Psicoterapia in comorbilità psichiatrica: conflitti genitoriali, angoscia psicotica, tossicodipendenza

Nei pazienti con comorbilità psichiatrica, di cui mi occupo da oltre un ventennio, ho visto sovente storie di vita simili, con momenti cardine che si ripetono o rassomigliano, e non soltanto per quanto riguarda l’abuso di alcolici o droghe. 

Il disagio (esistenziale o psichiatrico) che questi ragazzi esprimono nel corso della loro crescita, attraversa fasi largamente, e inquietantemente, sovrapponibili. Uno degli aspetti che li lega fortemente tra loro riguarda i conflitti genitoriali a cui sono stati esposti sin da bambini, e a cui non hanno saputo adattarsi, se non sviluppando i sintomi e le caratteristiche di personalità che gli sono proprie. 

Il tossicodipendente tiene unita la famiglia

Inizialmente non veniva data una grande importanza agli aspetti familiari e ambientali del paziente tossicodipendente. La sua posizione, anzi, era sovente dipinta come quella di un perfido manipolatore, una scheggia impazzita nella placida tranquillità di una famiglia, per il resto, normale. La tossicodipendenza veniva fatta risalire alle cattive compagnie, da cui questo manipolatore era stato a sua volta manipolato, plagiato, e in questa lettura si perdeva il senso profondo, non tanto dell’utilizzo occasionale delle droghe, quanto della deriva tossicomanica dei più sfortunati.  

Ad un certo punto si cominciò a ritenere che il tossicodipendente tenesse legata una famiglia allo sfascio. L’alta conflittualità a cui era stato abituato, dovuta a dissidi non superati, a gravidanze inattese, o indesiderate, e cose di questo tipo, aveva segnato il paziente più di quanto egli stesso volesse ammettere, al punto da indurlo a diventare il cemento mancante nella coppia genitoriale. Una delle conseguenze della dipendenza, in altre parole, era che la preoccupazione che i genitori riversavano sul giovane, diventava l’unico punto di convergenza di una coppia ormai divisa su tutto. Si trattava di una svolta epocale, sia chiaro, da ché in precedenza, come dicevo, il tossicodipendente era visto alla stregua di Franti, il cattivo del libro Cuore.

Gli atteggiamenti vittimistici tipici di alcuni ragazzi, le loro pretese, i loro alibi, acquistavano senso quando letti nella dinamica familiare, in cui diventavano il tramite per fare superare ai genitori i conflitti, o quantomeno a toglierli momentaneamente dal loro orizzonte. Se ubi maior, minor cessat, di fronte alla salute di un figlio, tutto passerà in secondo piano. 

Potremmo definire questa fase storica del nostro lavoro come quella della “ricerca di attenzioni”, ossia del tossicodipendente come un esperto nel mettere sé stesso al centro della scena. La conseguenza implicita di questo schema era che, se la coppia genitoriale si lasciava trascinare in questa dinamica, o nei ricatti che talvolta ne derivavano, lo faceva anche perché ne traeva un vantaggio: restava unita, rimandando a data da destinarsi i veri nodi della sua coesistenza.  

Con il passare del tempo, tuttavia, si è visto che questa lettura, per quanto a volte corretta, non bastava, da sola, a spiegare tutti i casi di grave tossicodipendenza. Il conflitto familiare continuava ad essere presente in una serie sterminata di casi, ma la dipendenza non era sempre un sacrificio per perseguire un bene superiore. A volte era uno sfregio ad un genitore insensibile, o distratto, a volte un ricatto, oppure ancora il sostituto di un Altro (o un’Altra, come nel caso dell’eroina). 

Comorbilità psichiatrica: un intreccio traumatico 

La tossicodipendenza (almeno in certa parte) acquisiva un senso differente se letta nella complessità della comorbilità psichiatrica. Nella compresenza e nell’intreccio delle diagnosi (da cui il termine comorbilità), si rende impossibile stabilire con chiarezza se sia nato prima il disturbo psichico o l’abuso di droghe. Tanto è vero che i casi di spostamento delle dipendenze, sempre più numerosi con il passare degli anni, facevano pensare, più che ad una forma di adattamento al clima familiare, ad una appresa modalità standardizzata di reazione alle frustrazioni. 

Nel corso del tempo, in altre parole, vedevamo pazienti dapprima schiavi dell’eroina, passati ad abusare di alcolici, forse perché la moda era cambiata, (qui pesava non tanto il ruolo delle compagnie, ma il ruolo nelle compagnie), e successivamente approdare alla cocaina. Con una dinamica incomprensibile, se vogliamo, perché chi ricerca sostanze psicotrope, non dovrebbe passare agli stimolanti. In quegli anni era facile sentirsi dire dai pazienti frasi di questo tipo: “Ho trovato nell’eroina una sostanza benefica che interagisce positivamente con il mio metabolismo. Mi calma, mi dà serenità. È il mio corpo ad averne bisogno, mi fa stare bene.” Ammetterete che lascia sgomenti scoprire che, poniamo, quindici anni dopo, chi ti ha detto queste parole pensa la stessa cosa della cocaina o del crack. Sarebbe come dire che se da studente usavo la camomilla come ipnoinducente, oggi uso il caffè: senza altra spiegazione a margine, non se ne vede il senso.   

Anzi, all’osservazione, il percorso di spostamento non si arrestava: dopo la cocaina il paziente iniziava a giocare al gratta e vinci, al Superenalotto, al videopoker. Dimostrando, ancora una volta, di essere in cerca di una dipendenza, più che di una sostanza. 

Veniamo al tempo presente, e alla comorbilità psichiatrica come lettura clinica e approccio terapeutico. Ancora oggi la maggior parte dei pazienti condivide una storia familiare di litigi, incomprensioni, frustrazioni. Molto spesso si tratta di coppie genitoriali sull’orlo della crisi, di divorzi litigiosi o violenti, oppure di cespugli genealogici, come nel caso, e ne abbiamo parlato molto, dei bambini adottati, affidati ecc. Storie in cui non solo sono mancati i punti di riferimento, ma i riferimenti, per quanto deboli, problematici o inaffidabili, hanno addirittura operato per delegittimarsi a vicenda. 

La visione attraverso la lente della comorbilità ci porta a considerare, di conseguenza, anche l’origine ambientale e l’eredità generazionale, o trans generazionale, del disturbo, oltre ché, naturalmente, quella più prettamente psichiatrica. Ed è così che la depressione, l’angoscia esistenziale o la colpa persecutoria, (ecc…) e inevitabilmente anche la tossicodipendenza, si legano ad una storia familiare di difficoltà e sintomi non curati. La dipendenza, quindi, non appare più come lo sforzo di un bambino saggio (o egoista) che tenta di legare ciò che è ormai disunito, ma come il terminale di una storia (pluri generazionale?) di rotture traumatiche mal digerite, o non elaborate, che sono cadute in qualche modo sulle spalle (o sulla mente) del paziente.

Egli ha ammortizzato per come ha potuto le vicende distruttive, o di rigetto, che lo hanno accompagnato, o che lo hanno visto protagonista. Ha inserito la sua propensione alla dipendenza (che infatti in molti casi è anzitutto una dipendenza affettiva) in maniera stabile nelle sue relazioni significative. Ha imparato a non chiedere più di essere amato, se non a qualcosa o qualcuno che non può fare altro che deluderlo. 

Nella lettura comorbile, il tossicodipendente è un ragazzo disperato troppo orgoglioso per chiedere aiuto, ma anche troppo fragile per accettare quell’aiuto, se non proveniente da chi lo ha ferito. Ma chi lo ha ferito non sa di averlo fatto, perché gravato, a sua volta, da un peso che, già in passato, non è riuscito a sostenere. Questa visione della dipendenza è, ad oggi, l’unica in grado di farci vedere davvero la commistione tra angoscia psicotica e manipolazione, tra paura dell’abbandono e autoregolazione emotiva, tra maniacalità e mancanza di autostima. 

Forse non è ancora sufficiente per elaborare una strategia di approccio efficace e definitiva, ma certamente è un buon inizio. Se non altro, per cominciare a restituire a questi ragazzi la dignità di individui, dignità che la vita gli ha strappato molto prima, di quanto abbia fatto la tossicodipendenza.        

Dio perdona…io no! Tradimento, orgoglio, perdono.

Il perdono è uno dei capisaldi della nostra tradizione religiosa, cosa che si riverbera anche nel diritto, in cui per un condannato sono previsti sconti di pena, indulto, riabilitazione penale, ecc… . Abbiamo la tendenza, tuttavia, a considerare il perdono più come una cosa che gli altri debbano a noi, che come un movimento da parte nostra verso chi ci ha mancato di rispetto.

Il perdono di Dio e dello Stato

Dio pedona… io no! Questo titolo di un film dell’amata coppia Bud Spencer e Terence Hill, è molto eloquente nel discorso che stiamo facendo. Il Cattolicesimo è spesso ritenuta la religione del peccato. A torto, a mio avviso, perché più che in altre confessioni, o quantomeno in maniera diversa, ruota attorno al concetto di perdono. Dio perdona chi si rimette nelle sue mani, tramite le modalità previste dalla teologia. Non spetta ai teologi sindacare, non è nel potere dei fedeli contrattare. Il perdono di Dio fa parte della nostra storia religiosa e culturale, al punto che nessuno se ne sente offeso, o ne tenta una qualche forma di revisione. 

Anche lo Stato perdona, in tutto o in parte, chi ha commesso dei reati contro la legge, e anche in questo caso nessuno, in genere, mostra risentimento. Anzi, chi ha fatto un reato è sovente portato a credere che il diritto non faccia abbastanza, che dovrebbe perdonare di più, che le pene sono troppo severe, ecc… . Il perdono verso di noi, in altre parole, non è mai troppo, non è mai a sproposito, anzi è sempre meritatissimo. Anche nelle forme più alte di errore, come quelle del peccato nei confronti di Dio, o di reato verso la legge dello Stato. 

Lo stesso vale per le offese che rechiamo ad amici, conoscenti, colleghi, partner, e via dicendo. Il credito che riteniamo di avere è pressoché illimitato, sono sempre gli altri a dover fare uno sforzo, venirci incontro, apprezzare i nostri passi verso di loro.

Io perdono, ma non dimentico 

Il discorso cambia, e di parecchio, quando siamo noi a dover perdonare per un torto subito. In questi casi, la cosa migliore che si possa sentire è: “Io perdono, ma non dimentico.” Che poi è un modo per dire che non se ne parla proprio. Perché questa disparità di posizione? Perché perdoniamo in quantità minore, e più faticosamente, di quanto vorremmo essere perdonati? Va detto che un’eccessiva predisposizione al perdono, soprattutto nell’ambito della vita di coppia, può talvolta risultare sospetta. Se perdoniamo con leggerezza un partner fedifrago, ad esempio, possiamo dare l’idea di non tenerci abbastanza, oppure di avere qualcosa da nascondere, oppure ancora di essere troppo dipendenti, e accettare qualunque compromesso pur di non perdere la relazione. Tuttavia il perdono non riguarda solo il tradimento in coppia, e  dobbiamo ammettere che, in generale, perdonare è più difficile che chiedere, o aspettarsi, il perdono. 

Per quanto pacifica, la cosa è talmente paradossale, che merita una piccola riflessione. Anzitutto, chi ci ferisce, lo fa in buona o cattiva fede? E poi, poteva fare diversamente? Avrebbe saputo resistere? Ha seguito se stesso, il suo istinto, oppure no? Queste domande, e altre simili che queste ci suscitano, ci portano in una direzione. Quanto è veramente responsabile chi ci offende con il suo comportamento? 

Sul perdono, e la difficoltà di perdonare, partirei anzitutto da noi stessi, da cosa avremmo fatto noi al posto dell’altro, e da come vorremmo essere trattati, per giungere poi ad un’altra conclusione. Il perdono, è utile ricordare (Lacan, Kristeva), non si riferisce all’offesa, o al reato, ma alla persona: è un atto relativo all’altro. Non riguarda il furto, l’aggressione o la rapina, ma l’individuo che li ha commessi. Così in coppia, non perdoniamo il tradimento, ma chi lo ha fatto. 

Il per-dono è un dono a noi stessi

Inoltre, il perdono libera il futuro. Restare ancorati all’evento che ci ha feriti, che è comunque passato, vuol dire non ripartire. Ecco, allora, la conclusione cui volevo giungere: il per-dono all’altro, sostanzialmente, è un dono fatto a noi stessi. Chiudere quella porta, è autorizzarci a guardare oltre, ad andare avanti. È allora forse questa la difficoltà? Restare fermi al torto subito è uno stop forzato, un drammatico alibi per non continuare a crescere senza l’altra persona. 

Sta forse qui la ragione per cui vorremmo che, invece, a parti invertite, ci perdonassero tutto? Non riusciamo a capire per quale motivo si ostinino a non ripartire, quando è tutto chiaro, quando tutto è superato, quando ormai tutto è inesorabilmente chiuso nel passato?    

Studentessa e lavoratore: crescere insieme quando le strade divergono

Un tipo di coppia che ha certamente fatto parte delle nostre vite, in maniera diretta o indiretta, è quella in cui due ragazzi che si frequentano dai tempi della scuola, prendono diverse strade di crescita. Uno continua gli studi, l’altro entra nel mondo del lavoro. Questo caso è esemplare, perché smonta la tesi romantica dell’amore come unione delle anime, al di là del background socio-economico-culturale. Ed è per questo che va usato come lente per osservare anche altre dinamiche di coppia

Il lavoratore

Entrare nel mondo del lavoro modifica la percezione che uno dei due ha della coppia, e devo dire istigato in questo anche dai suoi familiari. Avere un’occupazione, se non altro in una prima fase, determina indipendenza economica, maggiore libertà, possibilità di guardare al futuro in maniera progettuale. Il partner lavoratore ha quindi la possibilità di sostenere il partner studente, ma anche di averne, di conseguenza, una visione di subalternità. Se il lavoratore è la colonna della coppia, è quello più forte. 

Il lavoratore guarda alle prossime vacanze, progetta svaghi, magari investe del denaro in una casa. Alla lunga, può cominciare a sentirsi in credito, senza dirlo. Sotto sotto possono nascere delle incomprensioni, un senso di rivalsa, “Ecco tu fai tutte queste cose grazie a me”. Il più delle volte, però, come è giusto che sia in una coppia, le energie investite sono a fondo perduto. Se faccio qualcosa per l’altra persona, non può essere nell’attesa di una sua restituzione. Così, sostenere lo studente con regali, pagando le vacanze, facendo investimenti che ricadano sulla coppia, dovrebbe essere fatto di cuore, pensando unicamente che ciò che è bene per l’altro, sarà di conseguenza anche un bene per me.  

Lo studente

Niente di più forzato, e, talvolta, di più illusorio. Il partner studente pensa alla sua carriera universitaria, si circonda di nuovi amici, ha tutti i giorni nuovi problemi. L’università riguarda anzitutto sé stesso, il suo futuro, la sua crescita professionale. Inevitabilmente riguarda anche l’altro, ma di riflesso. E poi durante gli studi, il mondo del lavoro sembra lontano, non se ne ha un’idea nitida, e il ventaglio di professioni possibili, modifica di molto le prospettive. 

Lo studente affronta una scalata socio-culturale (oggi non più economica), rispetto al livello diploma che lo lega al compagno. Per questo potrebbe vedersi quasi come un eroe, e sentire che quello che gli altri gli (le) danno, è sostanzialmente dovuto. Per molti universitari, inoltre, allargare il sapere non ha la conseguenza di renderli più saggi, ma soltanto più altezzosi e arroganti. Questa cosa forse li accomuna ai colleghi di corso, e infatti nel rapporto quotidiano nessuno di loro ha mai questa percezione. Ma quando ciò è vero, il solco che si scava con il partner lavoratore è sempre più profondo e insuperabile. 

Prospettive sovrapponibili

Il background socio-economico-culturale, come dicevamo all’inizio, non è sempre determinante, a volte l’amore è veramente un’unione romantica di anime. Ma molto spesso no, questo non basta. Il rapporto di coppia deve basarsi anche sulla condivisione di valori, di narrazioni condivise, di prospettive sovrapponibili sulla vita e sul futuro. Crescere insieme quando le strade divergono, come nel caso che abbiamo definito della studentessa e del lavoratore, è molto pericoloso. Ci vuole intelligenza, da entrambe le parti, senso pratico e pazienza. E soprattuto la costanza di considerare sempre anche l’altro nei progetti che ogni giorno aggiorniamo riguardo noi stessi. 

“Torna con me, sono cambiato”: implorare l’altro nella crisi di coppia

Implorare di non essere lasciati, durante una crisi di coppia, è senz’altro la reazione più naturale che possiamo avere, ma anche la peggiore.

Non ti merito più

Sono rare le occasioni in cui entrambi i partner accettano la crisi, e la vivono come il naturale decorso di un progetto in declino. Quando una coppia affronta una battuta d’arresto, invece, il più delle volte è in seguito ad un travaglio interiore di uno dei due, che in maniera molto sofferta giunge a delle conclusioni. Mentre l’altro giura di non sapere, di non capire. Posto che ci sarebbe da indagare se davvero uno non abbia mai subodorato nulla, credo sia anche giusto lasciare a ciascuno le proprie difese. Chi nega i problemi, in genere, lo fa perché non riuscirebbe a sostenerne il peso.

Dicevamo, uno dei due attraversa una fase di dubbio, di tormento, chiede consigli ad amici, e alla fine prende una decisione. Il primo punto da chiarire è il ruolo dell’eventuale amante, o soggetto terzo. Sovente si ritiene che una coppia si separi per colpa di qualcuno che “rompe le uova nel paniere”. Niente di più sbagliato. Nessun terzo incomodo potrà mai sciogliere una coppia sana, in salute, in fase progettuale. La domanda più diffusa, agli incontri di chiarimento, è: “Hai un altro?”. Questa domanda è stupida, e disegna una sconfitta. Quale risposta ci aspettiamo? Sarebbe più facile accettare di essere lasciati per un altro, piuttosto che sapere di aver fallito? E infatti solitamente la risposta è: “Ma no, non ho nessuno, è solo un periodo un po’ così”. Anzi, se va bene chi lascia si prende anche delle colpe, si fustiga, ammette responsabilità: “Non ti merito più”, afferma. Quindi, direi, peggio di prima.

Ti prego, torna: ti dimostro di essere cambiato

L’eventuale amante, terzo incomodo, o come lo si voglia chiamare, quando c’è, può senz’altro avere un ruolo fondamentale. Ad esempio può dare al partner indeciso più coraggio, spingerlo ad innescare la separazione. Ma la nuova conoscenza non è mai la vera ragione della rottura. Ed è così che l’altra reazione classica, comprensibile, quasi inevitabile, diventa profondamente cieca, inutile, anzi dannosissima: “Torna con me, stavolta sono cambiato”. 

Il corollario di tentativi disperati di recuperare, facendo ciò che non si è fatto per mesi, o per anni, non è solo patetico, ma deleterio. Se chi rompe non lo fa perché ha un sostituto, ma perché ha maturato una scelta, vede questi tentativi come una sceneggiata, fuori luogo, prima ancora che fuori tempo. 

Questi atti disperati distruggono quel poco di dignità che resta, quel poco di appeal (anche erotica), e di credibilità. Poi anziché a ricredersi, aiutano a pensare di aver fatto la cosa giusta. Se una persona è incapace per anni di dire o fare delle cose, e invece ora le fa a ripetizione, perché teme di essere abbandonata, allora forse la storia merita davvero di essere chiusa. 

Implorare di non essere lasciati, durante una crisi di coppia, è un altro tentativo di mettere sé stessi, le proprie esigenze, davanti alle ragioni dell’altro. È un atto di puro egoismo, ossia proprio l’ultima cosa da mostrare ad un partner preso dai dubbi, a cui abbiamo cominciato ad andare stretti.  

Adolescenti: invisibili in cerca di like

Nei giorni scorsi un adolescente si è tolto la vita, pare in seguito ad alcuni scambi avuti su un social network con i suoi follower. Il giudizio popolare è stato immediato: la gogna mediatica ha travolto gli strumenti informatici, la pratica delle comunicazioni tra sconosciuti, il costume di raccontare cose intime attraverso post, video o meme. Se il ragazzo è incorso in questo drammatico exitus, tuttavia, la colpa non è dei social network. Il bullismo esisteva anche prima delle reti sociali, ma quello che è cambiato, forse, è il modo in cui gli adolescenti vi fanno fronte: aiutati, o non aiutati, dal loro contesto quotidiano. È di questo che dobbiamo parlare, se vogliamo fornire loro strumenti mentali, e non pretesti. 

Prima del cyberbullismo 

Nel 1992 una mia cara amica venne bullizzata in occasione del concerto dei Guns N’ Roses. Su una rivista per giovani, questa ragazza pubblicò il suo numero di telefono sotto all’inserzione in cui cercava compagnia, per non fare il viaggio da sola. Nei giorni prima del concerto, avvenne che un gruppo di baldi, credendola molto brutta, la chiamò a quel numero, e la apostrofò dileggiandola volgarmente. La mia amica per tutta risposta scoppiò in lacrime, e fu lì che avvenne qualcosa che, oggi, potrebbe avere dell’incredibile. Il padre, fan dei Ricchi e Poveri, comprò due biglietti per lo stadio, e pensò lui stesso a portarla a vedere Axl Rose e compagni. 

Ora, questo esempio deve fare concludere una sola cosa: l’adolescente sul social network non è stato ucciso dal cyberbullismo, ma dalla solitudine. Il padre della ragazza ha colto al volo la difficoltà della figlia, l’ha presa seriamente, e ha creato anzitutto un ambiente facilitante. Molto probabilmente quel ragazzo non ha trovato, per esempio a scuola, un contesto in cui portare il suo disagio. L’ha espresso, invece, sui social network, esponendosi all’aggressione dei bulli. Quindi chi ha sbagliato: lui, o chi non gli ha fornito questo contesto? 

Come, ragionevolmente, non possiamo immaginare un mondo senza guerra, perché la prevaricazione fisica tra umani è un dato di fatto del loro modo di relazionarsi, allo stesso modo non possiamo sognare un mondo senza bullismo, o cyberbullismo. Quello che possiamo immaginare, invece, è la costruzione, e la diffusione, di strumenti atti alla difesa. 

Adolescenti in palestra

L’adolescente ha bisogno di una palestra. Intendo di un luogo, che non deve essere solo fisico, in cui sperimentare diverse capacità, apprendere o affinare quelle in cui scarseggia, e, se necessario, abbandonare quelle che non fanno per lui. 

Il contesto scolastico, o quello familiare, devono fornire questo luogo, in maniera diretta, o anche indiretta. Da un lato sarebbe importante che gli adolescenti avessero spazi propri di confronto, anche in gruppo, sulle tematiche del loro mondo interiore. Dall’altro, però, anche i genitori e gli insegnanti dovrebbero avere uno spazio simile. Sono gli adulti a costruire l’ambiente in cui gli adolescenti si muovono, e questo ambiente non è solo fisico, è anche un ambiente mentale. Così, ancor prima di approdare sulle piattaforme online, i ragazzi frequentano luoghi e contesti, che hanno la responsabilità di essere accoglienti e facilitanti. 

L’adolescente invisibile a casa, a scuola, in parrocchia, al campo di allenamento, va inevitabilmente in cerca di like. Per avere, se non altro, qualche rimando: su ciò che è, ma soprattutto su ciò che vorrebbe diventare. 

La gelosia patologica

Avete mai visto un musicista geloso del suo strumento? E un botanico delle sue piante, o uno scrittore difendere le bozze del suo prossimo libro? Entro certi limiti, come tutte le manifestazioni dell’animo umano, anche la gelosia è un fatto fisiologico. Anzi persino positivo, perché ci parla di affezione, attaccamento, amore. 

Il tango della gelosia

Proprio questo attaccamento, però, può essere una lama a doppio taglio. Il nostro naturale istinto (ben educato dal modello sociale del capitalismo), ci porta a controllare le manovre che gli altri compiono intorno alle nostre proprietà. È un fatto istintivo: temiamo che ciò che è nostro possa finire in mano altrui. D’altro canto, sentiamo anche un piacere intimo quando agli altri piace qualcosa che ci appartiene, anche se talvolta non vorremmo ammetterlo. Il complimento per la nostra bella auto, per quanto vecchia, fa certamente piacere, così come l’apprezzamento per una foto scattata anni fa, un canzone scritta in gioventù, o un progetto realizzato contro il parere di molti. 

Lo stesso vale, inevitabilmente, per le relazioni amicali o affettive, anche se, evidentemente, e qui dovremmo aprire una parentesi troppo grande da poter essere chiusa, una persona non ci appartiene come uno strumento musicale, un’automobile, o un progetto artistico. Quello che ci appartiene di una persona è la relazione che abbiamo con lei. È di quella che siamo gelosi, perché ci entra in profondità, e determina, in qualche modo, ciò che noi siamo ai suoi occhi. 

Mio fratello, mia moglie, la mia psicoanalista: in questi casi il possessivo non si riferisce alla persona, ma al legame, ed è un legame di cui siamo gelosi, perché rappresenta qualcosa di piuttosto esclusivo nella nostra vita. Di fratelli, al massimo se ne possono avere alcuni, di mogli si potrebbe arrivare a tre o quattro, di psicoanalisti, se tutto va bene, nella vita ne avremo uno soltanto. 

Relazione e attaccamento

Ecco quindi che cominciamo a legare la gelosia con la relazione, ossia con ciò che noi siamo, o rappresentiamo, per l’altra persona. Il musicista geloso del suo strumento, per tornare all’esempio iniziale, ad un certo punto sposterà la gelosia sulla competenza, ossia su quello che succede tra lui e lo strumento (che forse non possiamo chiamare relazione.) E penserà che, per quanto altri possano avvicinarsi a suo oggetto, quelle determinate note, con quella certa intensità, potrà produrle soltanto lui. 

Le relazioni affettive, invece, sono determinate dal modello di attaccamento a cui facciamo riferimento. Se siamo stati abituati a sentire fedeltà da parte degli altri significativi, ci aspetteremmo, per natura, fedeltà. Se abbiamo una storia di abbandoni, perdite, di sofferenze legate a figure che ci hanno lasciati per altri, saremmo orientati alla diffidenza, alla paura di essere nuovamente abbandonati, e di conseguenza alla gelosia morbosa, patologica. 

La gelosia, come altre manifestazioni dell’animo umano, è un fatto fisiologico. Ma la gelosia patologica è spesso la traccia di qualcosa di arcaico, di un conto in sospeso con il destino, di una fiducia mal riposta, e che ci ha feriti. Il più delle volte non riguarda la persona verso cui la proviamo, ma qualcosa e qualcuno che viene da più lontano. Anche per questo andrebbe presa seriamente, perché rischia di rovinare tutte le belle relazioni cha abbiamo costruito. E portandoci a confermare, di conseguenza, le diffidenze di cui siamo vittime. 

Friend zone: cosa fare per non finirci.

Friend zone, o (friendzone), zona dell’amico, è la situazione in cui, in una coppia di amici, uno dei due è segretamente innamorato dell’altro, o comunque fortemente attratto, ma non può esprimere i priori sentimenti, perché sente di essere visto, per l’appunto, “soltanto” come un amico. 

Friendzonare qualcuno, quindi, significa inserirlo in quella lista di persone che non ci sentiamo di definire in altro modo che come dei buoni amici. 

Errata comunicazione

Nel film Yesterday di Danny Boyle (2019), Jack Malik è un cantautore di scarsa fortuna, che suona nei pub e ai festival di terza categoria, che si tengono nella sua città natale. Nessuno crede in lui come artista, per lo meno fino a quando non trova il modo di riproporre i classici dei Beatles, che nel frattempo il resto del mondo ha dimenticato. Nessuno, dicevo, crede in Jack, tranne la sua manager, autista, amica e confidente Ellie Appleton. Alla festa di addio, con amici e parenti, prima della partenza di Jack per Hollywood, Danny Boyle piazza una scena cruciale: Ellie, in lacrime, confessa di essere da sempre innamorata di Jack, e gli chiede come sia stato possibile che l’abbia inserita nella “colonna sbagliata”, ossia nella colonna “amica”, anziché nella colonna “fidanzata”. Jack trasecola, e scopre di avere friendzonato Ellie, ma il guaio peggiore è che non si è mai accorto di averlo fatto.

Osservando la coppia di questi due ragazzi, possiamo chiederci se la relazione che culmina con la friend zone non abbia delle caratteristiche tipiche, ricorrenti, che possono essere osservate in anticipo.  

Anzitutto direi di distinguere la friend zone in due macro categorie: quella in cui si viene friendzonati, e quella in cui, invece, si finisce per friendzonare qualcun altro.  

Ora, dobbiamo ammettere che la prima motivazione in assoluto per cui si viene visti come semplici amici sia lo scarso interesse. Se non suscitiamo attrazione, se l’altra persona non si sente attratta da noi, sarà molto più facile che ci veda come amico, e difficilmente riusciremo a conquistarla. 

Una seconda motivazione per cui si finisce in una friend zone, però, riguarda la comunicazione. Se nella vita affettiva ci capita questo spiacevole imprevisto, e soprattutto se ci capita più di una volta, dovremmo chiederci: quale messaggio stiamo inviando? L’errore di comunicazione è più diffuso di quanto si creda, ed è sovente collegato all’insicurezza, o alla paura di essere respinti. In questi casi, talvolta, si tende a mantenere un profilo più basso e distaccato di quanto si vorrebbe, per paura che l’altro capisca il nostro interesse e ci allontani. Il caso di Ellie e Jack, nel film Yesterday, può rientrare in questa seconda casistica. E infatti il ragazzo si innamora immediatamente della sua ex manager, non appena scopre i veri sentimenti di lei. 

L’assioma di Miss Liceo

L’altra grande categoria è quella in cui si mette qualcuno nella friend zone, salvo poi pentirsene amaramente. Potremmo definire questa sventurata eventualità come l’assioma di Miss Liceo. Sappiamo tutti che l’alunna, o l’alunno, più in vista della scuola, raramente si fidanza con il compagno di banco, il ragazzino affidabile e premuroso, sempre gentile, disponibile ad aiutare nei compiti. Questa situazione, che certamente può essere indotta da opportunismo, non raramente nasconde, invece, qualcosa di più profondo. Miss Liceo (Mr Liceo) ha un potere enorme su tutti i compagni della scuola. È popolare, fa tendenza, ma soprattutto non ha veri nemici, nessuno contraddice le sue mosse. 

Immaginiamo Miss Liceo innamorata del compagno di banco: cosa resterebbe della sua popolarità? Dovendo scegliere tra il potere e l’amore, sarebbe indotta a friendzonare l’amico? L’assioma di Miss Liceo, che per la verità si ripete anche in ufficio, in palestra, in spiaggia, e via dicendo, ci suggerisce una riflessione molto importante su noi stessi. Quando siamo noi a friendzonare qualcuno, potremmo chiederci: per quale motivo questa ragazza/ragazzo, non ci piace abbastanza? Siamo davvero sicuri che non sarebbe un successo accettare le sue avance? E ancora, ma qui ci vuole davvero tanta elasticità mentale: quale tipo di immagine interiore di noi stessi metterebbe in crisi, allacciare una relazione con questa persona? 

Liguria: vademecum per foresti

Riconosci un foresto in Liguria da come si muove, perché pare un babbano a Hogwarts. “Dove sono capitato?” sembra chiedersi ad ogni angolo. Lo vedi che si sforza di mostrare disinvoltura, ma è profondamente a disagio. “Sono tutti matti, o mi sfugge qualcosa?”. Il foresto (forestiero, in dialetto ligure) arriva in Liguria con delle aspettative irrealistiche, che logicamente finiranno illuse. L’aspetto paradossale di questo suo atteggiamento, è che raramente farebbe gli stessi errori visitando, poniamo, Venezia, Otranto o Erice. Il turista milanese, o torinese, ad esempio, in patria è abituato a parcheggiare lontano dallo stadio, dall’università o dal ristorante. Anzi, ha imparato a usare la mobilità dolce, i mezzi pubblici, persino a muoversi a piedi. Quando arriva in Liguria, invece, dà in escandescenze perché non trova parcheggio davanti alla spiaggia. O per altre cose di questo tipo. 

Ho pensato, così, a questo piccolo vademecum per foresti: per dire che anche in Liguria è necessario entrare in punta di piedi, con garbo e meraviglia. E non perché sia casa di altri, cosa che già basterebbe, ma perché è un territorio profondamente diverso da quello da cui proveniamo.

In Liguria non c’è solo il mare

La prima cosa ostica da imparare, per il foresto, è che in Liguria non c’è solo il mare. Chi arriva dalla città, sia chiaro, sogna la spiaggia. Ma soffermarsi sul mare, in Liguria, è come salire su una Ferrari e fissare il volante. Prendiamo un babbano che arrivasse a Hogwarts. Appena giunto vedrebbe anzitutto il castello, imponente e misterioso, e un sacco di gente strana aggirarsi nei suoi paraggi. Ma se non sapesse nulla del Mondo Magico, del Lago Nero, o non avesse mai sentito nominare Harry Potter, ne avrebbe certamente un’esperienza parziale, vuota, se non del tutto deludente. Allo stesso modo, vivere la Liguria non è unicamente frequentare le sue spiagge: il rapporto con il mare è solo una parte della cultura ligure. Direi di più, è una parte dell’identità profonda dei suoi abitanti. Che infatti continuiamo a non capire, se confondiamo per il tutto, cioè che è solamente uno dei loro confini. 

Il cosiddetto entroterra è ricco di sorprese di ogni tipo, soprattutto dal punto di vista culturale, artistico ed enogastronomico. Dalle grotte carsiche ai musei paleontologici, dai campi da golf a borghi infestati dalle streghe, per non dire dell’antica cultura dell’ulivo e dell’olio. Tutti questi sono aspetti che determinano la personalità, l’identità della Liguria, e di conseguenza anche dei suoi abitanti. 

E poi c’è la grande storia delle invasioni saracene, su cui torneremo fra poco. Ignorare questa pagina drammatica della storia, è il peggior delitto che possa compiere il foresto verso questa regione.  

I liguri detestano il caos

Il foresto milanese, o torinese, è per sua natura abituato a muoversi nel traffico, nella ressa, nel caos. Noi viviamo in circoscrizioni di 150 mila abitanti: ci spintoniamo per entrare in metropolitana, arriviamo alle mani per un parcheggio, facciamo la fila alla domenica per entrare in pasticceria. Tutto questo è sconosciuto a chi vive in miti cittadine di tre/quattromila abitanti. In alcuni paesi di Liguria ci si conosce tutti, per le strade non c’è mai nessuno, e quando vedi un’auto bianca laggiù, svoltare in una certa direzione, hai già capito che si tratta di Tizio che va a trovare Caio. 

Non è corretto dire che i liguri non siano accoglienti: piuttosto, detestano il caos. Immaginate la vostra città gonfiarsi di dieci volte (queste le proporzioni del turismo secondo le autorità) per due mesi all’anno: diciamo una Milano con trenta milioni di persone. La Liguria viene invasa in un periodo in cui fa caldo, e a tutti darebbe fastidio avere addosso gente sconosciuta, per giunta piena di pretese. 

Una di queste pretese, direi incredibile, è quella del parcheggio. Perché anche questa è una bella discrasia psicologica. Il turista pretende di arrivare in una città di poche migliaia di anime, e trovare parcheggi multipiano in riva al mare, adibiti per migliaia di automobili. E non solo una volta la giorno. Al mattino, per andare in spiaggia. Al pomeriggio, per l’aperitivo. E anche alla sera, per il gelato sul dondolo vista mare, come se anche tutti gli altri non avessero lo stesso desiderio. 

Per tornare all’esempio di Hogwarts, pensiamo al babbano, che abituato allo stadio si trovi, suo malgrado, ad una partita di Quiddich. Nel comprendere le situazioni, la cornice mentale è estremamente importante. Se qualcosa avviene in una cornice diversa dalla nostra, stentiamo a comprenderla. Come il babbano non ci capirebbe niente, non ci si raccapezzerebbe, allo stesso modo il foresto in Liguria stenta a comprendere il rapporto con gli spazi, che per lui è molto diverso.   

Inoltre c’è un aspetto culturale profondo, che nessuno tiene in debito conto. Alcuni borghi di Liguria sono stati vittime, nella storia, di svariate invasioni da parte dei corsari turchi e saraceni. Arrivavano di notte dal mare, mettevano a ferro e fuoco la città, rapivano gli uomini valorosi e le ragazze più giovani. Qualcuno può immaginare il terrore in cui vivevano le popolazioni colpite da simili episodi? I racconti, le leggende, che questi eventi hanno originato? I rapporti difficili con Genova, che avrebbe dovuto difenderli e non l’ha fatto, e tutta la coda di odio che possiamo soltanto supporre. Avere nella propria storia traumi di questo tipo, deve rendere piuttosto sensibili alle invasioni, per quanto benevole possano essere. 

I paguri non sono d’allevamento

Generazioni di bambini foresti sono cresciute con la pesca sportiva nelle acque liguri. 

Orate, cernie, scorfani, ma anche granchi, polpi, stelle di mare, e, naturalmente, paguri. Ora, avete mai visto un babbano a Hogwarts staccare un ritratto parlante per portarselo a casa? Ecco, la sensazione è un po’ la stessa. I quadri parlanti della saga Harry Potter non sono appesi ai muri della scuola per compiacere i visitatori, ma hanno una precisa ragione. Inoltre, nessuno ha mai lontanamente pensato di potarseli via. Allo stesso modo, la fauna marina della Liguria non è d’allevamento, non serve per aiutare il turista a fare colpo sulle ragazze. 

La pesca sportiva non è proibita, sia chiaro, l’hanno praticata un po’ tutti. Ma anche questo elemento del turismo andrebbe modulato ai volumi di afflusso. Perché la pesca massiva può portare a sbilanciamenti nelle popolazioni ittiche. Oggi siamo più consapevoli in tutte le cose che facciamo, dai trasporti all’alimentazione, dall’uso delle plastiche al consumo dell’acqua. Così anche il turismo può diventare più “responsabile”, basta provare a riflettere su comportamenti che un tempo non avevano nessuna ragione di essere messi in dubbio.  

Ecco, questo può essere un breve vademecum per affrontare la Liguria in maniera più ragionevole. E uscire da quella goffaggine tipica che prende il babbano, quando scende dall’omonimo Espresso, e raggiunge il grande castello di Hogwarts. 

Tiki-Taka e autolesionismo

Hanno fatto il giro del mondo le immagini di Pep Guardiola, allenatore del Manchester City, e guru mondiale del Tiki-Taka, vittima di piccoli gesti autolesivi

I benpensanti hanno subito accusato il famoso personaggio di non essere pago della sua fortuna, ma si sa, e proprio qui vediamo che non è una frase fatta, i soldi, di per sé, non danno la felicità. Nell’impossibilità di commentare i comportamenti e la psiche di Guardiola, perché non è mio paziente, e anche nel caso non avrei certo potuto farlo, vorrei però fare alcune riflessioni sulla rabbia, l’aggressività e l’autolesionismo

Aggressività passiva

Il famoso allenatore ci racconta una cosa molto chiaramente. A tutti i livelli è bene sviluppare una buona consapevolezza della nostra parte oscura, e trovare vie adeguate di espressione e manifestazione di rabbia e aggressività. Perché l’autolesionismo è una modalità estrema di espressione di queste emozioni, e soprattuto individua in noi stessi il colpevole di qualcosa di terribile. Qualcosa per cui meritiamo una punizione. 

Ognuno di noi ha una certa quota di arrabbiature quotidiane, e il modo in cui le superiamo fa la differenza sull’andamento della nostra giornata. 

Una modalità poco conosciuta di espressione della rabbia è l’aggressività passiva. Ci sono situazioni in cui siamo contenuti, bloccati, ma gettiamo saette con gli occhi, o con battute al veleno. Oppure ancora con sarcasmo pungente, colpendo persone che non hanno nessuna colpa. L’aggressività passiva è un modo molto disadattativo di superare la tensione. 

Autolesionismo

Un modo ancora peggiore, è l’autolesionismo. Colpire noi stessi significa anzitutto riconoscere di non essere adeguati alla sfida che stiamo affrontando, perché una sfida non ci può destabilizzare così profondamente. Ma soprattutto significa ammettere di essere stati talmente cattivi da meritare una punizione. 

Pep Guardiola ha confessato un piccolo gesto autolesivo, quello di ferirsi lievemente la fronte con le unghie, per sua fortuna è al riparo da gesti più eclatanti. Ma alcuni individui arrivano a graffiarsi violentemente il viso, a procurarsi tagli sulle braccia, a sfidare la morte in gare pericolose, o anche di peggio. Ciascuno di noi deve avere un buon rapporto con la sua rabbia, viverla ed esprimerla in termini adeguati e non distruttivi. In fin dei conti la rabbia ci racconta qualcosa di noi stessi, ci dice che siamo insoddisfatti, e capire dove e come lo siamo, non è cosa da poco. 

Sadismo e Tiki-Taka

Resta un altro step, quello sportivo. Qualcuno mi ha persino chiesto se il Tiki-Taka non sia, in fondo, una modalità di gioco passivo aggressiva, in cui l’avversario viene sfinito, quasi deriso, senza una vera logica razionale, una sorta di perversione sadica? È una domanda a cui non so rispondere, perché esula dall’ambito della psicologia sportiva. 

Posso dire, invece, che ogni forma di arte, ogni filosofia, ogni concezione estetica assomigliano intimamente a chi le ha ideate. E sono amate anche da chi, in qualche modo ci si rivede. Ma di questo parleremo in un’altra sede. 

I grandi della nazionale di calcio: Rino Gattuso.

I campioni dello sport non sono tutti uguali. Alcuni sono amati per le loro gesta, altri per quello che lasciano nel pubblico. Gennaro Gattuso, detto Rino, entrambe le cose, per questo è certamente uno dei più grandi campioni del nostro sport, una vera icona della nazionale italiana di calcio.

Uomo del Sud

Atleta eccezionale, e uomo straordinario, Rino Gattuso incarna almeno due grandi archetipi della cultura popolare italiana. Anzitutto è l’uomo del sud che ha fatto fortuna al nord. Benché l’Italia sia un Paese unito da anni, in cui gli squilibri geografici vanno diminuendo, questa continua ad essere una grande allegoria del successo e della scalata sociale.

Rino è un uomo che, nonostante la lunga carriera a Milano, non ha mai perso l’accento calabrese, e porta sempre la sua Calabria con sé. Nei modi di fare, negli sguardi ai giornalisti, nelle risposte a certi dirigenti, Rino continua ad essere il ragazzo di un tempo, anche se mai fuori alle righe. Per lui vale certamente la classica espressione del cinema: “Il successo, non lo ha cambiato”. La pancia del tifoso lo sente, il pubblico vede in Gattuso i valori dello sport come passione genuina, come sfida sfrontata alle difficoltà quotidiane, come impegno a migliorarsi ogni giorno, non importa quale successo hai conseguito ieri.

Ringhio

Il secondo archetipo sta in quel soprannome: “Ringhio”. Non tutti gli campioni della nazionale di calcio hanno avuto la fortuna di essere identificati con la grinta e la combattività, come Rino Gattuso. Alcuni, anzi, sono stati percepiti come presuntuosi, altri come poco attaccati alla maglia, e così via. “Ringhio” definisce una caratteristica temperamentale del calciatore, che è anche dell’uomo: è la garanzia che “da qui non si passa, se non sul mio cadavere”. E cosa sogna di più il tifoso, se non vedere nel suo idolo le proprie stesse fatiche quotidiane, le proprie difficoltà di sopravvivere in un mondo feroce, la propria condanna a spendere tutto se stesso ad ogni nuova sfida?

E poi aggiungiamo un altro elemento, Rino Gattuso per primo ha alimentato questo mito, con la sua modestia (anche questa da fuoriclasse). Egli ha sempre detto di come, essendo inferiore agli altri tecnicamente, ha dovuto allenarsi più di loro, per poter competere alla pari. Ma davvero pensiamo che Rino Gattuso fosse inferiore ad altri? Un campione che ha vinto, tra l’altro, due Champions League e una Coppa del Mondo, era davvero inferiore a qualcun altro? O forse in questa modestia, in questa perseveranza, per l’appunto in questo soprannome, non sta racchiusa tutta la sua grandezza?

Questi sono alcuni aspetti del Gattuso “pubblico” che lo hanno reso grande agli occhi del pubblico. Certamente ce ne saranno altri che definiscono il Rino “privato”, ai quali noi non abbiamo accesso. Possiamo però dire, senza ombra di dubbio, che è stato fortunato chi ha potuto incontralo e conoscerlo. Probabilmente Ringhio avrà dispensato sorprese anche alle persone che hanno condiviso con lui i momenti più difficile della sua vita.

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