Dove mettere gli amori del passato?

Gli “ex” rappresentano un pezzo di vita, che, per quanto passata, è pur sempre la  nostra. Nasce così il dilemma di cosa fare delle emozioni, dei ricordi, delle esperienze fatte nelle storie che li comprendono. Stracciarle, bruciarle, come il tempo che ci ha legati a loro, o salvarle, e così renderle parte della nostra identità?


Estremismi


Le reazioni di fronte alla fine di un amore tendono a polarizzarsi intorno a due estremi. C’è chi trattiene l’altro in un abbraccio mentale, rimodulando i ruoli, per garantirgli comunque un posto nella propria vita. “Siamo stati e saremo buoni amici”, “La inviterò senz’altro al mio matrimonio”, “Voglio che sia il padrino di mio figlio”. E poi c’è chi, con vari gradi di astio e rigetto reciproci, mira a svilire o cancellare dalla memoria ogni minuto passato insieme. “Odio Parigi, perché ci sono stata con…”, “Baricco? Non so chi sia, me lo leggeva …”, “Non vedo Fulvio da quando non sto più con…”. 


Vorrei dire che entrambi questi atteggiamenti sono irrispettosi: anzitutto della persona del nostro presente, e poi anche di noi stessi, della nostra specificità.  Garantire all’“ex” un ruolo di prestigio nel nostro presente equivale a dire al partner attuale: “Stai al tuo posto, non ti esaltare, lui/lei rimane comunque sul podio.”. Chi dice questa cosa probabilmente è un po’ insicuro del nuovo compagno, fatica a lasciarsi andare, a fidarsi, e vuole tenersi una porta aperta. Ma come si può fare un viaggio in auto, o in aereo, lasciando la porta aperta? Garantire all’ex un ruolo, è gravemente irrispettoso del nuovo partner, e infatti bisognerebbe chiedere a queste persone cosa penserebbero se la stessa scelta fosse fatta dall’altro? 


Inoltre devo dire che chi trattiene l’ex nel proprio presente è un po’ insicuro anche di sé stesso, della scelta fatta. Se un partner diventa “ex”, significa che qualcosa non ha funzionato. Forse è questo che si fatica ad accettare? Forse l’amore per l’altro è talmente radicato che si vuole negare la sua fine, anche a costo di trasformarlo, contro natura, in qualcosa che amore non è?


Veniamo all’altra polarità, quella distruttiva. Anche questa non è rispettosa, del nuovo partner come di sé stessi. Se in una relazione precedente ho letto Baricco, perché mi era stato consigliato, farei un grave torto, oggi, se non lo consigliassi a mia volta. Inoltre farei un grave torto anche a me stesso, se mi precludessi di frequentare tutti i posti e le persone a cui ero legato prima.


Il kintsugi dell’anima 


Come uscire da questo impasse? Come ho scritto nel mio libro, in questi casi bisognerebbe fare il “kintsugi dell’anima”. Il kintsugi è una la tecnica giapponese di riparazione della ceramica, in cui i frammenti vengono uniti con una colla intrisa di polvere d’oro. Il risultato è che un kintsugi vale più dello stesso vaso prima della rottura. 


Con l’espressione “il kintsugi dell’anima” mi riferisco alla possibilità di collegare, unire e saldare fra loro parti della nostra storia. Tutti abbiamo frammenti di passato che non si parlano, che sono situati in tempi, luoghi, situazioni diverse. Uno di questi casi è rappresentato, per l’appunto, dagli amori. 
A partire dall’adolescenza, si susseguono alcuni o diversi partner, che lasciano (o tolgono) qualcosa. Questi pezzi sono tessere di puzzle diversi, frammenti che non riusciamo a inserire nello stesso disegno, quello del nostro presente. Per mettere insieme questi pezzi, occorre un’operazione delicata e paziente di kintsugi, ossia incollare un frammento all’altro con mentale polvere d’oro.


Solo a quel punto il nostro passato ci apparirà come un disegno unitario, e non ci sarà più bisogno di garantire ruoli agli ex partner, né di buttare al rogo, insieme al loro ricordo, le cose fatte insieme. 

Perché amiamo la “persona sbagliata”?

Dagli adolescenti agli studenti universitari, dagli imprenditori fino ai grandi uomini e donne di Stato, a tutti capita di innamorarsi della persona sbagliata. Tuttavia quando arriva una delusione, puntiamo il dito su quella persona, e giuriamo che è solo colpa sua, perché non ci ha mai dato quello che avremmo voluto.


Cambiare per amore?


Ma questa posizione è ingiusta: alcuni se ne accorgeranno anni dopo, mentre altri non riusciranno mai ad ammetterlo. È ingiusta perché “narcisistica”, ossia non prevede nessuna responsabilità per chi la esprime, ed è ingiusta perché svuota l’altra persona della propria specificità. 


Un’altra accusa classica è che l’altro non voglia cambiare per noi, per il nostro amore. Anche questo è sbagliato: parte dal presupposto che nella relazione ci siamo noi al centro, mentre l’altro ci ruota intorno, come un satellite. Ma perché dovrebbe “cambiare” per noi? E se fossero gli altri a chiederci di “cambiare” per loro, come la prenderemmo? 


Come si vede, quando nelle relazioni qualcosa va storto, siamo sempre pronti a scaricare le colpe, senza accettare che le cose, come si diceva un tempo, si fanno in due. Le stesse considerazioni valgono per tutti gli altri problemi di coppia, dal tradimento, al ghosting temporaneo, fino ai “periodi di pausa”. L’altro è, e deve restare, se stesso. Possiamo, piuttosto, chiederci, perché crediamo, ci affidiamo, alle persone sbagliate?


La “persona sbagliata”


Anzitutto dire che qualcuno sia sbagliato è ingeneroso. Io preferisco spostare il fuoco sulle aspettative: verso gli altri abbiamo alcune aspettative che sono ragionevoli, e altre che lo sono meno. Perché, dunque, abbiamo aspettative sbagliate? 


Le aspettative nelle relazioni dipendono da come siamo abituati, da quale ambiente proveniamo: è quello che ci fa sentire a disagio o meno, è quello che determina ciò che vorremmo, o ciò da cui fuggiamo. Vale il vecchio esempio psicoanalitico dell’eschimese sulla riviera romagnola. Se ci va in vacanza si trova bene, ma se si trasferisce stabilmente, rischia di ammalarsi, perché è abituato ad un clima diverso.


Allo stesso modo, se in una relazione troviamo molto calore e comprensione, quando per varie ragioni non vi siamo abituati, la cosa all’inizio ci potrebbe piacere, ma alla lunga potrebbe creare claustrofobia. Vale lo stesso per le relazioni violente, tossiche, o deprivanti. Se qualcuno ci attrae, ma non ci convince fino in fondo, dovremmo chiederci: quali aspettative abbiamo, come vorremmo che si comportasse? 


Attese e aspettative


C’è sempre una ragione profonda, che riguarda noi stessi, il nostro passato, se qualcuno ci attira, se ce ne invaghiamo. L’aspettativa è qualcosa di individuale, dipende da noi, non da come si pone l’altro. 
Così passerei dal “perché amiamo persone sbagliate?” a “per quali motivi riponiamo aspettative in chi non è in grado di rispettarle?”.

La domanda è più impegnativa, me ne rendo conto, e costa fatica. Ma se non altro ci consentirà, in futuro, di non ricadere negli stessi errori. 

Sentirsi in colpa

A tutti è capitato di sentire nello stomaco un peso fatto di ansia e angoscia, e di imputarlo al senso di colpa, ossia alla reazione emotiva per aver fatto, o non fatto, qualcosa. 


Responsabilità 


Sentirsi in colpa per una mancanza è certamente cosa buona, e anzi definisce il senso di responsabilità, ossia, se volgiamo, l’attitudine a vivere all’interno di un gruppo o di una collettività. Sentirsi responsabili di un danno arrecato, apre la strada alla possibilità di recuperare, di riparare il misfatto. 


Sin dai tempi di Melania Klein, e dei suoi primi studi su Sigmund Freud, questo è stato correlato con una buona integrazione del . In quest’ottica, chiosava Speziale Bagliacca, “la colpa non è un fenomeno umano primitivo, per sentire colpa occorre avere raggiunto una certa maturità”. Il che significa che le persone in grado di sentirsi in colpa sono persone migliori di altre, che hanno una grande sensibilità, e sanno mettersi nei panni di chi hanno davanti. 


Se parcheggiando urto l’auto del mio collega, o in a discussione mi accorgo di essere andato oltre le righe, è buon segno sentire il bisogno di recuperare, di fare qualcosa per segnalare la mia presa di consapevolezza. 


Colpa senza dolo


Tuttavia non tutti i misfatti comportano lo stesso senso di colpa, e questo significa, di contro, che non tutte le volte che ci sentiamo in colpa ce ne sia un’effettiva ragione. Quando il senso di colpa per aver fatto qualcosa di sbagliato, e soprattutto per aver causato la sofferenza di qualcuno, eccede la normale tollerabilità, per usare un’espressione non psicologica, questo senso di colpa è la spia di una paura più profonda, una paura che ha soltanto trovato un’altra occasione per uscire allo scoperto. 


Prendiamo il caso di due fidanzati che interrompono la loro relazione. Senza dubbio uno dei due cercherà di fare sentire in colpa l’altro, di indurlo a tornare sui suoi passi. Come ben sappiamo, in genere questi tentativi restano vani, non hanno nessun esito. Ossia, quando si decide di troncare una relazione, non c’è senso di colpa che tenga. Pertanto, se esistono misfatti senza colpa, per quale motivo debbano esistere sensi di colpa in assenza di veri misfatti? 

È così che il focus deve spostarsi su quella sensazione di disagio, su quell’esigenza così pressante di riparare alle nostre mancanze. Se quel pensiero dura oltremisura, e arriva a rovinarci un’intera giornata, è segno che merita di essere affrontato una volta per tutte. 

Laureati: come trovare lavoro?

Laureato e intellettuale

La formazione universitaria lascia una competenza tecnica (le conoscenze professionali in un certo ambito), e una competenza strategica (saper impiegare tatticamente tali conoscenze, per poter affrontare casi specifici).
Ne discende che al termine di un percorso di laurea uno studente abbia sviluppato parallelamente almeno due diverse capacità, una direttamente collegata all’oggetto di studio, l’altra al suo utilizzo. 
Proprio questa capacità di utilizzare la conoscenza andrebbe presa in esame quando ci si mette alla ricerca di un impiego, perché lo sappiamo bene, il mercato del lavoro è cambiato, e la mansione pura non esiste quasi più. 


Tutti influencer  

La smania con cui molti laureati si scatenano a pubblicare video online, è la cifra dell’illusione di avere grandi risultati con minimi sforzi. Se questo è vero per alcuni fortunati, non può, tuttavia, valere per tutti, e in linea di massima per avere successo, anche poco, è sempre necessario faticare molto, moltissimo. 
È stato così per i grandi musicisti, per i poeti e gli scienziati di ogni tempo, è così anche oggi, che la globalizzazione ha azzerato le distanze, e aumentato esponenzialmente, come vediamo ogni giorno, l’aggressività. 
Quando il laureato si mette alla ricerca di un impiego, quindi, dovrebbe anzitutto fare due operazioni. La prima è non dare per scontato che l’ambito di questo lavoro sia quello della sua formazione. L’università è anzitutto una maestra, e insegna a usare la testa. La seconda, partire dall’analisi del contesto di riferimento. E qui intendo quello fisico, non quello virtuale, dato che a parte il lavoro di influencer tutti gli altri lavori si svolgono in uno spazio e in un tempo ben definiti. 


Cosa so fare?


La ricerca di un lavoro, così, è sempre più un chiedersi: con le mie caratteristiche, le mie competenze e i miei interessi (ossia con le competenze che oggi non ho, ma che potrei avere domani) quale mansione potrei ricoprire? In quel ambito potrei apportare un mio contributo? 


L’abbiamo detto, il lavoro è cambiato. Per questo deve cambiare drasticamente anche l’atteggiamento verso il lavoro, a partire dalla fase in cui si entra nel mercato e si cerca un impiego, ossia in cui si offre la propria competenza di saper fare qualcosa. 

I DSA e il loro trattamento

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) sono quattro disturbi del neurosviluppo che riguardano la lettura (dislessia), la scrittura (disgrafia e disortografia) e le capacità di calcolo (discalculia). 


Biologia e ambiente 


Come per tutti i disturbi del neurosviluppo, la base di partenza dei DSA è di tipo genetico, ossia riguarda disposizioni individuali biologiche che predispongono l’individuo a sviluppare quel disturbo piuttosto che un altro. 

Il cervello umano, tuttavia, non nasce per leggere o scrivere: diversamente dal linguaggio, non abbiamo dei centri deputati alla lettura o alla scrittura. Come hanno chiarito Antonella Gagliano e Daniela Traficante (2022) i circuiti neuronali che codificano per queste competenze vengono sviluppati ex-novo a partire dall’interazione dell’individuo con il suo ambiente. 


Questo significa che un DSA affrontato in tempo può essere sciolto creando nuove vie, nuove strategie di apprendimento.


Psicoterapia 

Il paziente DSA è sovente discriminato o sottovalutato, al punto che egli stesso sviluppa handicap in altri campi, diversi dall’apprendimento. Risucchiato dal cono d’ombra del DSA, il paziente diagnosticato può cominciare a sentirsi inferiore ai compagni anche in settori diversi dallo studio. 


In psicoterapia il paziente impara a esplorare e sviluppare le competenze relazionali che ha sempre tenuto nascoste, nella preoccupazione che fossero anch’esse viziate da qualche baco neurologico. E impara a svincolare le proprie aspettative di successo nella vita dalla diagnosi di disturbo dell’apprendimento


In questo modo la psicoterapia, e il suo buon esito, risultano parte di un trattamento complessivo, che non si limita al disturbo dell’apprendimento. L’obiettivo è aiutare il bambino a pensarsi anche in situazioni diverse dalla scuola, nelle quali non avrà necessariamente le stesse difficoltà, e potrà rapportarsi da pari a pari con ciascun coetaneo. 

La relazione tossica: come uscirne?

Una relazione è “tossica” quando crea più malesseri che benefici. Non tutte le relazioni sbilanciate sono tossiche, e forse neppure tutte le relazioni di dipendenza lo sono. Le relazioni tossiche si riconoscono da quella modalità quasi magnetica di tenere insieme persone che appartengono a universi paralleli. 


Mind games  


Una componente caratteristica delle relazioni tossiche sono i mind games, i giochi mentali. Si tratta di strategie manipolative che fanno restare nel giusto approfittando della buona fede dell’altro. I mind games sono modalità vili di tenere insieme una relazione tossica, ossia una relazione che uno dei due partner vive come altamente instabile e dolorosa. E sono modalità che non verrebbero accettate se uno dei due non temesse fortemente la separazione. 


Dunque paura dell’abbandono, della separazione, della fine della relazione sono sovente alla base delle relazioni tossiche, e sono la ragione profonda per cui è così difficile uscirne. 



Un salto nel buio


Di conseguenza, per uscire da una relazione tossica è necessario un salto nel buio. O meglio, è necessaria un’analisi dei mind games. Quale verità profonda e inconfessabile confermano, per chi a malincuore li accetta? Per quale motivo è così difficile perdere una persona che manipola la nostra buona fede? 


Le stesse domande, sia chiaro, andrebbero poste anche alla parte forte della coppia, ossia a chi deve utilizzare queste modalità per tenere a sé l’altra persona, per il resto insoddisfatta e persino impaurita. 

La via d’uscita, in una psicoterapia, si persegue anzitutto esplorando il tipo di equilibrio che una relazione tossica garantisce ai due membri della coppia. Ossia i vantaggi (paradossali) dati dal restare in una relazione che, come abbiamo detto, crea più malesseri che benefici.  

Adolescenti: il senso di colpa nel divorzio dei genitori

Non è raro che i figli vivano con un senso di fallimento personale il divorzio dei genitori. Uno dei pensieri inconfessabili, soprattutto durante l’adolescenza, riguarda l’egoismo. Ma quando arriva la colpa, perché “potevo fare di più”, lì bisogna sapersi fermare. 

Adolescenti saggi e comprensivi 


A parte alcuni casi di violenza o soprusi, gli adolescenti vivono la famiglia come un luogo di affetti e ristoro, e la lacerazione indotta dal divorzio, intendo anche nei casi di separazioni consensuali e “pacifiche”, definisce la perdita di un equilibrio.  Solitamente i figli mostrano nei confronti del divorzio atteggiamenti maturi e consapevoli, fornendo letture comprensive, specie se inconsciamente alleati con uno dei due genitori.  “I miei non vanno d’accorso, hanno fatto bene a lasciarsi”. “Mia madre sente un amico d’infanzia, mio padre esce sempre per conto suo, era ora che ci dessero un taglio”. E cose simili.

 
La posizione indulgente verso il divorzio è una forzatura difensiva, una maschera di ghiaccio che nasconde e congela sentimenti di vuoto e abbandono

La consapevolezza che si sedimenta nella memoria dell’adolescente riguarda la premura che i genitori hanno nei suoi confronti, quanto sono disposti a rinunciare per lui/lei. Quanto valgo per loro? Soprattutto con il passare del tempo, i ragazzi imparano a relativizzare i conflitti di coppia, e a inserirli in un più ampio contesto relazionale. Così appena passata la tempesta, iniziano a covare rancori, perché “Davvero a me non hanno mai pensato”. Oppure: “Non ci voleva molto, bastava avere un po’ più di buon senso, in una direzione o nell’altra”. Questo avviene soprattutto quando le relazioni con i nuovi partner vanno in crisi, e i ragazzi ripensano all’altro genitore. 


Colpa

Qui arriva la colpa. Quando le nuove relazioni finiscono, l’adolescente si chiede: “Allora potevo fare di più?”. Ed ecco che l’identificazione inconsapevole con uno dei genitori diventa rovesciamento dei ruoli, la saggezza diventa incarico di cura e accudimento, rimprovero di non aver fatto da genitore ai genitori. 
Il senso di vuoto e abbandono, quel sottile rimprovero mai esplicitato di non essere stati visti per troppo egoismo, diventa auto rimprovero, nella certezza che si poteva fare di più. 

Ecco allora che si rende necessaria una presa di consapevolezza complessiva da parte dell’adolescente, perché ciò che da subito ha vissuto come un sopruso, una lacerazione della sua stabilità, sta diventando un penso sulla coscienza, il rimprovero di non essere stato abbastanza bravo.

Come superare l’aracnofobia?

Irrazionale

La fobia è una paura irrazionale, immotivata. Quindi per aracnofobia non intendiamo una generica sensazione di disgusto, o disagio, di fronte alla vista di un ragno, ma qualcosa di più pervasivo e invalidante. 
Che sia una paura irrazionale significa che non deriva da dati della realtà oggettiva. Che sia sostanzialmente immotivata significa che il pericolo che percepiamo è esponenzialmente maggiore di quello reale, ossia gonfiato dalla nostra mente. È come se avessimo delle lenti che ci fanno vedere tutte le cose normalmente come esse sono, tranne i ragni, che ogni volta ci appaiono sempre più grandi, più minacciosi e pericolosi. 

Rapporti di forza


Facciamo un esame della questione. In una situazione tipo, poniamo, un essere umano incontra sulla sua strada un ragno. Quali sono i rapporti di forza? Chi dei due ha una posizione privilegiata? Chi dovrebbe temere per la propria incolumità?  In una situazione standard, quando un essere umano incontra un ragno, ha di fronte a sé solo scelte vincenti. Può decidere di cambiare strada, e nessun ragno potrebbe mai rincorrerlo per obbligarlo allo scontro. Può decidere per il confronto, a mani nude, con un attrezzo, o con qualche insetticida. E anche in questo caso la sorte dell’aracnide sarebbe segnata. Potrebbe catturare l’insetto, e tenerlo, non so, in una teca di vetro. E anche in questo caso il malcapitato non avrebbe modo di eccepire nulla. 
Come si vede, in una situazione standard, (in genere) un essere umano avrà sempre la meglio su un ragno. Lo stesso vale in situazioni più articolate e complesse. Ossia se un individuo incontra un ragno in camera da letto, sul comodino, tra libri, sveglia e suppellettili. O in bagno, prima di entrare in doccia, o in auto, quando si ferma per fare benzina. Anche in tutte queste situazioni, per quanto più complicate rispetto all’esempio iniziale, l’umano avrà sempre la possibilità di sbarazzarsi dell’insetto, senza mai sentirsi realmente minacciato nella sua incolumità. 

Psicoterapia


Ecco quindi che veniamo al nocciolo della questione, se l’arcanofobia non è l’espressione di una paura concreta che riguardi la sopravvivenza, di cosa è la cifra? È a questo punto che entriamo nel territorio della psicoterapia. Perché evidentemente le associazioni che la nostra mente attua in relazione al concetto “ragno”, una volta che la vista mette al corrente il cervello della presenza di un ragno sul nostro cammino, sono associazioni che riguardano pericoli enormi per la nostra sopravvivenza psichica. Il ragno non codifica per un pericolo fisico, oggettivo, esterno, ma per un pericolo interno, psichico, che può essere persino più grave e invalidante. 
Nell’attacco di panico un individuo sente che sta per morire, manca l’aria, il cuore sta per cedere. Se queste sensazioni sono date dalla vista di un ragno significa che il ragno è l’emblema di un pericolo mortale per il . Il ragno non può dare la morte, ma può dare la morte psichica, cosa appunto, ben più grave. 
La psicoterapia punta proprio a smascherare i legami sotterranei tra la vista del ragno e la sensazione di pericolo. E l’obiettivo non può essere solo quello della desensibilizazione. Perché come per i disturbi alimentari, c’è un motivo ben preciso se la nostra mente associa il pericolo ad un ragno, piuttosto che a un panda o a un elefante. 

TSO: il trattamento psichiatrico che difende la società, ma non aiuta i pazienti

Nessun trattamento lascia i pazienti insoddisfatti quanto il TSO. La prospettiva che mette il malato al centro delle logiche sanitarie sembra rovesciarsi in psichiatria, dove il focus è più il benessere o la sicurezza del contesto, che il malessere del soggetto sofferente. 

Pazienti insoddisfatti


Per capire quanto dico basta valutare il grado di soddisfazione nei trattamenti sanitari di emergenza. A parte alcune eccezioni, si intende, la maggior parte dei pazienti che accedono al Pronto Soccorso per patologie cardiache, traumatologiche, o, come è successo durante la pandemia, gravi problematiche respiratorie, valuta molto positivamente le cure ricevute. Pazienti e loro familiari sono soliti fare regali ai medici, scrivere biglietti di ringraziamenti, mandare mail di elogi alle direzioni sanitarie. La riconoscenza per il trattamento, a parte alcuni casi di malasanità, è di solito altissima.


In psichiatria le cose vanno molto diversamente. Il paziente psichiatrico vive il TSO con un senso di fallimento individuale, e soprattutto in seguito ne conserva un ricordo negativo. Per alcuni è addirittura un’esperienza da dimenticare, di cui vergognarsi, perché si è persa la dignità. Altri invece vi hanno soltanto trovato nuove diagnosi, da curare con sempre nuovi farmaci, che i protocolli giurano essere miracolosi.

Basaglia, e poi?


Lo stigma sociale sulla patologia mentale continua ad essere forte, anche nel dopo Basaglia, al punto che la società sembra anzitutto difendere sé stessa, più che aiutare i pazienti. Prova di ciò è un caso gravissimo di cronaca in cui un paziente psichiatrico è stato inseguito nei boschi per giorni, come nei film americani dei reduci del Vietnam, accusato di aver ucciso il padre e un amico di famiglia. È stata scatenata una caccia all’uomo, al grido “state attenti, è pericoloso”, fino a quando è stato catturato. Lo stesso trattamento non viene di solito assicurato per i rei di femminicidio, per i quali, invece, valgono mille cautele, perché si sa, uno è innocente fino a prova contraria. 


Il Trattamento Sanitario Obbligatorio ha una connotazione fisica, medica, come se valesse per la mente quello che vale per le ossa, il cuore o i polmoni. Il malessere mentale viene identificato con il malfunzionamento di una parte del corpo, la testa. La psichiatria contiene, rallenta, spegne, ma non resetta, perché alla fine del TSO il malessere non è stato cancellato. 


Il supporto psicologico in psichiatria è considerato un accessorio, un abbellimento, ma non il cuore della cura, che, per l’appunto, è esclusivamente contenitiva. Ecco allora quale dovrebbe essere la vera svolta del post Basaglia, l’innovazione che i protocolli dovrebbero prevedere per approcciare casi resistenti a qualunque farmaco. 


Certo, la psichiatria dovrebbe perdere il primato, dovrebbe condividere con altri, gli psicologi, scelte, approcci, modalità di intervento. E sopratutto dovrebbe allontanarsi un po’ dal suo totem per eccellenza, da quella coperta di Linus rappresentata dallo psicofarmaco. Allora ci possiamo chiedere: la psichiatria è pronta per questa svolta? 

La cura dei disturbi alimentari

Anoressia, bulimia, e gli altri disturbi della condotta alimentare sono in genere collegati a vissuti profondi di angoscia, inadeguatezza, o instabilità della percezione di sé. 

Di conseguenza, nel loro trattamento, il rapporto con il cibo è soltanto il punto di partenza, mentre il lavoro vero riguarda proprio i sentimenti cronici di depressione e vuoto esistenziale che attanagliano queste persone. 

Intelligenza e negazione

Il disturbo alimentare si associa in genere a due aspetti che complicano (o allungano) il trattamento. L’intelligenza dei pazienti, in genere sopra la media, e la loro resistenza. 

Gli anoressici sono individui estremamente intelligenti. La capacità di architettare, e mantenere, una condotta alimentare, necessita di competenze cognitive superiori, così come di una determinazione fuori dall’ordinario. I bulimici, poi, sono persone che attuano bulimia in ogni loro comportamento, per esempio “divorano” libri, oppure “divorano” relazioni affettive o amicali, ecc… . 

La cura dei disturbi alimentari, pertanto, è anzitutto un rapporto di forza con individui molto intelligenti, fieri, che difendono le loro posizioni, e di conseguenza il loro sintomo, con tutta la determinazione di cui sono capaci. 

Il secondo aspetto, perciò, è la negazione. La forma di resistenza attuata da individui ben strutturati, e con grandi capacità cognitive, è quella di respingere ogni riferimento al loro problema. Se il paziente fobico soffre maledettamente quando ha un attacco di panico, e vorrebbe che non tornasse mai più, se il paziente depresso detesta con tutto se stesso quei periodi di buio, in cui deve disconnettessi dal resto del mondo, il paziente alimentare tende a negare sempre tutto, non c’è nessun problema, io sto benissimo. 

Cibo e Orgoglio

Senso di abbandono, solitudine, tristezza, sono sovente i compagni di viaggio di una vita del paziente con disturbo alimentare. Ma, come si vede, anche il suo orgoglio lo è. Non avere potuto esprimere le difficoltà, le sofferenze, i momenti di sconforto, ha portato questi individui a chiudersi nel loro silenzio, in una riservatezza in cui ha accesso soltanto il loro cibo. 

La cura del disturbo alimentare, quindi, soltanto in una prima fase ha per oggetto il cibo e la sua gestione. Perché ad un livello più profondo si occupa della solitudine atavica di questi pazienti, del vuoto interiore che cercano di riempire con il cibo, o di cui negano l’esistenza con il digiuno. Ossia, in via definitiva, si occupa dell’orgoglio dietro a cui essi hanno imparato a nascondersi, dopo essere stati troppo a lungo inascoltati. 

Il mio ultimo libro

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