Adolescenza, web e alimentazione: i ragazzi sono ben informati?

Una delle modifiche irreversibili che il web ha portato alla nostra vita riguarda il rapporto con il cibo. L’aumento dei contenuti social a sfondo alimentare non può non avere un impatto sulla percezione che abbiamo della nutrizione e di tutto quello che le ruota intorno. In adolescenza, inoltre, ogni micro evento va considerato sempre come elevato a potenza. Questo a causa della difficoltà degli adolescenti di adeguarsi al corpo che cambia, ma anche alla competizione tra pari, che a seconda dei casi può essere altamente distruttiva. 

Ho già detto altrove del food porn, ossia della moda esibizionista di postare i piatti che abbiamo cucinato o che stiamo per mangiare, vorrei ora soffermarmi sull’informazione e sulla disinformazione. 

Fake news

La capacità di leggere i contenuti impliciti di un testo, di un video o di un evento storico è centrale nella scuola come nella vita di tutti i giorni. La libertà di pensiero di cui godiamo si basa sulla possibilità di dare interpretazioni diverse, anche contrastanti, di uno stesso fenomeno. Tuttavia fare errori di valutazione molto grandi può essere controproducente, anche nel lungo periodo, e decifrare correttamente i dati che abbiamo davanti può discriminare tra conseguire un successo o un fallimento. 

Sui social network è facile incappare in sedicenti sessuologi, medici, esperti di storia, di lingue straniere ecc… e naturalmente anche di nutrizionisti. Dico di sedicenti non per sfiducia, ma perché dietro ai nomi ‘Emily 99 studentessa di medicina’, ‘Peppe Trapp ginecologo’, ‘Maneskina osteopata e erborista’ è difficile scorgere professionisti in grado di aiutare chi ha problemi di salute. 

Così il problema si sposta sull’utente della rete, sulla sua capacità di distinguere e scegliere tra un buon consiglio e un parere scientifico. 

Disturbi e disturbatori alimentari  

Il discorso alimentare in adolescenza può aprire faglie di vulnerabilità. La competizione nel gruppo classe, ma peggio ancora nello spogliatoio della palestra, può scatenare ossessioni profonde legate alla qualità o alla quantità del cibo assunto. Se aggiungiamo che i canali informativi privilegiati dagli adolescenti sono giocoforza quelli collegati al web, capiamo quali difficoltà abbiano educatori e famiglie nel modulare il flusso e la qualità delle informazioni. 

Le dinamiche di gruppo possono indurre i ragazzi a estrapolare frasi o frammenti di video dai social network e farne regole di vita. Il rinforzo ad un messaggio non è dato da chi lo emette, ma dal valore che viene assegnato dai membri del gruppo di riferimento. 

Se la ragazza più in vista della palestra riposta un video in cui, poniamo, si afferma che lo zucchero fa male, e infatti lei non lo assume, l’effetto di emulazione può essere dirompente. Il disturbatore alimentare, che emette sentenze legate alla sua esperienza, e che lui sente (legittimamente) efficaci, stimola, così, l’esordio di un vero e proprio disturbo alimentare. Non sarà però lui a pagarne il prezzo, ma i ragazzi e le loro famiglie. 

Cosa non ha funzionato del femminismo? La risposta sbagliata ad una giusta domanda.

Oggi nel mondo la politica è un fatto sostanzialmente maschile, la religione è un fatto sostanzialmente maschile, i grandi gruppi economici sono gestiti sostanzialmente al maschile. Dovremmo concludere, senza troppa retorica, che il femminismo ha fallito? 

Da Simone de Beauvoir alle Pussy Riot

Il punto di partenza di ogni filosofia femminista è dimostrare che i generi non hanno un ordine di importanza, e non è dal genere che discende il peso che uno acquisisce nella società. 

Tuttavia i femminismi si declinano solitamente in azioni che paradossalmente negano la parità e sostengono la superiorità femminile. La conseguenza è un irrigidimento delle posizioni, ossia un aumento della conflittualità anziché una sua diminuzione. 

Il muro contro muro conduce la parte forte ad arroccarsi sui privilegi consolidati per spostare il focus dello scontro su altri livelli, diversi da quelli in questione. Trovo eccezionali a tale proposito le parole di Lorenza Foschini, grande giornalista Rai.  Dopo essere giunte, insieme ad altre grandi firme femminili, a condurre i TG della sera, alla metà degli anni Novanta si accorsero che i direttori di testata, di rete e i direttori generali erano tutti uomini. ‘A quel punto’ disse la Foschini ‘abbiamo capito di essere state giocate: il potere non stava nel leggere il Tg, come per anni ci avevano fatto capire.’

Così ai tempi di Chiara Ferragni, come a quelli di Simone de Beauvoir, ai grandi propositi, ai grandi discorsi, fanno seguito proposte spartane, urlate, non ragionate. Valga per tutte quella delle famose incursioni delle ‘Pussy Riot’, le ragazze che nude aggrediscono personaggi famosi. Le reazioni che scatenano queste proteste sono più estreme e rigide delle intenzioni che le hanno originate.

Femminismo da piazza e da salotto.

La contrapposizione muro contro muro cementa l’identità, ma è una forzatura nazional populista dei presupposti del femminismo. Non c’è una sola rima in Christine de Pizan, una sola pagina di Simone de Beauvoir, un solo accenno nell’intera opera di Julia Kristeva che ammicchi allo scontro, alla contrapposizione, all’invettiva di piazza. 

Dividere i femminismi in quelli da piazza e quelli da salotto è un modo per fare del male al femminismo, e per rafforzare, in sostanza, le posizioni dello status quo.

L’errore strategico del femminismo, perciò, è stato quello di volgarizzare lo scontro, di esacerbare le distanze, di chiedere riconoscimento di diritti sotto minaccia (sovente di stampo sessuale) dimenticando che nel rapporto tra generi uno sa ancora fare molto male, come  mostrano i dati sul femminicidio.  

E’ ancora tempo di femminismo?

Oggi nel mondo, come dicevo, la politica, le religioni, il potere economico sono gestiti sostanzialmente al maschile. La nostra cultura, se vuole davvero essere la più liberale, deve trovare il modo di garantire la pari dignità a tutti i cittadini, come peraltro va affermando nei suoi principi generali. 

Ritengo che il movimento femminista debba anzitutto liberarsi dai connotati ‘sessisti’, perché la libertà della donna non può essere un obiettivo delle donne, ma di tutta la società. Ripulire dal dibattito gli elementi di scontro significa eliminare per esempio termini come ‘maschilismo’, ‘patriarcato’, o lo stesso termine ‘femminismo’. Favorire l’incontro significa sfavorire lo scontro. 

Ancora una volta il ragionamento converge su Julia Kristeva, la sua opera, il suo sforzo di unire il buono che c’è nelle religioni, nelle filosofie, nella psicoanalisi: il ritorno all’umano. Nello scontro di società che sotto traccia serpeggia nel nostro tempo potrebbe essere proprio la questione del femminile a spostare l’ago della bilancia della storia. Qualcuno si sente pronto?

Padri assenti: ‘presenti nell’ombra’, ‘non pervenuti’, ‘evasi’.

Un padre può risultare assente per ragioni indipendenti dalla sua volontà. La mia intenzione qui non è quella di accusare, ma di analizzare serenamente, nel tentativo di comprendere; Aiutare i figli a capire come e perché hanno sentito un vuoto da quella parte, e aiutare i padri a prendere coscienza di come alcuni loro atteggiamenti potrebbero essere letti, contro la loro stessa intenzione, come disinteresse.

Fasi diverse, percezioni diverse 

Il peso del padre nella vita di un ragazzo o di una ragazza oscilla in maniera diversa a seconda della fase di crescita. Durante l’infanzia i bambini hanno bisogno di una presenza fisica, concreta, intendo anche a livello di affettuosità. Andare a scuola, agli allenamenti, o in vacanza non è la stessa cosa senza un padre, o senza la presenza tangibile di un padre. Durante l’adolescenza invece la presenza deve essere meno fisica e un po’ più psichica. I ragazzi vogliono sentirsi meno pressati, meno controllati, ma non per questo meno considerati, spronati, o anche ostacolati, nel caso facessero cose al limite del lecito. 

Metto in evidenza almeno tre casi in cui un padre possa essere percepito come assente. 

Padri ‘nell’ombra’

Il primo è quello degli uomini presenti, ma nell’ombra. In questi casi il padre c’è ma soltanto sullo sfondo: è una sagoma seduta sul divano, senza voce, e il cui sguardo non si posa mai sul figlio. La madre bada a tutte le esigenze del bambino, lo aiuta nei compiti, incontra gli insegnanti, ecc…, ma ogni tanto agita lo spettro paterno: ‘guarda che lo diciamo a tuo padre’, oppure ‘se lo scopre papà sono dolori’.

Questi padri non si vedono, sono muti, ma esistono, si percepisce che ci sono. A loro è sempre garantito un posto a tavola, per esempio, o un posto alla recita di fine anno; I figli faranno sempre loro una telefonata dall’aeroporto, poche parole formali, per dovere di cronaca. E’ poca roba, d’accordo, ma è pur sempre qualcosa. Il figlio ha verso il padre una specie di timore reverenziale, non di più; Del resto il padre non ha neppure mai niente da dirgli, nel bene come nel male. Così il figlio sente questo padre come assente, lo ricorderà a posteriori come assente, pur se di fatto era in casa, vivevano sotto lo stesso tetto. 

Padri ‘non pervenuti’

Ben diversa la situazione dei padri che potremmo definire ‘non pervenuti’. Il padre non pervenuto è un uomo che viaggia molto, o passa il suo tempo fuori casa: in cantina a fare le sue cose, come si usava un tempo, oppure al bar con gli amici, oppure in qualunque altro luogo o situazione che non sia a casa con il resto della famiglia. Il padre ‘non pervenuto’ manca tutti gli appuntamenti importanti della vita dei figli. Il saggio di danza, il primo concerto, l’esame per la patente. Questi padri hanno impegni inderogabili, e i figli passano la vita ad allungare il collo nella speranza di vederseli arrivare, di vederli presenti, ma invano. I figli di questi uomini non di rado covano dei risentimenti, perché hanno l’impressione di essere messi sempre al secondo posto.

Padri ‘evasi’

Infine c’è il padre ‘evaso’. E’ quello che ha vissuto una vita di coppia travagliata, conclusa con una separazione conflittuale. Secondo le sue intenzioni ha abbandonato i figli nelle grinfie della madre ed è scappato a rifarsi un’altra vita. Nella percezione del figlio, invece, il padre evaso è una specie di traditore, un codardo, che ha lasciato la nave in balia della tempesta anziché dare il suo contributo per aiutare i passeggeri. 

Il figlio del padre evaso non nutre disillusione o risentimento: può arrivare a sviluppare un rancore molto profondo per il genitore, anzi a generare man mano un astio verso tutto ciò che assume caratteristiche ‘paterne’, come per esempio gli insegnanti o le autorità. Se un figlio (o una figlia) percepisce il padre come un vile che lo ha abbandonato, può arrivare a detestare gli uomini, e in certi casi persino a rinunciare ad avere una famiglia propria, per non avere mai più a che fare con un ruolo come il suo.    

Perché gli italiani non votano? Non chiamatela depressione

Un autorevole editorialista ha sentenziato che la causa del recente astensionismo alle regionali di Lazio e Lombardia sarebbe la depressione. E ha pure insistito: i partiti politici non si chiedano se è meglio candidare questo o quel personaggio, ma si dedichino allo studio dei depressi e della depressione. 

Ora, è evidente che se questo editorialista ha dei dati epidemiologici che definiscono il 60 per cento degli abitanti di Lazio e Lombardia come depressi debba comunicarli al ministero competente. Sarà certamente lesto ad analizzarli e trarne le debite considerazioni. In caso contrario, però, credo sia bene puntualizzare almeno due aspetti. 

La depressione è una malattia che può essere molto grave

Il primo è che la depressione – nelle sue varie forme – è una malattia altamente invalidante: trasforma la vita delle persone che ne soffrono, nonché quella delle persone che esse hanno intorno. 

Se non curata la depressione incide fortemente sulla vita di un individuo, distorce le traiettorie della sua esistenza. Non soltanto quell’individuo potrebbe essere felice mentre non lo è, potrebbe anche fare e dire molte cose che invece non riuscirà mai a fare o dire: esprimere i suoi sentimenti, aiutare gli altri, avere degli hobby ecc… . 

La fatica, il travaglio, la disperazione con cui molti depressi guardano alla vita possono contagiare figli, fratelli, famigliari, nelle modalità più diverse. Per non dire che molti sviluppano rapporti morbosi con psicofarmaci o con droghe, nel tentativo di autoregolare il loro umore, ma incappando in un fai da te farmacofilico e inefficace. 

Per questo chiedo agli analisti politici di avere più rispetto della depressione: un cliente davvero molto brutto, che fa ironizzare soltanto chi ha avuto la fortuna di non vederlo mai da vicino.

L’errore non è mio, siete voi…

Il secondo aspetto è che, come ho già detto altre volte, è fuorviante porre fuori da noi la causa di un problema che ci riguarda. Dire che gli astensionisti siano depressi è riduttivo e semplicistico. Da psicoterapeuta non posso che fare notare il pericolo dietro al dire: la tale cosa non va perché tizio caio sempronio non vuole capire sentire ammettere adeguarsi interessarsi informarsi (in ultima analisi adattarsi.) 

Porre fuori da noi la spiegazione di qualcosa che ci riguarda e non funziona è una forma di difesa comprensibile, ma che non migliora le cose. Se quello che faccio non va anzitutto devo fare autocritica. 

La costruzione di un senso del mondo che separa nettamente me uguale buono da altro da me uguale cattivo è una costruzione che consente l’adattamento, non c’è dubbio. Ma un adattamento che si basa sull’incomunicabilità. E’ come tornare mentalmente ai tempi del muro di Berlino. Chi è di qua, con me, ha ragione. Chi è di là, con te, ha torto. Se la storia insegna qualcosa, dovemmo provare a superarlo.   

Baby alcol: il falso sé social alla prova del gruppo

Le spaventose rivelazioni di Espad sui baby alcolisti confermano dati già nell’aria da alcuni anni. ‘Un milione di italiani tra i 10 e i 14 anni già si sbronza. E il 66 per cento lo ha fatto tra i 15 e i 17 anni’ (fonte La Stampa-Instagram). 

Generazione Influencer

Il modello base dei rapporti tra adolescenti è giocoforza il social network. Non è un giudizio di valore, sia chiaro, ma una constatazione di fatto. Quasi tutti i ragazzi hanno almeno un account social, che costituisce un’estensione, se non un completamento, della loro personalità. Di conseguenza le relazioni tra coetanei, amicizie, rivalità, amori ecc… se non nascono direttamente in rete, certamente vengono aiutate, puntellate, riempite, dalla componente virtuale della loro personalità. 

Fin qui niente di male. Il social networking, però, porta una conseguenza. L’immagine di me che tenderò a dare sul profilo sarà sempre un po’ più cool, un po’ più trendy, un po’ più performante della realtà. Non significa che il mio profilo sarà un fake, ma che le informazioni (e soprattutto le foto di quello che faccio) baderanno un po’ più all’aspetto piacevolezza, strizzeranno l’occhio al mio follower, per il quale, c’è da scommetterci, vorrei avere il ruolo di ‘influencer’ .

Anche fino a qui, se vogliamo, niente di male. E’ del tutto legittimo voler dare di sé un’immagine di persona piacevole, che fa cose divertenti, che ha una vita piena e felice. Fa parte del gioco, anzi sarebbe strano il contrario. Le relazioni però, ad un certo punto, si devono vivere in presenza, di persona, ed è qui che le cose si complicano.  

Quanti likes hai?

Prima dei social network andavi a scuola e soltanto lì incontravi i compagni di classe. Se nascevano simpatie ci si vedeva fuori dal contesto. Prima solo per un caffè, poi un’altra volta si andava al cinema, così con alcuni si arrivava alla pizza, e a lungo andare con altri alle vacanze estive di gruppo. Era un conoscere sempre meglio persone che già frequentavi, e che a vari livelli sentivi affini. Il gruppo dello stadio, il gruppo dei concerti, quello del calcetto. Una volta raggiunti gli amici in birreria tutti sapevano già chi eri, non dovevi ricoprire un ruolo, se non marginalmente. 

La generazione social ha una difficoltà in più nelle relazioni: si porta dietro i followers e i likes del social network. Quando oggi un adolescente incontra gli amici sente il peso dei suoi followers e dei suoi likes: non può tradire la propria reputazione. Così ad una festa di coetanei ci sono ragazzi che cercano anzitutto di confermare l’immagine che gli altri si sono fatti attraverso il suo profilo social, e come abbiamo detto è cosa ardua, se il profilo strizza l’occhio al follower.

Baby alcol

Il consumo smodato di alcol tra giovani e giovanissimi è certamente correlato anche alla necessità di apparire spigliati, simpatici, sicuri di sé. In altre parole al sostegno di un falso sé, un sé idealizzato, unicamente piacevole e ‘social’. 

La riflessione torna così sulla difficoltà di aprirsi e lasciarsi incontrare in maniera autentica da altre persone, ma che è anche difficoltà di voler incontrare, di voler conoscere. In questo modo la responsabilità non ricade più sulle reti o sull’uso che ne facciamo, ma unicamente sulla reale disposizione, disponibilità, con la quale ci rapportiamo agli altri. 

Come si vede queste riflessioni valgono per tutti non solo per i più giovani. Essi talvolta non hanno alternative: non hanno mai conosciuto o frequentato gli altri in un’epoca senza social networks.

Goblin Mode: il diritto alla sciatteria

Il Goblin Mode è vivere il diritto di essere impresentabili, sciatti, di stare in pubblico come se si fosse in casa propria. Il Goblin Mode configge con gli stereotipi del bello e delle apparenze, ma può venire frainteso come forma di scortesia o disprezzo verso gli altri. E’ molto interessante che si sia diffuso in questo nostro tempo, e non per esempio negli anni Ottanta. 

Frammentazione 

Frammentazione è la parola chiave per capire il nostro presente. 

C’è stata un’epoca liquida, non c’è dubbio, in cui l’informazione ‘running water’ ha accompagnato il progressivo fluidificarsi della società e di conseguenza della nostra identità. O per essere più chiari del nostro modo di vedere le cose, di pensare e di relazionarci agli altri. Dopo le diverse crisi economiche, la pandemia da Covid-19 e la guerra nel cuore d’Europa, invece, siamo precipitati in un’epoca di frammentazione

Il quadro economico e politico che ci circonda è stato per molti anni più o meno stabile. Oggi invece tra nuove professioni in ascesa e vecchie professioni in declino, e tra vecchi partiti al collasso e nuovi partiti che cercano di sostituirli, vediamo una situazione altamente polverizzata. 

Di conseguenza la frammentazione si è impadronita di noi: facciamo cose frammentate, pensiamo cose frammentate, abbiamo contratti di lavoro, condizioni economiche, relazioni affettive, interi pezzi di identità frammentati. Siamo schegge di un muro, tessere di puzzle che si agganciano a immagini diversi, ma che non riusciamo a trovare: per fortuna abbiamo lo smartphone, piccolo stick di colla vinilica che riduce ad unità tutti i nostri frammenti. E del resto avete provato a stare un giorno senza telefonino? 

Goblin Mode 

Di conseguenza la frammentazione ha indotto nuove forme di disagio e nuove forme di reazione al disagio. Prendiamo il Goblin Mode: vestire in pubblico come se si fosse in casa propria, vantare il diritto di essere impresentabili rispetto ad un determinato contesto.

Rifiutare gli stereotipi di massa del bello, del pulito, del ben presentabile, lodabile da un punto di vista anticonvenzionale, mi da l’idea di sconfitta rispetto ad una competizione globale (di cui ho già detto altrove).  

Il confronto impietoso, offerto dai social networks, con tutto il resto del mondo, è un confronto che giocoforza si conclude con la sconfitta. La pianista francese che posta video in minigonna mentre esegue Schubert si espone alla risposta di un’altra pianista, dal Brasile, che suona in bichini Rachmaninov. Capite che se nella partita cominciano a entrare pianiste dagli Usa, dalla Cina dal Sudafrica e dall’Italia, come se ne esce? 

Se la competizione globale è fallimento certo, il Goblin Mode è sfuggire anche alla competizione locale: rinunciare ad ogni forma di apparenza per ammettere a priori la sconfitta. La frammentazione del contesto (psico)sociale si trasforma, con il Goblin Mode, in frammentazione della strategia di risposta. Che è anzi talmente atomizzata da non essere più visibile, da nascondere le vere intenzioni comunicative.  

Un atteggiamento di lodevole rifiuto degli stereotipi, partorisce un comportamento che può venire frainteso come disprezzo o maleducazione: non mi sembra un gran successo. 

Anoressia e donne in carriera

Alcune donne di potere soffrono di solitudine. Conformemente al ruolo che ricoprono, però, e all’immagine che devono dare all’esterno, questa sofferenza non può e non deve essere espressa: a loro non sono consentite fragilità. 

Disturbi alimentari e solitudine

Il disturbo alimentare è sostanzialmente storia di solitudine. E’ da soli che ci si forza a digiunare, è in solitudine che si fanno abbuffate notturne, è nel silenzio della propria intimità che si espelle il cibo, magari dopo aver mangiato in compagnia. 

Non stupisce quindi che molte donne in carriera, o comunque donne forti, tutte d’un pezzo, abituate a essere seguite piuttosto che a seguire, possano soffrire di disturbi alimentari: perché il potere fa rima con solitudine, e l’angoscia che può derivare dal comando necessita di strategie primordiali per essere affrontata. 

Le modalità legate all’assunzione/rifiuto del cibo sono tra le prime ad essere acquisite, come ben sanno le mamme che allattano: da neonati infatti impariamo a comunicare il bisogno di cibo, o a esprimere il senso di sazietà. E da neonati impariamo che quel ‘buco nello stomaco’ può essere riempito se chi ci sta davanti sa capire le nostre richieste. Ma se da adulti ricopriamo un ruolo in cui non possiamo fare richieste, perché non sono previsti attimi di fragilità, ecco che quel ‘buco nello stomaco’ dobbiamo riempirlo da soli, ossia ognuno come riesce. 

Vuoto e pieno

L’ingestione compulsiva di cibo assomiglia allo riempimento forzato di un contenitore. Spingere qualcosa giù, come i vestiti in una valigia. Riempire forzosamente il vuoto primordiale, negare l’utilità del prossimo, dell’Altro, e bastare a se stessi, o almeno provarci. Immaginate se un neonato stanco di aspettare il biberon che non arriva potesse alzarsi, e con rabbiosa voracità ingoiarne l’intero contenuto, mandando al contempo tutti al diavolo. Negare l’importanza del soccorso, proprio quel soccorso che non è arrivato quando ne avevamo più bisogno: fare da sé, a costo di sbagliare, a costo di farci male. Alla donna in carriera, non possiamo negarlo,  non sono consentite fragilità, e il corto circuito è servito. 

Colpa 

Ogni pranzo che si rispetti prevede un’ultima portata, e per il comportamento alimentare l’ultima portata sono rabbia, colpa, senso di abbandono. La colpa e le altre emozione negative del disturbo alimentare sono i diademi della solitudine,  di chi non ha altro giudice se non la propria coscienza. Ed eccoci, così, tornati alla solitudine, da cui siamo partiti. La donna in carriera, o comunque la donna forte, tutta d’un pezzo, abituata non a seguire, ma ad essere seguita, è donna sostanzialmente sola. E da sola, infatti, deve affrontare, oltre alle sue paure di leader, anche il senso di colpa per non essere riuscita, proprio lei, a riempire quel vuoto primordiale: quel ‘buco allo stomaco’ che con tanta rabbiosa voracità ha provato a riempire, mandando al contempo tutti gli altri al diavolo.    

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