ne accorgiamo soprattutto quando dobbiamo affrontare traumi profondi come la violenza o gli abusi, oppure problemi che riguardano il rapporto con il cibo, come i disturbi alimentari, o difficoltà relazionali come il saper lasciare andare. In tutti questi casi non si tratta di fortificare se stessi per ‘sostenere’ meglio i pesi della vita, ma si tratta di elaborare, digerire. 

Chi ha subito un trauma non lo supera convincendosi di esserne in grado, soprattutto se questo trauma nel frattempo ha creato ferite profonde.

Allo stesso modo chi non riesce a entrare in una galleria difficilmente lo farà senza modificare le implicazioni profonde, i significati simbolici che egli attribuisce alla galleria. 

Le nuove forme di spiritualità insegnano agli individui a essere più riflessivi, sereni, a trovare la felicità. Ma non sono un sostituto della psicoterapia. In estrema sintesi insegnano ad adattarsi, non promuovono il cambiamento. 

Psicologia e religione. I tratti distintivi del fedele: la fiducia.

Quali sono i tratti distintivi delle persone che hanno una fede religiosa? Questi tratti sono stabili nel tempo o possono variare?

Un aspetto caratteristico dei fedeli, ovvero di persone che aderiscono ad una confessione religiosa, è quello di avere fiducia. Non è facile sapersi fidare, ciascuno di noi lo fa con estrema cautela e difficoltà, e sapersi fidare di chi non si vede, almeno direttamente, è cosa certamente ancora più difficile. Per questo è comunemente riconosciuto che avere fede sia caratteristica di un io maturo, evoluto. Inoltre non ha niente a che vedere con la cultura: tutti noi conosciamo persone di fede che non hanno un alto grado di istruzione, e di contro persone molto colte che faticano a fidarsi, e che riguardo alla fede religiosa appaiono scettiche e disilluse.

Questo è possibile perché aver fiducia in qualcosa o qualcuno è un modo di vedere se stessi e gli altri, ovvero un fatto di evoluzione dell’io, e pertanto non si acquisisce leggendo libri. Vorrei mettere in evidenza come la fiducia, a dispetto del suo nome, non sia stabile nel tempo, sia soggetta a variabilità, ma di contro sia anche ‘allenabile’.

Osservandola da vicino, soprattutto quella legata al sentimento religioso, possiamo dire che la fiducia è relazionale e personale.

La fiducia è relazionale, si accorda in virtù di una relazione, per l’appunto una relazione di fiducia, che si ha con qualcuno.

La fiducia è personale, viene data a quella persona più che ad altre, anche in virtù di aspetti personali, intimi, profondi.

Dire che la fiducia sia data su base relazionale parrebbe un’ovvietà, ma secondo me non lo è. Tutti ci fidiamo più facilmente delle persone che conosciamo bene, e con cui abbiamo una relazione avviata, piuttosto che di persone che conosciamo appena.

Molti dicono che nelle grandi confessioni religiose il fedele sviluppi un rapporto ‘diretto’ con la divinità. Questo significa anzitutto che la relazione è alla base del rapporto di affiliazione, cioè alla base della fiducia. Vi sono diverse forme di spiritualità non religiosa, come per esempio il New Age, che non prevedono nessuna relazione e quindi nessun rapporto di affiliazione. Se ci chiediamo se questa caratteristica della fede sia stabile nel tempo, l’osservazione ci sorprende. Conferma quello che sappiamo da sempre delle persone di fede, ovvero che alcune di loro oscillano, a volte anche in maniera evidente, nel corso della vita. Questo aspetto della fede, dell’avere fiducia, infatti non è stabile. Se si basa su una relazione, come tutte le relazioni è in divenire. Ecco che appare chiaro come la fiducia del fedele possa andare incontro ad alti e bassi; l’aspetto positivo, di contro, è che non essendo data una volta per tutte, può essere potenziata.

La fiducia è su base personale. Una parte importante della fiducia che noi diamo a qualcuno non dipende dal rapporto che abbiamo, ma da cosa significa quella persona per noi. Ovvero da aspetti che risiedono in profondità dentro noi stessi. Questo determina in genere un atteggiamento di fiducia o sfiducia stabile nel tempo verso le persone, cosa che invece non avviene nel caso della fede religiosa. Una vecchia canzone blues diceva: ‘Se Dio fosse una donna, bionda e avvenente, ti inginocchieresti al suo altare, le offriresti preghiere e smetteresti di bestemmiare.’ La trovo assolutamente illuminante. L’aspettativa verso qualcuno determina il credito che gli concediamo. Questo vale per quasi tutti i campi della vita, ma raramente capita in ambito religioso, in cui la fiducia non è cieca, e data una volta per tutte, ma oscilla nel tempo.

Siamo disposti, per esempio, a leggere il romanzo di uno scrittore famoso anche se ha ricevuto pessime critiche, o a guardare un film non premiato soltanto perché vi recita il nostro attore preferito. Oppure a scuola vi sono insegnanti che tendono a fidarsi più dell’allievo x anziché dell’allievo y. Nello sport avviene la stessa cosa, chiunque è portato a fidarsi maggiormente di un campione affermato. In questi casi la fiducia è cieca, ovvero viene data a priori. Sembrerà strano, ma anche in questo caso vediamo come nel sentimento religioso la fiducia su base personale vacilla, non è accordata una volta per tutte, cambia nel tempo. Questa è una nota dolente dei fedeli e dei padri spirituali di ogni tempo, perché rallenta il percorso di crescita personale nella fede. Ma anche in questo caso l’aspetto positivo è che questo tipo di fiducia può essere potenziata.

Mi è sembrato doveroso fare una breve riflessione sui modi di avere fiducia, questo tratto così distintivo delle persone che aderiscono ad una confessione religiosa. Sia nel caso dell’aspetto relazionale di tale fiducia, sia nel caso dell’aspetto personale, abbiamo visto che, contrariamente alle aspettative, la fiducia non è stabile e non è accordata una volta per tutte, anzi va incontro a variazioni anche piuttosto notevoli nel corso della vita. L’aspetto positivo di questa realtà è che la capacità di fidarsi può essere limata, sviluppata, potenziata.