Il perfezionista

Alcuni individui sono ossessionati dall’eccellenza. Questo atteggiamento, alla lunga, è controproducente, perché può fare emergere ansie e frustrazioni. Inoltre, richiedere agli altri di adeguarsi a standard molto alti, potrebbe incrinare la relazione che abbiamo con loro.  


Eccellenza vs sufficienza  


Gli estremismi, in genere, sono rischiosi. Sapersi accontentare è cosa saggia, ma, per esempio, puntare sempre solo alla sufficienza, può essere sintomo di paura. Il  risultato base garantisce di evitare il fallimento, ed equivale alla certezza di non essere inferiori a nessuno: insomma, è una forma di difesa. Inseguire la perfezione, di contro, può essere una gabbia. Alcune persone cercano l’eccellenza in tutto quello che fanno, e sentono un senso intimo di insoddisfazione se questa non viene raggiunta.   


In alcuni casi la ricerca spasmodica della perfezione ha un che di stucchevole e ridondante. A scuola, o all’università, una tesina deve essere ben curata e approfondita, deve avere le note, le citazioni e la bibliografia completa. Ma altri elementi come le grafiche mobili, i capolettera dorati o i ringraziamenti ai docenti, sarebbero un di più dissonante. Allo stesso modo le assemblee di condominio vengono convocate con una lettera, che ultimamente viene girata anche via mail. Ma se l’amministratore facesse un gruppo WhatsApp, e convocasse in diretta tutti gli assenti, la cosa sarebbe vissuta come un po’ intrusiva. 



Approvazione e Insicurezza  


Così alcune volte, dietro alla ricerca della perfezione, c’è il bisogno di approvazione. La cosa di per sé non è negativa, tutti abbiamo bisogno di consenso, o ogni tanto di sentire qualche “bravo”. La differenza la fa il disagio. Il perfezionista nutre un’ insoddisfazione profonda per il suo operato, se questo non possiede alcune caratteristiche. Inoltre è molto severo verso se stesso, al limite di non sapere riconoscere la bontà di quanto realizzato. Il perfezionista, in definitiva, potrebbe avere vari gradi di insicurezza di sé, o delle sue capacità, ed è per questo che il suo lavoro deve rasentare la perfezione. 

Se il perfezionista da un lato va incontro ad ansia, depressione, disturbi del sonno, ecc…, dall’altro rischia di rovinare rapporti interpersonali, proprio per la sua tendenza a pretendere dagli altri sempre e solo il massimo.

Il racconto che queste persone fanno di loro stesse, un racconto che probabilmente arriva dalla loro infanzia, ossia di poter sempre dare un po’ di più, e di non essere mai state brave quanto avrebbero potuto, è un racconto che tendono a rivolgere sugli altri, in termini di aspettative o pretese. 
Ed è così che il perfezionista crea prima dentro di sé, e poi al di fuori, tensioni e malumori. Perché fa vivere tutti, costantemente, sotto il giudizio tirannico della perfezione. 

Dove mettere gli amori del passato?

Gli “ex” rappresentano un pezzo di vita, che, per quanto passata, è pur sempre la  nostra. Nasce così il dilemma di cosa fare delle emozioni, dei ricordi, delle esperienze fatte nelle storie che li comprendono. Stracciarle, bruciarle, come il tempo che ci ha legati a loro, o salvarle, e così renderle parte della nostra identità?


Estremismi


Le reazioni di fronte alla fine di un amore tendono a polarizzarsi intorno a due estremi. C’è chi trattiene l’altro in un abbraccio mentale, rimodulando i ruoli, per garantirgli comunque un posto nella propria vita. “Siamo stati e saremo buoni amici”, “La inviterò senz’altro al mio matrimonio”, “Voglio che sia il padrino di mio figlio”. E poi c’è chi, con vari gradi di astio e rigetto reciproci, mira a svilire o cancellare dalla memoria ogni minuto passato insieme. “Odio Parigi, perché ci sono stata con…”, “Baricco? Non so chi sia, me lo leggeva …”, “Non vedo Fulvio da quando non sto più con…”. 


Vorrei dire che entrambi questi atteggiamenti sono irrispettosi: anzitutto della persona del nostro presente, e poi anche di noi stessi, della nostra specificità.  Garantire all’“ex” un ruolo di prestigio nel nostro presente equivale a dire al partner attuale: “Stai al tuo posto, non ti esaltare, lui/lei rimane comunque sul podio.”. Chi dice questa cosa probabilmente è un po’ insicuro del nuovo compagno, fatica a lasciarsi andare, a fidarsi, e vuole tenersi una porta aperta. Ma come si può fare un viaggio in auto, o in aereo, lasciando la porta aperta? Garantire all’ex un ruolo, è gravemente irrispettoso del nuovo partner, e infatti bisognerebbe chiedere a queste persone cosa penserebbero se la stessa scelta fosse fatta dall’altro? 


Inoltre devo dire che chi trattiene l’ex nel proprio presente è un po’ insicuro anche di sé stesso, della scelta fatta. Se un partner diventa “ex”, significa che qualcosa non ha funzionato. Forse è questo che si fatica ad accettare? Forse l’amore per l’altro è talmente radicato che si vuole negare la sua fine, anche a costo di trasformarlo, contro natura, in qualcosa che amore non è?


Veniamo all’altra polarità, quella distruttiva. Anche questa non è rispettosa, del nuovo partner come di sé stessi. Se in una relazione precedente ho letto Baricco, perché mi era stato consigliato, farei un grave torto, oggi, se non lo consigliassi a mia volta. Inoltre farei un grave torto anche a me stesso, se mi precludessi di frequentare tutti i posti e le persone a cui ero legato prima.


Il kintsugi dell’anima 


Come uscire da questo impasse? Come ho scritto nel mio libro, in questi casi bisognerebbe fare il “kintsugi dell’anima”. Il kintsugi è una la tecnica giapponese di riparazione della ceramica, in cui i frammenti vengono uniti con una colla intrisa di polvere d’oro. Il risultato è che un kintsugi vale più dello stesso vaso prima della rottura. 


Con l’espressione “il kintsugi dell’anima” mi riferisco alla possibilità di collegare, unire e saldare fra loro parti della nostra storia. Tutti abbiamo frammenti di passato che non si parlano, che sono situati in tempi, luoghi, situazioni diverse. Uno di questi casi è rappresentato, per l’appunto, dagli amori. 
A partire dall’adolescenza, si susseguono alcuni o diversi partner, che lasciano (o tolgono) qualcosa. Questi pezzi sono tessere di puzzle diversi, frammenti che non riusciamo a inserire nello stesso disegno, quello del nostro presente. Per mettere insieme questi pezzi, occorre un’operazione delicata e paziente di kintsugi, ossia incollare un frammento all’altro con mentale polvere d’oro.


Solo a quel punto il nostro passato ci apparirà come un disegno unitario, e non ci sarà più bisogno di garantire ruoli agli ex partner, né di buttare al rogo, insieme al loro ricordo, le cose fatte insieme. 

Perché amiamo la “persona sbagliata”?

Dagli adolescenti agli studenti universitari, dagli imprenditori fino ai grandi uomini e donne di Stato, a tutti capita di innamorarsi della persona sbagliata. Tuttavia quando arriva una delusione, puntiamo il dito su quella persona, e giuriamo che è solo colpa sua, perché non ci ha mai dato quello che avremmo voluto.


Cambiare per amore?


Ma questa posizione è ingiusta: alcuni se ne accorgeranno anni dopo, mentre altri non riusciranno mai ad ammetterlo. È ingiusta perché “narcisistica”, ossia non prevede nessuna responsabilità per chi la esprime, ed è ingiusta perché svuota l’altra persona della propria specificità. 


Un’altra accusa classica è che l’altro non voglia cambiare per noi, per il nostro amore. Anche questo è sbagliato: parte dal presupposto che nella relazione ci siamo noi al centro, mentre l’altro ci ruota intorno, come un satellite. Ma perché dovrebbe “cambiare” per noi? E se fossero gli altri a chiederci di “cambiare” per loro, come la prenderemmo? 


Come si vede, quando nelle relazioni qualcosa va storto, siamo sempre pronti a scaricare le colpe, senza accettare che le cose, come si diceva un tempo, si fanno in due. Le stesse considerazioni valgono per tutti gli altri problemi di coppia, dal tradimento, al ghosting temporaneo, fino ai “periodi di pausa”. L’altro è, e deve restare, se stesso. Possiamo, piuttosto, chiederci, perché crediamo, ci affidiamo, alle persone sbagliate?


La “persona sbagliata”


Anzitutto dire che qualcuno sia sbagliato è ingeneroso. Io preferisco spostare il fuoco sulle aspettative: verso gli altri abbiamo alcune aspettative che sono ragionevoli, e altre che lo sono meno. Perché, dunque, abbiamo aspettative sbagliate? 


Le aspettative nelle relazioni dipendono da come siamo abituati, da quale ambiente proveniamo: è quello che ci fa sentire a disagio o meno, è quello che determina ciò che vorremmo, o ciò da cui fuggiamo. Vale il vecchio esempio psicoanalitico dell’eschimese sulla riviera romagnola. Se ci va in vacanza si trova bene, ma se si trasferisce stabilmente, rischia di ammalarsi, perché è abituato ad un clima diverso.


Allo stesso modo, se in una relazione troviamo molto calore e comprensione, quando per varie ragioni non vi siamo abituati, la cosa all’inizio ci potrebbe piacere, ma alla lunga potrebbe creare claustrofobia. Vale lo stesso per le relazioni violente, tossiche, o deprivanti. Se qualcuno ci attrae, ma non ci convince fino in fondo, dovremmo chiederci: quali aspettative abbiamo, come vorremmo che si comportasse? 


Attese e aspettative


C’è sempre una ragione profonda, che riguarda noi stessi, il nostro passato, se qualcuno ci attira, se ce ne invaghiamo. L’aspettativa è qualcosa di individuale, dipende da noi, non da come si pone l’altro. 
Così passerei dal “perché amiamo persone sbagliate?” a “per quali motivi riponiamo aspettative in chi non è in grado di rispettarle?”.

La domanda è più impegnativa, me ne rendo conto, e costa fatica. Ma se non altro ci consentirà, in futuro, di non ricadere negli stessi errori. 

Sentirsi in colpa

A tutti è capitato di sentire nello stomaco un peso fatto di ansia e angoscia, e di imputarlo al senso di colpa, ossia alla reazione emotiva per aver fatto, o non fatto, qualcosa. 


Responsabilità 


Sentirsi in colpa per una mancanza è certamente cosa buona, e anzi definisce il senso di responsabilità, ossia, se volgiamo, l’attitudine a vivere all’interno di un gruppo o di una collettività. Sentirsi responsabili di un danno arrecato, apre la strada alla possibilità di recuperare, di riparare il misfatto. 


Sin dai tempi di Melania Klein, e dei suoi primi studi su Sigmund Freud, questo è stato correlato con una buona integrazione del . In quest’ottica, chiosava Speziale Bagliacca, “la colpa non è un fenomeno umano primitivo, per sentire colpa occorre avere raggiunto una certa maturità”. Il che significa che le persone in grado di sentirsi in colpa sono persone migliori di altre, che hanno una grande sensibilità, e sanno mettersi nei panni di chi hanno davanti. 


Se parcheggiando urto l’auto del mio collega, o in a discussione mi accorgo di essere andato oltre le righe, è buon segno sentire il bisogno di recuperare, di fare qualcosa per segnalare la mia presa di consapevolezza. 


Colpa senza dolo


Tuttavia non tutti i misfatti comportano lo stesso senso di colpa, e questo significa, di contro, che non tutte le volte che ci sentiamo in colpa ce ne sia un’effettiva ragione. Quando il senso di colpa per aver fatto qualcosa di sbagliato, e soprattutto per aver causato la sofferenza di qualcuno, eccede la normale tollerabilità, per usare un’espressione non psicologica, questo senso di colpa è la spia di una paura più profonda, una paura che ha soltanto trovato un’altra occasione per uscire allo scoperto. 


Prendiamo il caso di due fidanzati che interrompono la loro relazione. Senza dubbio uno dei due cercherà di fare sentire in colpa l’altro, di indurlo a tornare sui suoi passi. Come ben sappiamo, in genere questi tentativi restano vani, non hanno nessun esito. Ossia, quando si decide di troncare una relazione, non c’è senso di colpa che tenga. Pertanto, se esistono misfatti senza colpa, per quale motivo debbano esistere sensi di colpa in assenza di veri misfatti? 

È così che il focus deve spostarsi su quella sensazione di disagio, su quell’esigenza così pressante di riparare alle nostre mancanze. Se quel pensiero dura oltremisura, e arriva a rovinarci un’intera giornata, è segno che merita di essere affrontato una volta per tutte. 

Laureati: come trovare lavoro?

Laureato e intellettuale

La formazione universitaria lascia una competenza tecnica (le conoscenze professionali in un certo ambito), e una competenza strategica (saper impiegare tatticamente tali conoscenze, per poter affrontare casi specifici).
Ne discende che al termine di un percorso di laurea uno studente abbia sviluppato parallelamente almeno due diverse capacità, una direttamente collegata all’oggetto di studio, l’altra al suo utilizzo. 
Proprio questa capacità di utilizzare la conoscenza andrebbe presa in esame quando ci si mette alla ricerca di un impiego, perché lo sappiamo bene, il mercato del lavoro è cambiato, e la mansione pura non esiste quasi più. 


Tutti influencer  

La smania con cui molti laureati si scatenano a pubblicare video online, è la cifra dell’illusione di avere grandi risultati con minimi sforzi. Se questo è vero per alcuni fortunati, non può, tuttavia, valere per tutti, e in linea di massima per avere successo, anche poco, è sempre necessario faticare molto, moltissimo. 
È stato così per i grandi musicisti, per i poeti e gli scienziati di ogni tempo, è così anche oggi, che la globalizzazione ha azzerato le distanze, e aumentato esponenzialmente, come vediamo ogni giorno, l’aggressività. 
Quando il laureato si mette alla ricerca di un impiego, quindi, dovrebbe anzitutto fare due operazioni. La prima è non dare per scontato che l’ambito di questo lavoro sia quello della sua formazione. L’università è anzitutto una maestra, e insegna a usare la testa. La seconda, partire dall’analisi del contesto di riferimento. E qui intendo quello fisico, non quello virtuale, dato che a parte il lavoro di influencer tutti gli altri lavori si svolgono in uno spazio e in un tempo ben definiti. 


Cosa so fare?


La ricerca di un lavoro, così, è sempre più un chiedersi: con le mie caratteristiche, le mie competenze e i miei interessi (ossia con le competenze che oggi non ho, ma che potrei avere domani) quale mansione potrei ricoprire? In quel ambito potrei apportare un mio contributo? 


L’abbiamo detto, il lavoro è cambiato. Per questo deve cambiare drasticamente anche l’atteggiamento verso il lavoro, a partire dalla fase in cui si entra nel mercato e si cerca un impiego, ossia in cui si offre la propria competenza di saper fare qualcosa. 

I DSA e il loro trattamento

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) sono quattro disturbi del neurosviluppo che riguardano la lettura (dislessia), la scrittura (disgrafia e disortografia) e le capacità di calcolo (discalculia). 


Biologia e ambiente 


Come per tutti i disturbi del neurosviluppo, la base di partenza dei DSA è di tipo genetico, ossia riguarda disposizioni individuali biologiche che predispongono l’individuo a sviluppare quel disturbo piuttosto che un altro. 

Il cervello umano, tuttavia, non nasce per leggere o scrivere: diversamente dal linguaggio, non abbiamo dei centri deputati alla lettura o alla scrittura. Come hanno chiarito Antonella Gagliano e Daniela Traficante (2022) i circuiti neuronali che codificano per queste competenze vengono sviluppati ex-novo a partire dall’interazione dell’individuo con il suo ambiente. 


Questo significa che un DSA affrontato in tempo può essere sciolto creando nuove vie, nuove strategie di apprendimento.


Psicoterapia 

Il paziente DSA è sovente discriminato o sottovalutato, al punto che egli stesso sviluppa handicap in altri campi, diversi dall’apprendimento. Risucchiato dal cono d’ombra del DSA, il paziente diagnosticato può cominciare a sentirsi inferiore ai compagni anche in settori diversi dallo studio. 


In psicoterapia il paziente impara a esplorare e sviluppare le competenze relazionali che ha sempre tenuto nascoste, nella preoccupazione che fossero anch’esse viziate da qualche baco neurologico. E impara a svincolare le proprie aspettative di successo nella vita dalla diagnosi di disturbo dell’apprendimento


In questo modo la psicoterapia, e il suo buon esito, risultano parte di un trattamento complessivo, che non si limita al disturbo dell’apprendimento. L’obiettivo è aiutare il bambino a pensarsi anche in situazioni diverse dalla scuola, nelle quali non avrà necessariamente le stesse difficoltà, e potrà rapportarsi da pari a pari con ciascun coetaneo. 

La relazione tossica: come uscirne?

Una relazione è “tossica” quando crea più malesseri che benefici. Non tutte le relazioni sbilanciate sono tossiche, e forse neppure tutte le relazioni di dipendenza lo sono. Le relazioni tossiche si riconoscono da quella modalità quasi magnetica di tenere insieme persone che appartengono a universi paralleli. 


Mind games  


Una componente caratteristica delle relazioni tossiche sono i mind games, i giochi mentali. Si tratta di strategie manipolative che fanno restare nel giusto approfittando della buona fede dell’altro. I mind games sono modalità vili di tenere insieme una relazione tossica, ossia una relazione che uno dei due partner vive come altamente instabile e dolorosa. E sono modalità che non verrebbero accettate se uno dei due non temesse fortemente la separazione. 


Dunque paura dell’abbandono, della separazione, della fine della relazione sono sovente alla base delle relazioni tossiche, e sono la ragione profonda per cui è così difficile uscirne. 



Un salto nel buio


Di conseguenza, per uscire da una relazione tossica è necessario un salto nel buio. O meglio, è necessaria un’analisi dei mind games. Quale verità profonda e inconfessabile confermano, per chi a malincuore li accetta? Per quale motivo è così difficile perdere una persona che manipola la nostra buona fede? 


Le stesse domande, sia chiaro, andrebbero poste anche alla parte forte della coppia, ossia a chi deve utilizzare queste modalità per tenere a sé l’altra persona, per il resto insoddisfatta e persino impaurita. 

La via d’uscita, in una psicoterapia, si persegue anzitutto esplorando il tipo di equilibrio che una relazione tossica garantisce ai due membri della coppia. Ossia i vantaggi (paradossali) dati dal restare in una relazione che, come abbiamo detto, crea più malesseri che benefici.  

Adolescenti: il senso di colpa nel divorzio dei genitori

Non è raro che i figli vivano con un senso di fallimento personale il divorzio dei genitori. Uno dei pensieri inconfessabili, soprattutto durante l’adolescenza, riguarda l’egoismo. Ma quando arriva la colpa, perché “potevo fare di più”, lì bisogna sapersi fermare. 

Adolescenti saggi e comprensivi 


A parte alcuni casi di violenza o soprusi, gli adolescenti vivono la famiglia come un luogo di affetti e ristoro, e la lacerazione indotta dal divorzio, intendo anche nei casi di separazioni consensuali e “pacifiche”, definisce la perdita di un equilibrio.  Solitamente i figli mostrano nei confronti del divorzio atteggiamenti maturi e consapevoli, fornendo letture comprensive, specie se inconsciamente alleati con uno dei due genitori.  “I miei non vanno d’accorso, hanno fatto bene a lasciarsi”. “Mia madre sente un amico d’infanzia, mio padre esce sempre per conto suo, era ora che ci dessero un taglio”. E cose simili.

 
La posizione indulgente verso il divorzio è una forzatura difensiva, una maschera di ghiaccio che nasconde e congela sentimenti di vuoto e abbandono

La consapevolezza che si sedimenta nella memoria dell’adolescente riguarda la premura che i genitori hanno nei suoi confronti, quanto sono disposti a rinunciare per lui/lei. Quanto valgo per loro? Soprattutto con il passare del tempo, i ragazzi imparano a relativizzare i conflitti di coppia, e a inserirli in un più ampio contesto relazionale. Così appena passata la tempesta, iniziano a covare rancori, perché “Davvero a me non hanno mai pensato”. Oppure: “Non ci voleva molto, bastava avere un po’ più di buon senso, in una direzione o nell’altra”. Questo avviene soprattutto quando le relazioni con i nuovi partner vanno in crisi, e i ragazzi ripensano all’altro genitore. 


Colpa

Qui arriva la colpa. Quando le nuove relazioni finiscono, l’adolescente si chiede: “Allora potevo fare di più?”. Ed ecco che l’identificazione inconsapevole con uno dei genitori diventa rovesciamento dei ruoli, la saggezza diventa incarico di cura e accudimento, rimprovero di non aver fatto da genitore ai genitori. 
Il senso di vuoto e abbandono, quel sottile rimprovero mai esplicitato di non essere stati visti per troppo egoismo, diventa auto rimprovero, nella certezza che si poteva fare di più. 

Ecco allora che si rende necessaria una presa di consapevolezza complessiva da parte dell’adolescente, perché ciò che da subito ha vissuto come un sopruso, una lacerazione della sua stabilità, sta diventando un penso sulla coscienza, il rimprovero di non essere stato abbastanza bravo.

Umberto Eco, Bauman e Wagner: la fine della liquidità e il nuovo Umanesimo.

In uno scritto del 2015 Umberto Eco citava Bauman e si chiedeva cosa avrebbe sostituito la grande liquefazione, a cui entrambi stavano assistendo. Oggi (2023) abbiamo le idee più chiare: la società liquida, come per raffreddamento, si è scomposta in migliaia di frammenti, anzi milioni, e ai soggetti contemporanei non resta che guadarsi da lontano, delle loro micro isole, e comunicare tramite smartphone.  


La spinta principale in questa direzione è arrivata dalla pandemia, che ha acuito le distanze sociali tra tutti, ricchi e poveri, più istruiti e meno, chi abita territori con maggiori servizi e chi no, ecc…  La pandemia ha innescato problematiche relazionali e psichiche del tutto nuove, come la paura per il corpo, il contatto fisico, la prossimità, o patologie del carattere, o disturbi del sonno, tutte se vogliamo legate all’uso smodato dello smartphone. 


E poi c’è la frammentazione politica, sociale ed economica, data dalle guerre, dalle migrazioni, dal rifiuto dell’ordine mondiale costituito, da parte di miliardi di esseri umani che si organizzano con apparati alternativi.  
La grande frammentazione ha preso il posto della liquefazione, e alla società liquida si sta sostituendo una società fortemente frammentata. In tutto, e infatti vediamo anche una progressiva frammentazione psichica del soggetto del nostro tempo.   


Come se ne esce? Nello scritto citato, Umberto Eco lamentava l’assenza della politica e la pigrizia dell’intellighenzia. Che la politica sia assente dalle grandi discussioni epocali non deve sorprendere, è così dai tempi di Platone. Il populismo, del resto, non prevede pensiero, ma solo invettiva istintuale. L’intellighenzia è pigra? Quando i filosofi smetteranno di fare convegni su Spengler, saremo già tramontati tutti. Quando smetteranno di chiedersi se Heidegger fosse nazista o meno, sarà arrivata un’altra Shoah


La verità è che serve da subito un rinnovato istinto umanista. Non esistono razze, non esistono forse neppure culture. Esiste un unico genere umano, che sta colonizzando il mondo, ne sta spremendo le risorse, e fra poco scatenerà conflitti per contendersi il poco rimasto. Ecco secondo me la vera svolta post liquidità, la rifondazione dell’Umanesimo


Mettere l’uomo, le sue esigenze, anche psichiche, al centro di ogni discussione. E va fatto subito, prima che l’onda lunga del post pandemia travolga tutti con la sua coda di diffidenze, perché incontrare l’altro non porta solo la diffusione del Covid o l’intrusione traumatica.  E va fatto subito, per dimostrare a Umberto Eco, o ai suoi eredi spirituali, che Zigmund Bauman non è solo una “vox clamantis in deserto”. 

Come superare l’aracnofobia?

Irrazionale

La fobia è una paura irrazionale, immotivata. Quindi per aracnofobia non intendiamo una generica sensazione di disgusto, o disagio, di fronte alla vista di un ragno, ma qualcosa di più pervasivo e invalidante. 
Che sia una paura irrazionale significa che non deriva da dati della realtà oggettiva. Che sia sostanzialmente immotivata significa che il pericolo che percepiamo è esponenzialmente maggiore di quello reale, ossia gonfiato dalla nostra mente. È come se avessimo delle lenti che ci fanno vedere tutte le cose normalmente come esse sono, tranne i ragni, che ogni volta ci appaiono sempre più grandi, più minacciosi e pericolosi. 

Rapporti di forza


Facciamo un esame della questione. In una situazione tipo, poniamo, un essere umano incontra sulla sua strada un ragno. Quali sono i rapporti di forza? Chi dei due ha una posizione privilegiata? Chi dovrebbe temere per la propria incolumità?  In una situazione standard, quando un essere umano incontra un ragno, ha di fronte a sé solo scelte vincenti. Può decidere di cambiare strada, e nessun ragno potrebbe mai rincorrerlo per obbligarlo allo scontro. Può decidere per il confronto, a mani nude, con un attrezzo, o con qualche insetticida. E anche in questo caso la sorte dell’aracnide sarebbe segnata. Potrebbe catturare l’insetto, e tenerlo, non so, in una teca di vetro. E anche in questo caso il malcapitato non avrebbe modo di eccepire nulla. 
Come si vede, in una situazione standard, (in genere) un essere umano avrà sempre la meglio su un ragno. Lo stesso vale in situazioni più articolate e complesse. Ossia se un individuo incontra un ragno in camera da letto, sul comodino, tra libri, sveglia e suppellettili. O in bagno, prima di entrare in doccia, o in auto, quando si ferma per fare benzina. Anche in tutte queste situazioni, per quanto più complicate rispetto all’esempio iniziale, l’umano avrà sempre la possibilità di sbarazzarsi dell’insetto, senza mai sentirsi realmente minacciato nella sua incolumità. 

Psicoterapia


Ecco quindi che veniamo al nocciolo della questione, se l’arcanofobia non è l’espressione di una paura concreta che riguardi la sopravvivenza, di cosa è la cifra? È a questo punto che entriamo nel territorio della psicoterapia. Perché evidentemente le associazioni che la nostra mente attua in relazione al concetto “ragno”, una volta che la vista mette al corrente il cervello della presenza di un ragno sul nostro cammino, sono associazioni che riguardano pericoli enormi per la nostra sopravvivenza psichica. Il ragno non codifica per un pericolo fisico, oggettivo, esterno, ma per un pericolo interno, psichico, che può essere persino più grave e invalidante. 
Nell’attacco di panico un individuo sente che sta per morire, manca l’aria, il cuore sta per cedere. Se queste sensazioni sono date dalla vista di un ragno significa che il ragno è l’emblema di un pericolo mortale per il . Il ragno non può dare la morte, ma può dare la morte psichica, cosa appunto, ben più grave. 
La psicoterapia punta proprio a smascherare i legami sotterranei tra la vista del ragno e la sensazione di pericolo. E l’obiettivo non può essere solo quello della desensibilizazione. Perché come per i disturbi alimentari, c’è un motivo ben preciso se la nostra mente associa il pericolo ad un ragno, piuttosto che a un panda o a un elefante. 

Il mio ultimo libro

Il Kintsugi dell'anima

Una raccolta di scritti brevi che offre speranza e crescita personale, affrontando temi universali come famiglia, lavoro, sport e attualità. Invita i lettori a scoprire opportunità di miglioramento anche nelle difficoltà, trasformando la fragilità in forza.