“Sono io, quindi ho ragione”. Una risposta ad Aldo Cazzullo.

Alcuni giorni fa, nella sua rubrica “Lo dico al Corriere”, Aldo Cazzullo rispondeva ad un lettore circa il degrado dei rapporti umani, in un bellissimo articolo intitolato “Sono io, quindi ho ragione.”. Non riassumo l’articolo, perché non possiedo il copyright, ma vorrei commentare con un approfondimento. 

L’imbarbarimento delle relazioni umane, evidente agli occhi di tutti, dipende dalla frustrazione e dall’impotenza. Da alcuni lustri a questa parte ci sentiamo in declino, sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista politico. Percepiamo la nostra voce largamente inascoltata, e anzi molti hanno perso la speranza che mai lo potrà essere. 

La storia del trauma ci insegna che l’impossibilità di comunicare una condizione di sofferenza, o peggio sentire che essa sia tollerata, se non addirittura giustificata, crea fratture dentro di sé, e risentimenti verso l’altro. Le condizioni psicopatologiche che ne derivano, poi, possono andare dalla grave scissione mentale, a varie forme di aggressività (più o meno passiva) agita in maniera scriteriata. 

Ora, io credo che nell’analizzare l’imbarbarimento delle relazioni umane, sia necessario anche definire la cornice del quadro entro cui tale imbarbarimento prende corpo, che è, per l’appunto, di progressiva e ineluttabile perdita di potere sul nostro presente, e di fiducia riguardo il nostro futuro. 

Così, oltre a segnalare con un certo disprezzo e superiorità questa situazione, dovremmo anche cominciare a fare qualcosa prima che diventi endemica. Ossia, prima che si perda la fiducia nella politica, prima che si smetta di cercare lavoro, perché “tanto non c’è”, prima che si prenda a vomitare odio per strada, al lavoro, sui social network, perché davanti c’è soltanto qualcuno che non può difendersi. 

Rileggendo l’ultima frase penso che forse queste cose stiano già avvenendo. Se è così, allora, è tardi anche solo per lamentarsi. 

Suprematismo aziendale: il mio reparto è meglio del tuo

Quando i piccoli gruppi si sentono minacciati dall’esterno possono reagire in maniera aggressiva (lanciando una controffensiva), o in maniera paranoica (ipotizzando un pericolo imminente). Quando fanno entrambe le cose entrano in una spirale di impotenza decadente, in cui idealizzano il passato come un’epoca d’oro ormai persa, in contrasto con il grigiore del presente, aggredito e deturpato da altri. 

Il mio reparto è differente: il suprematismo aziendale 

Distinguere il mondo in buoni e cattivi per delineare il proprio gruppo di riferimento non è cosa insolita, e in genere aiuta a definire un perimetro di azione. Altra cosa è, invece, leggere il proprio gruppo di appartenenza come la vittima di un’azione ostile da parte di un altro. In questo caso si innesca una specie di “suprematismo aziendale”, ossia la narrazione di una minaccia operata da “impuri”, contro i puristi della tradizione. 

È quello che avviene, per esempio, dopo le grandi fusioni. Un gruppo di lavoro non si riconosce più nella nuova filosofia organizzativa, e reagisce chiudendosi in una  malinconia per il passato, in cui noi sì, che eravamo bravi. 

Un altro esempio di questa dinamica si può vedere in quelle aziende in cui serpeggia insoddisfazione. Alcune unità produttive, non conoscendo bene il lavoro delle altre, imputano la loro insoddisfazione al supposto cattivo operato altrui, accusando, poniamo, i progettisti di fare calcoli errati, gli operai di essere molto distratti, il settore trasporti di danneggiare i prodotti durante la consegna.  

Divide et impera: il ruolo del leader

Posto che fomentare il disaccordo tra unità produttive non convenga a nessuno, e pertanto non sorga per mero calcolo, va detto che il suprematismo aziendale è un fenomeno regressivo che parla di impotenza. 

Quando un piccolo gruppo arriva a scatenare questo tipo di reazione significa che sta esprimendo un disagio. Il suprematismo aziendale segnala la difficoltà di un’unità produttiva a uscire dall’angolo. 

Ma non è ancora “impotenza appresa”. Parla di una forza operativa ancora viva, che non si è ancora arresa ai nuovi equilibri (del post fusione, per riferirci all’esempio precedente). 

Il leader, se c’è, deve saper cogliere questa impasse e trasformarla in forza propulsiva. Perché in definitiva di questo si tratta: della richiesta di incanalare delle energie in maniera diversa. O quantomeno il leader dovrà fornire ai follower strumenti diversi per riuscire a esprimere le loro competenze nella nuova condizione organizzativa.

Difendersi dallo “Smart mobbing”

Lo smart working ha creato una galassia di nuove problematiche nel mondo del lavoro, pur senza aver risolto quelle già esistenti, come invece qualcuno auspicava. Tra gli elementi costitutivi del lavoro ci sono i conflitti, e questi sono presenti anche nel lavoro a distanza, soltanto che, almeno entro certi termini, non si vedono. 

Conflitto o mobbing?

Nel mondo del lavoro non è raro sentirsi ostacolati, boicottati, talvolta addirittura accerchiati. Da un certo punto di vista è fisiologico, perché in ogni ufficio, capannone, reparto ecc… c’è qualcuno che vorrebbe prendere il posto di un altro. Se ammettiamo che le cose stiano così, dobbiamo concludere che avere la sensazione di trovarsi in un ambiente un po’ ostile, è tutto sommato inevitabile. 

Elementi caratteristici del cosiddetto mobbing sono, tra gli altri, la natura subdola delle avversità e delle angherie perpetrate, e le ricadute psicofisiche sulla vittima. Di conseguenza dobbiamo affermare che non tutte le forme di conflittualità nel mondo del lavoro assumono carattere di mobbing. Questo perché da un lato gran parte della conflittualità nel lavoro è palese, a volte direi plateale, ed essere ostacolati apertamente è più “leale” che subire un contrasto sordo e sotterraneo. E poi perché, dall’altro, le ricadute psicofisiche di un clima malsano in genere vengono condivise a livello di gruppo, e non intaccano unicamente un singolo.

Smart mobbing e potere

Lo smart mobbing definisce quei comportamenti di violenza, emarginazione o sabotaggio perpetrati nel lavoro a distanza, che vanno dai link errati per entrare nelle call ai disturbi selettivi nelle comunicazioni, dall’esclusione dalle chat alla perdita dei file, e altre cose di questo tipo. 

Il mobbing per così dire tradizionale viene distinto in verticale, operato dalla gerarchia organizzativa, e orizzontale, fatto da colleghi. 

Questa classificazione vale anche per lo smart mobbing, ma c’è una differenza molto importante. Se in genere le angherie in presenza non avvengono mai alla totale insaputa dei vertici, nello smart mobbing questo non è detto. Ossia nel lavoro a distanza le dinamiche tra colleghi possono prendere traiettorie molto particolari e sfuggire anche totalmente al controllo dei superiori. 

Arrivando a definire così diversi livelli di potere organizzativo. Può esserci un potere “ufficiale” detenuto dai vertici, e un potere “reale”, esercitato da uno o più individui tra pari grado. Una sorta di gestione parallela delle dinamiche organizzative, che può intaccare il gruppo (clima e non solo), ma può intaccare anche il compito. In questo caso potrebbe ritorcersi in maniera più diretta sul potere “ufficiale” e i suoi rappresentanti.  

Capi che odiano sottoposti (e sono corrisposti).

In ambito aziendale è facile incontrare superiori che per ragioni professionali, personali, o per entrambe, detestano alcuni loro collaboratori. In questi casi solitamente la cosa è reciproca, nessuno si cura di nasconderla, e le ricadute sull’azione organizzativa sono evidenti anche all’esterno. 

Comunicazione

Posto che al mondo non sia possibile andare d’accordo con tutti, stare simpatici a tutti, essere amati e apprezzati da tutti, una minima capacità di adattamento è pur sempre necessaria in ogni ambito di vita collettiva. Nel lavoro siamo costretti a frequentare persone diverse da noi, e gli attriti che inevitabilmente nascono non devono interferire né su quello che facciamo, né tantomeno sulla nostra salute. 

Quando un superiore è sopraffatto dall’astio che prova verso un suo collaboratore viene meno una componente fondamentale del vivere organizzativo, la comunicazione. Se devo comunicare qualcosa ad una persona cui non amo relazionarmi, la comunicazione potrebbe risultare farraginosa, parziale o, nel peggiore dei casi, volutamente inesatta. Immaginiamo se questo avvenisse in ambito militare, o in un’azienda di prodotti chimici, o di trasporti, ecc… le ricadute per la collettività potrebbero essere enormi. 

Per questo è fondamentale che tutto quello che riguarda la “comunicazione”, ossia i flussi di informazioni tra livelli dell’organizzazione, e all’interno dei livelli, tra i vari  colleghi, sia gestito nella maniera più asettica possibile, lasciando fuori ogni antipatia o idiosincrasia individuale. 

Che in un’azienda ci sia una buona comunicazione è un fatto organizzativo, è una logica aziendale. La comunicazione è come il clima: non è buona o cattiva a priori, ma è diretta conseguenza delle scelte fatte (o non fatte) in merito.  

Leadership 

Se la comunicazione è un fatto organizzativo, la leadership è un fatto individuale, e inficiare il processo a causa di attriti personali è una sentenza sulla capacità di leadership di un superiore. 

Come tutti gli altri attori organizzativi anche il leader avrà simpatie e antipatie, e sarà più o meno stimato, più o meno apprezzato. Ma il leader che va in simmetria con un follower, anche il più ostico (vedremo altrove le dinamiche relative ai sottoposti insubordinati, ossia quelli che si oppongono alle logiche volute dall’azienda), un leader che scatena la sua antipatia utilizzando il potere affidatogli dalla struttura gerarchica, è un leader senza leadership, ossia un capo. 

Il capo è temuto, ma non rispettato dai suoi sottoposti, oggetto di scherno nelle loro conversazioni private, un luogotenente che non ha in mano il suo gruppo di lavoro. 

Il concetto di capo apre profonde riflessioni sulla leadership, sulla sua funzione all’interno di una struttura, e soprattutto sulle aspettative che si hanno a riguardo. Guidare il consenso non è facile, ma sopprimere il dissenso non è auspicabile, per lo meno se non si vuole mettere un tetto al livello del prodotto finale. 

Colleghi: flirt, amori e altre catastrofi organizzative.

Il clima è centrale nell’azione organizzativa, lo sappiamo bene. Un clima pesante o negativo fiacca il morale e rompe la collaborazione, mentre un clima sereno e positivo aumenta il benessere e di conseguenza i risultati del ciclo produttivo. 

Collusioni

Ogni gruppo di lavoro ha dei ‘conflitti di interessi’ nei confronti dei superiori o dell’esterno. In un ufficio, per esempio, i dipendenti avranno la tendenza a fare pause più lunghe o più frequenti di quanto concordato, oppure a usare lo smartphone anche quando non necessario, oppure ancora a limare il turno di lavoro spegnendo il pc qualche minuto prima della fine. Anche in una squadra di calcio professionistica ci sono conflitti di interessi, o in una banca centrale, o nel mondo del cinema e così via: i conflitti di interessi fanno parte delle interazioni lavorative tra persone. 

Così è importante che ci sia un buon clima tra colleghi, ma questa ‘positività’ deve avere dei limiti, per non sbilanciare l’azione complessiva in favore dei conflitti di interessi, ossia della ‘collusione’ tra colleghi. 

Una collusione abbastanza frequente nel mondo del lavoro è quella dei flirt o delle relazioni di coppia. In genere le persone vanno a lavorare per ragioni diverse da quelle relazionali o sessuali, ma questo tipo di ‘accidente’ esiste perciò è bene parlarne.

Non è detto che i flirt nascano dove il clima è migliore. A volte è vero il contrario: possono sorgere come reazione umanizzante in contesti difficili o particolarmente conflittuali. 

Contesti troppo facilitanti: gestire il conflitto 

In questo caso la fine di un flirt non potrà impattare molto sul clima perché è già altamente deteriorato, il problema riguarda quei contesti particolarmente predisponenti le relazioni informali.

Nel titolo parlavo di catastrofi organizzative. Ovviamente non volevo dire che quando sul lavoro nascono amori sia una catastrofe, tutt’altro, ma volevo mettere a fuoco un aspetto specifico: i contesti troppo facilitanti non sono abituati al conflitto

Alcuni ambienti sono costruiti sull’informale e sulla simmetria: vengono favoriti tutti i comportamenti atti a accorciare le distanze tra colleghi. In questi contesti è facile trovare persone che si frequentano dopo il lavoro, o che parlano tra loro di cose private. Il vero problema di questo modo di operare è il conflitto. 

Tutti sappiamo che raramente le relazioni affettive terminano senza screzi, per questo motivo un flirt in un contesto facilitante può diventare una piccola catastrofe organizzativa. 

Se una delle due parti patisce in maniera abnorme la rottura, può coinvolgere i colleghi (come da prassi dei contesti facilitanti) in polemiche trasversali, trasformando il clima in una palude a cui, per l’appunto, non si è abituati. 

Un buon clima è centrale nell’azione organizzativa, ma per evitare che nascano troppe collusioni un certo livello di sano e propositivo conflitto può essere pur sempre positivo. 

Aggressività sul lavoro: insoddisfazione e burnout.

In ambito lavorativo un livello minimo di conflittualità tra colleghi è utile, se non per certi versi persino auspicabile. 

Anzitutto perché, come insegna la filosofia, il confronto, la discussione, il ‘conflitto’ sono aspetti vitali del cooperare, rendono feconda e viva l’azione organizzativa che altrimenti potrebbe appiattirsi, e poi perché è meglio avere discussioni a cielo aperto piuttosto che mugugni e incomprensioni sotto traccia. 

Il conflitto e l’aggressività però devono restare entro una soglia di normale tollerabilità, perché una cosa è la dialettica appassionata tra professionisti, altra cosa è la difesa spartana di posizioni (e privilegi) attuata con arroganza e villania, cosa che accresce e non diminuisce la conflittualità e deteriora il clima. 

Insoddisfazione 

Posto che  l’arroganza può essere imputabile a perfidia o maleducazione, e per questo la psicologia del lavoro non può fare nulla, altre volte alla base di atteggiamenti poco collaborativi può esserci l’insoddisfazione o il burnout

Nel corso degli studi ci imbattiamo in argomenti che ci intrigano più di altri, e comprensibilmente culliamo il sogno di occuparcene durante la carriera lavorativa. Questo tuttavia è un sogno che solamente in pochi riescono a realizzare, e per lo più in maniera parziale. Ossia in tutti i lavori ci si trova a dover incanalare le competenze e gli interessi professionali nella direzione di quanto previsto dalla mansione che si ricopre. 

Così il preparatore dei portieri della nazionale di calcio, poniamo, sognava di allenare le skills dei suoi atleti, cosa che avrebbe fatto se fosse stato in una squadra di club, e invece deve occuparsi di altri aspetti più pragmatici. Allo stesso modo l’ingegnere al touch screen della Nasa ha fatto la tesi su un certo argomento e invece gli viene chiesto di occuparsi di altro. 

La distanza tra il lavoro che abbiamo sognato da studenti, o della modalità con cui vorremmo effettuarlo, e quello che ci viene richiesto dai committenti, scava in vari modi l’insoddisfazione lavorativa. Questa insoddisfazione può emergere sotto forma di alta conflittualità o peggio aggressività, ed è evidente che se in un team di lavoro qualcuno è arrogante o svalutante perché fortemente insoddisfatto le prospettive del team di lavoro non sono rosee.

Burnout

La conflittualità nelle organizzazioni può essere scatenata anche dal burnout. Se l’insoddisfazione riguarda la mansione, un certo tipo di burnout può riguardare il ‘ritorno’ che sentiamo di avere relativamente alle energie investite. Quando l’investimento non viene ripagato da un adeguato riscontro di risultati, può portare ad una forma di alienazione. In questo senso il burnout non riguarda soltanto le professioni di aiuto, in cui tipicamente si può avere l’impressione che gli sforzi non siano ripagati adeguatamente, ma per estensione tutti i casi di adattamento dell’uomo al suo contesto lavorativo.

L’aumento dell’irritabilità del soggetto in burnout può sfociare in rapporti lavorativi stereotipati e freddi, e in alcuni casi in atteggiamenti particolarmente arroganti o aggressivi. Se l’aggressività dovuta all’insoddisfazione riguarda la mansione, pertanto, l’aggressività dovuta al burnout riguarda il soggetto, il suo rapporto con il lavoro. La prima può essere superata soltanto dall’individuo, la seconda, se vogliamo, dal team nel suo insieme. 

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