Tiki-Taka e autolesionismo

Hanno fatto il giro del mondo le immagini di Pep Guardiola, allenatore del Manchester City, e guru mondiale del Tiki-Taka, vittima di piccoli gesti autolesivi

I benpensanti hanno subito accusato il famoso personaggio di non essere pago della sua fortuna, ma si sa, e proprio qui vediamo che non è una frase fatta, i soldi, di per sé, non danno la felicità. Nell’impossibilità di commentare i comportamenti e la psiche di Guardiola, perché non è mio paziente, e anche nel caso non avrei certo potuto farlo, vorrei però fare alcune riflessioni sulla rabbia, l’aggressività e l’autolesionismo

Aggressività passiva

Il famoso allenatore ci racconta una cosa molto chiaramente. A tutti i livelli è bene sviluppare una buona consapevolezza della nostra parte oscura, e trovare vie adeguate di espressione e manifestazione di rabbia e aggressività. Perché l’autolesionismo è una modalità estrema di espressione di queste emozioni, e soprattuto individua in noi stessi il colpevole di qualcosa di terribile. Qualcosa per cui meritiamo una punizione. 

Ognuno di noi ha una certa quota di arrabbiature quotidiane, e il modo in cui le superiamo fa la differenza sull’andamento della nostra giornata. 

Una modalità poco conosciuta di espressione della rabbia è l’aggressività passiva. Ci sono situazioni in cui siamo contenuti, bloccati, ma gettiamo saette con gli occhi, o con battute al veleno. Oppure ancora con sarcasmo pungente, colpendo persone che non hanno nessuna colpa. L’aggressività passiva è un modo molto disadattativo di superare la tensione. 

Autolesionismo

Un modo ancora peggiore, è l’autolesionismo. Colpire noi stessi significa anzitutto riconoscere di non essere adeguati alla sfida che stiamo affrontando, perché una sfida non ci può destabilizzare così profondamente. Ma soprattutto significa ammettere di essere stati talmente cattivi da meritare una punizione. 

Pep Guardiola ha confessato un piccolo gesto autolesivo, quello di ferirsi lievemente la fronte con le unghie, per sua fortuna è al riparo da gesti più eclatanti. Ma alcuni individui arrivano a graffiarsi violentemente il viso, a procurarsi tagli sulle braccia, a sfidare la morte in gare pericolose, o anche di peggio. Ciascuno di noi deve avere un buon rapporto con la sua rabbia, viverla ed esprimerla in termini adeguati e non distruttivi. In fin dei conti la rabbia ci racconta qualcosa di noi stessi, ci dice che siamo insoddisfatti, e capire dove e come lo siamo, non è cosa da poco. 

Sadismo e Tiki-Taka

Resta un altro step, quello sportivo. Qualcuno mi ha persino chiesto se il Tiki-Taka non sia, in fondo, una modalità di gioco passivo aggressiva, in cui l’avversario viene sfinito, quasi deriso, senza una vera logica razionale, una sorta di perversione sadica? È una domanda a cui non so rispondere, perché esula dall’ambito della psicologia sportiva. 

Posso dire, invece, che ogni forma di arte, ogni filosofia, ogni concezione estetica assomigliano intimamente a chi le ha ideate. E sono amate anche da chi, in qualche modo ci si rivede. Ma di questo parleremo in un’altra sede. 

I grandi della nazionale di calcio: Rino Gattuso.

I campioni dello sport non sono tutti uguali. Alcuni sono amati per le loro gesta, altri per quello che lasciano nel pubblico. Gennaro Gattuso, detto Rino, entrambe le cose, per questo è certamente uno dei più grandi campioni del nostro sport, una vera icona della nazionale italiana di calcio.

Uomo del Sud

Atleta eccezionale, e uomo straordinario, Rino Gattuso incarna almeno due grandi archetipi della cultura popolare italiana. Anzitutto è l’uomo del sud che ha fatto fortuna al nord. Benché l’Italia sia un Paese unito da anni, in cui gli squilibri geografici vanno diminuendo, questa continua ad essere una grande allegoria del successo e della scalata sociale.

Rino è un uomo che, nonostante la lunga carriera a Milano, non ha mai perso l’accento calabrese, e porta sempre la sua Calabria con sé. Nei modi di fare, negli sguardi ai giornalisti, nelle risposte a certi dirigenti, Rino continua ad essere il ragazzo di un tempo, anche se mai fuori alle righe. Per lui vale certamente la classica espressione del cinema: “Il successo, non lo ha cambiato”. La pancia del tifoso lo sente, il pubblico vede in Gattuso i valori dello sport come passione genuina, come sfida sfrontata alle difficoltà quotidiane, come impegno a migliorarsi ogni giorno, non importa quale successo hai conseguito ieri.

Ringhio

Il secondo archetipo sta in quel soprannome: “Ringhio”. Non tutti gli campioni della nazionale di calcio hanno avuto la fortuna di essere identificati con la grinta e la combattività, come Rino Gattuso. Alcuni, anzi, sono stati percepiti come presuntuosi, altri come poco attaccati alla maglia, e così via. “Ringhio” definisce una caratteristica temperamentale del calciatore, che è anche dell’uomo: è la garanzia che “da qui non si passa, se non sul mio cadavere”. E cosa sogna di più il tifoso, se non vedere nel suo idolo le proprie stesse fatiche quotidiane, le proprie difficoltà di sopravvivere in un mondo feroce, la propria condanna a spendere tutto se stesso ad ogni nuova sfida?

E poi aggiungiamo un altro elemento, Rino Gattuso per primo ha alimentato questo mito, con la sua modestia (anche questa da fuoriclasse). Egli ha sempre detto di come, essendo inferiore agli altri tecnicamente, ha dovuto allenarsi più di loro, per poter competere alla pari. Ma davvero pensiamo che Rino Gattuso fosse inferiore ad altri? Un campione che ha vinto, tra l’altro, due Champions League e una Coppa del Mondo, era davvero inferiore a qualcun altro? O forse in questa modestia, in questa perseveranza, per l’appunto in questo soprannome, non sta racchiusa tutta la sua grandezza?

Questi sono alcuni aspetti del Gattuso “pubblico” che lo hanno reso grande agli occhi del pubblico. Certamente ce ne saranno altri che definiscono il Rino “privato”, ai quali noi non abbiamo accesso. Possiamo però dire, senza ombra di dubbio, che è stato fortunato chi ha potuto incontralo e conoscerlo. Probabilmente Ringhio avrà dispensato sorprese anche alle persone che hanno condiviso con lui i momenti più difficile della sua vita.

Adolescenti in vacanza. Religione, sacro, spiritualità.

Durante le vacanze gli adolescenti restano lontani da percorsi di crescita spirituale, religiosa, o da agenti di formazione interiore. Ma questo è un errore. 

Le domande sul senso ultimo dell’esistenza sono più frequenti nell’adolescenza che nella vita adulta: l’adulto ha, infatti, una vita spirituale più stabile e matura del ragazzo, il quale, invece, è per sua natura inquieto, tormentato, dubbioso.

La crescita spirituale 

La crescita spirituale, quale che sia, è per l’adolescente un elemento essenziale della sua formazione, e va sostenuta e incoraggiata. Essa è elemento essenziale per due ordini di motivi. Da un lato, avere convinzioni religiose strutturate (mono o politeistiche, buddiste, atee, agnostiche ecc…) aiuta il ragazzo a orientarsi nel mondo più rapidamente, e a sviluppare buoni livelli di fiducia in sé e negli altri. Questo ordine di motivi interessa i responsabili dei percorsi spirituali, non sono io a dovervi fare riferimento, ma dal mio punto di vista posso dire che è molto importante. 

Dall’altro lato, un ordine di motivi per me molto più interessante, è quello che definisce il sacro e il rapporto con ciò che è idealizzato o inviolabile. Non mi riferisco qui al superamento del paterno, che definirò in altra sede, quanto alla definizione interiore, mentale, di limiti legati, sostanzialmente, all’umano. Il sacro, per l’appunto, come qualcosa che viene idealizzato, rispettato, in quanto al di sopra della nostra immediata disponibilità.

Il sacro

Sacro, in adolescenza, può essere il rapporto con il gruppo di pari, il senso di appartenenza ad una scuola, e alla sua storia pluriennale, oppure l’identificarsi con una squadra di calcio. Certi giovani imparano il rispetto per gli altri incontrando coetanei allo stadio, facendo scambi di sciarpe, di maglie o gagliardetti. La passione, il rispetto, la fede quasi religiosa, che si mette nel seguire una squadra di calcio, apre molti all’incontro con l’altro, visto non come nemico, ma come uno che ha la stessa nostra passione, ma per colori diversi. Ancora, ci sono adolescenti che collezionano le divise di sportivi famosi, nell’idealizzazione quasi mistica delle loro imprese: anche questo è un modo di costruire nella mente un livello di inviolabilità, di rispetto superiore, che per l’appunto può essere definito, in senso lato, come sacro. 

In età adulta, il senso del sacro può svilupparsi, per esempio, nel rispetto per le istituzioni politiche, per i familiari svantaggiati, o per l’importanza e la nobiltà del lavoro. Un altro esempio molto importante di mancanza di senso del sacro, è il femminicidio. Vediamo continuamente adulti che fanno stalking, o violenza, alle loro compagne, perché chiedono libertà. La difficoltà di lasciare andare, in questi casi, si mescola con l’incapacità di riconoscere qualcosa di sacro, di insuperabile, come, appunto, il fare del male a qualcuno che vuole lasciarci.  

Il pensiero magico

Un ultimo cenno credo lo meriti quello che possiamo chiamare pensiero magico, o paranoico, o proto psicotico. Affrontare percorsi di crescita spirituale, in adolescenza, ha anche il senso di abituare il ragazzo a fare ragionamenti sulle cause ultime delle cose. Sovente, quando non sappiamo spiegarci un fenomeno, siamo tentati di gridare al complotto. L’appartenenza religiosa, e più in generale la spiritualità, ci aiutano a dare un senso a ciò che apparentemente non ne ha, a confrontare ipotesi, e a scartare le spiegazioni che meno si adattano al sistema di valori che abbiamo interiorizzato. 

Nell’età adulta compiamo queste operazioni in maniera automatica, istantanea, ma è nell’adolescenza che le impariamo, a partire dalle piccole/grandi sfide di tutti i giorni. Ecco, quindi, un altro motivo per favorire, e non ostacolare, l’incontro degli adolescenti con le religioni e la spiritualità, anche nei periodi di cambiamento della routine, come ad esempio durante le vacanze estive.     

Come sostenere il malato di cancro?

Il(/la) paziente oncologico compie in solitaria un viaggio (il più delle volte) a senso unico. Egli (ella) sa, intimamente, che quello che sta succedendo dentro, è fuori dal suo controllo, e dal controllo di quanti lo circondano. Sa, intimamente, che c’è soltanto un finale plausibile con la storia che sta vivendo, finale che tutti (fortunatamente) negano, ma che è il suo primo pensiero del mattino, e l’ultimo della sera. 

In cerca di un testimone 

L’errore più grande che in genere si fa (in buonafede) con questo paziente, è considerare la sua malattia come quelle a diagnosi fausta. Sosteniamo un amico con l’influenza dicendo “coraggio, vedrai che fra qualche giorno starai meglio”, e in effetti, poi, è quello che accade. Il paziente oncologico, invece, vede il suo quadro peggiorare nonostante le rassicurazioni, fino a quando non le ascolta più. 

Il (/la) malato di cancro necessita anzitutto di un testimone. Egli (Ella) ha pensieri che non condivide con nessuno, vede cose succedergli intorno, ha sensazioni, percezioni, che tiene esclusivamente per sé. Come sono i luoghi della cura? La stanza delle flebo, il lettino, quanto dura la terapia? Parla con gli altri malati del centro? Cosa si dicono? 

Quanto sarebbe importante non sentirsi solo/a, in quella stanza, in quel corridoio, dentro a quella RNM? Ossia, poter riportare a qualcuno i pensieri che lo/a accompagnano in quei momenti? Lo stesso vale per tutte le attività che quotidianamente deve affrontare, molte delle quali assai spiacevoli o fisicamente dolorose. 

Non allontanare il paziente oncologico

Il mondo interno del paziente oncologico, poi, è costellato da mostri. Quando chiediamo “come stai?”, lo facciamo in genere nella speranza di sentirci dire “va meglio”, ossia come avviene con le malattie a diagnosi fausta. Il/la malato di cancro, invece, non capisce cosa non ci sia chiaro della sua situazione, e non risponde. Ecco che, nuovamente, più che fare domande che rassicurino noi, dovremmo permettere a lui/lei di raccontare cos’ha dentro. Per esempio cosa lo preoccupa, quali sono i suoi rimpianti, cosa avrebbe voluto fare, ecc… So che è difficile, ma c’è la tendenza a rispondere ad un dolore, allontanandolo. Allontanare un paziente oncologico, però, soprattutto se è un familiare, è cosa penosa e fonte di sensi di colpa. 

Parleremo in altre occasioni di altri aspetti relativi a questa malattia. Del corpo, per esempio, e delle sue trasformazioni. Dei familiari, che oltretutto devono fare anche da caregiver. Dei bilanci, o dei drammatici “passaggi di consegne”, che talvolta il malato attua, in fasi molto difficili del suo decorso. Oggi mi premeva ricordare la funzione del testimone. Perché se talvolta fatichiamo ad andare in cantina da soli, pensiamo a quanto sia difficile attraversare in solitaria una fase di vita così complessa, come quella che segue questo tipo di diagnosi. Un’odissea, che il paziente spera, prima o poi, di poter raccontare a qualcuno. 

Adolescenti in vacanza. L’incontro con droghe e alcol.

Non è raro che gli adolescenti facciano il primo incontro con alcol o droghe durante le vacanze estive. Nella compagnia della spiaggia, tra i turisti delle escursioni in montagna, o tra il personale dell’hotel, ecc… c’è sempre un ragazzo più grande che ogni tanto alza il gomito, o fuma qualcosa di diverso dalle sigarette. L’adolescente (e chi lo accompagna) si trova, così, a dover prima registrare, e poi gestire, l’esperienza della trasgressione attraverso le sostanze stupefacenti

Il primo aspetto da tenere in conto quando si parla di droghe e alcol, e direi, a questo livello, il più determinante, è quello del rapporto con il gruppo. L’adolescente è alla perenne ricerca di un espediente per fare breccia nel cuore dei suoi pari, nonché nel cuore di qualcuno in particolare tra di loro. Per questo è portato a prendere e lasciare rapidamente una grande quantità di iniziative, (leggere libri importanti, giocare a tennis, studiare lingue difficili) che raramente lasciano il segno. 

L’incontro con le droghe, invece, può lasciare un segno indelebile, per questo è importate conoscerlo, ed essere pronti ad affrontarlo, perché possa restare nell’ambito dei tentativi, delle prove, che si fanno, per quanto non a ragione. 

Il rapporto con il gruppo dei pari è un importante rimando su quanto piacciamo agli altri. Così, per esempio, se in una compagnia tutti hanno un tatuaggio, e insistono affinché chi non ne ha, provi a farne uno, questi potrebbe lasciarsi convincere, per il solo obiettivo di sentirsi accettato. Allo stesso modo se un gruppo di amici, ad una certa ora della sera, ordina una seconda birra, o gira una sigaretta con la cartina di riso, anche chi non ne avrebbe voglia potrebbe farsi trascinare, per non sfigurare. 

Quanto è importante essere accettati da quella, o quelle persone? Che peso avrebbero nella nostra vita domani, una volta terminate le vacanze? E tra loro, quella ragazza o quel ragazzo che a noi piace tanto: è così importante il suo giudizio? Crescere è un fatto individuale, non c’è una scuola che lo insegni, se non quella della vita quotidiana. Evitare gli errori è impossibile, specie in ambito di droghe e alcol. Ma saperli riconoscere e analizzare, e possibilmente fare in modo di non ripeterli, è una responsabilità assolutamente individuale. 

Adolescenti in vacanza. L’amore estivo come prova dell’esistenza di sé.

Una delle sfide più difficili per gli adolescenti durante le vacanze è sopravvivere all’amore estivo

L’innamoramento estivo ha un carattere di coinvolgimento totalizzante, che è tanto più grande e ingestibile, quanto più l’altra persona proviene da una città distante. Invaghirsi di qualcuno che vive lontano ha una doppia funzione, assolutamente vitale per l’individuo. Anzitutto mette al riparo da possibili malintesi circa le aspettative, (se siamo lontani va da sé – più o meno – che alla fine della vacanza dovrà finire anche questo nostro amore). E poi, di conseguenza, questo consente di sperimentare senza paure un amore infinito, idealizzato, assoluto. Non è raro che i ragazzi perdano il sonno pensando alla persona amata, che fantastichino per ore scrivendo messaggi che mai invieranno, e che anzi coprano gli amici di messaggi vocali, in cui cercano di spiegare (anzitutto a loro stessi?), la dimensione della sensazione da cui sono sovrastati. 

Così l’amore estivo, con la sua certezza (sostanziale) di non superare certi limiti temporali, è una grande palestra di esistenza di sé. L’adolescente scopre, nello sguardo, e nella relazione con l’altro, che la propria esistenza va oltre il qui e ora. Da un lato sperimenta dal vivo quell’amore totale di cui ha sentito parlare, o di cui ha forse anche parlato lui stesso, quando ha dovuto spiegare cosa intende per “amare”. Dall’altro lato, cosa tutt’altro che secondaria, sperimenta la capacità di strutturare il mondo a seconda delle sue intenzioni. (Se devo frequentare una persona lontana dovrò parlare con i miei genitori, prendere un treno al sabato pomeriggio, rientrare tardi, fare i compiti dove e quando possibile ecc…). Nonché fare i conti con il pensiero onnipotente.  

Ecco alcune delle ragioni per cui l’amore estivo è la cosa che rimane di più di una vacanza. Perché è come guardarsi allo specchio, ma uno specchio fatto dagli occhi dell’altra persona. E riconoscersi per la prima volta nell’amore dell’altro, è una cosa che non ha prezzo. 

La coppia infedele. Perché si tradisce? Si può prevenire il tradimento? Perché alcune volte l’infedeltà spacca la coppia, altre volte no? 

L’ampiezza del fenomeno impone di trattare l’infedeltà di coppia come un fatto all’ordine del giorno, quasi fisiologico. Le coppie in cui uno, o entrambi, i partner attuano forme di tradimento, infatti, variano dal cinquanta al settanta per cento. E non è realistico, pertanto, trattare come patologico un fenomeno così diffuso.

Competizione sessuale 

La nostra vita di specie è basata (Darwin) sulla competizione sessuale. Posto che questo aspetto andrebbe fortemente ripensato, nell’ambito di quello che chiamo la rifondazione dell’Umanesimo, va da sé che di tanto in tanto, pur all’interno di una coppia stabile, un individuo abbia la tentazione di verificare quali sarebbero le sue possibilità di adattamento, in caso di necessità. Del resto la competizione sessuale non deve per forza attuarsi per essere vinta. In alcune specie animali i maschi lottano per la femmina senza arrivare ad un vero scontro, soltanto mostrando la loro aggressività. Allo stesso modo, in un contesto quotidiano, non è detto che sia necessario arrivare al tradimento, per verificare la propria capacità competitiva. Per questo tanti flirt all’ordine del giorno, non arriveranno mai ad un incontro esplicito. 

Detto ciò, va poi segnalato che una delle motivazioni per cui nelle coppie avviene un tradimento è la noia. Occorre dare a questo termine un significato esteso, non banalizzante. Ossia, il comportamento infedele non avviene perché oggi uno non sa cosa fare, si annoia, e va a costruire una relazione clandestina, ma perché la routine, l’abitudine, fa dare tutto per scontato. La dinamica del desiderio, invece, investire l’altro di attese, di piccoli sogni, di progetti, è il contrario del banale, del previsto, del già sperimentato. 

Le coppie a distanza, per esempio, vivono proprio dell’attesa, del fantasticare a occhi aperti l’incontro, del pensare alle cose che si potrebbero fare con l’altra persona, quando la si incontrerà. 

Quando non si è disposti al perdono?

Superare la “noia” in coppia è fatto sempre più difficile perché deve essere voluto da entrambi. Ecco che ci avviciniamo ad un altro aspetto importante. Si può prevenire, oppure no, il tradimento? E perché alcuni tradimenti vengono perdonati, e altri no? La mia esperienza con pazienti in crisi di coppia, mi dice che molto spesso l’infedeltà è la fortuna di una coppia, non la sua condanna. 

Afferma di avere avuto comportamenti infedeli un po’ più del cinquanta per cento degli uomini, e un po’ meno del cinquanta per cento delle donne. Questo significa che molto spesso si viene traditi da qualcuno che si è già tradito, o cercato di fare, in precedenza. Per questo non è detto che entrambi abbiano la determinazione di lavorare per prevenire questa deriva della vita a due, e proprio per questo, soprattutto, non è detto che siano disponibili a perdonarla.  

Grazie al tradimento, infatti, molte volte si ha finalmente la scusa per lasciare l’altra persona, in una coppia ormai alla fine della sua storia. Questi sono i casi in cui l’infedeltà non si può prevenire, né superare. Anzi, sono i casi in cui andrebbe vista con favore, perché offre l’occasione per fare i conti con una vita stanca e abitudinaria. 

Alfredino Rampi: l’Italia nel pozzo di Vermicino

Chi c’era, se lo ricorda. Il 10 giugno del 1981 un bambino di sei anni, Alfredo Rampi, venne inghiottito da un pozzo artesiano a Vermicino, una località vicino Roma. 

Seguirono giorni di grande passione popolare, se ne parlò ovunque, e ci fu anche una lunga diretta tv, che a quei tempi era tutt’altro che scontata. 

L’evento si chiuse il 13 giugno con una tragedia, e quel che rimane di quei giorni è una specie di lutto collettivo, un dispiacere sordo. Credo che molti abbiano pensato che sarebbe potuto capitare a loro, e soprattutto tutti abbiamo immaginato che, con un po’ di fortuna (o di organizzazione) in più, quel bambino si sarebbe potuto salvare. 

La cosa che ci ha commosso di quella vicenda, e che ce la fa ricordare ancora oggi, è la stessa che ci ha fatto amare i grandi romanzi e i colossal senza lieto fine: l’ineluttabilità del destino. Abbiamo grande ammirazione per James Bond, e per la sua grande fortuna, ma amiamo molto di più Scarlett O’Hara, quando di fronte al tramonto trattiene le lacrime, perché domani è un altro giorno. Allo stesso modo rileggiamo Guerra e Pace, pur sapendo che Napoleone non prenderà mai Mosca, perché il destino non è dalla sua parte. Lo stesso vale per Titanic, Edipo re, l’opera dei Beatles, e le altre storie con un finale che non vorresti. Tutti siamo stati vittime di un destino avverso, almeno una volta, ed è proprio per questo che le storie tragiche ci toccano direttamente. Se dopo tanti anni ricordiamo ancora nitidamente la vicenda di Alfredino Rampi, dove eravamo in quei giorni, con chi ne abbiamo parlato, è perché nel pregare per lui, nel sognare di vederlo tornare dai suoi genitori, abbiamo visto il riflesso della nostra vita, delle nostre battaglie, delle nostre speranze. Un bambino a caso, senz’alcuna colpa, preso nelle maglie di una sorte avversa. Sapevamo che il destino non guarda in faccia a nessuno, ma ci abbiamo sperato ugualmente. Per questo Alfredino ci commuove ancora oggi: perché ci ricorda che il lieto fine, in una storia, non dipende da noi. 

Perché la bella della classe non sceglie mai il compagno di banco?

Alcune coppie nascono sulla base di condizionamenti esterni. La bella della classe, per esempio, non guarda mai al suo vicino di banco, che la ama segretamente, ma punta istintivamente al bello dell’altra classe, desiderato da tutte le ragazze della scuola. Le implicazioni di questa tendenza sono fortissime: viene stilata una gerarchia basata sul potere della seduzione, ossia sulla competizione sessuale. 

La coppia male assortita e le affinità elettive

Darwin sarebbe soddisfatto, non c’è dubbio, ma una coppia che nasce sull’esigenza di un riconoscimento esterno, è una coppia male assortita. Per natura avrà vita incerta, travagliata, solitamente breve, e amo distinguerla da un altro tipo di coppia, quella che Goethe definiva delle affinità elettive. Il più delle volte il vicino di banco è proprio il ragazzo di cui la bella della classe si fida di più: è bravo a scuola, è rispettoso, e sa dare buoni consigli. È l’amico perfetto, tanto che, molti anni dopo, è ancora tra i contatti sui social network. Quindi, se il ragazzo appariscente è sparito dagli orizzonti, mentre il vicino di banco, in quegli orizzonti, c’è sempre rimasto, verrebbe da chiedersi: per quale motivo la bella della classe non ha scelto il vicino di banco? 

La questione non è banale, perché un po’ tutti abbiamo fatto una scelta di questo tipo. E c’è di più, è una scelta che, con il passare del tempo, tendiamo a ripetere. Tra gli amici delle vacanze, nei gruppi studio dell’università, e più tardi tra i colleghi di lavoro. C’è sempre una persona di cui istintivamente ci fidiamo, ma con cui mai e poi mai andremmo a cena, e poi c’è la persona con cui andremmo a cena, e non solo, ma che poi perdiamo di vista nel giro di pochi mesi. 

Quanto è importante sedurre?

La cocciutaggine con cui inseguiamo una coppia male assortita, e rifiutiamo una coppia che invece potrebbe funzionare, è la cifra della nostra difficoltà di ignorare l’effetto sociale delle nostre scelte, ossia le ricadute che determinano nell’ambiente in cui ci muoviamo. 

Così ci stiamo avvicinando ad alcuni scomodi interrogativi: preferiamo avere un ruolo sociale di dominio, in cui tutti apprezzano le nostre doti di seduttori, piuttosto che una felice vita di coppia? E se sì, quanto tempo deve passare, prima che decidiamo di prenderne atto? 

Generazione Ultimo. Perché la lotta al narcisismo è la nostra guerra civile.

Fanno discutere le dichiarazioni del cantautore Ultimo, che ha affermato di non avere amici che votino o vadano in chiesa. La cosa non stupisce per nulla, anzi, ad essere precisi, la considerazione può essere estesa anche alle altre generazioni di Italiani, ormai irrimediabilmente risucchiati dal loro egocentrismo. 

Il vuoto di fede, di passione politica, (e aggiungerei anche di interesse per l’arte), tradisce una tendenza inarrestabile al narcisismo individualista, o individualismo narcisista, fate voi. Ci sentiamo sempre più in credito verso tutto e tutti, a cominciare dallo Stato (“non voto perché di quelli non mi fido più”), per finire alla chiesa e alla religiosità (“dopo quello che mi è successo, in chiesa non ci vado”).

Tuttavia la sensazione di averne ingoiate troppe, a ben guardare, è un pretesto per chiuderci in noi stessi. Chiediamo allo Stato di fare di più, di darci di più, di organizzare meglio le nostre vite. Ma non avevamo deciso noi, a suo tempo, di avere un Paese laico e liberale? Il mantra del capitalismo liberale è “meno Stato”, possibile che oggi, che il liberalismo taglia servizi, scuola e sanità pubblica, chiediamo, invece, di averne di più? Oppure i servizi essenziali ci sono, ma cerchiamo una scusa per affermare che per noi, che siamo importanti, gli altri dovrebbero fare di più?

Il rapporto con Dio va più o meno nello stesso modo. Dove origina il vuoto di credibilità, cosa ci aspettiamo che faccia per noi, questo Dio, dove ci ha traditi, al punto che ci siamo offesi? Ovviamente ciascun lettore avrà le proprie ragioni, ma talvolta ho l’impressione che alla base della nostra reazione avversa ci sia un risentimento narcisista, perché “io sono io, e a me certe cose non le si fanno”.

Tra i lettori, chi sentirebbe, in buona coscienza, di poter dare la propria vita per un ideale? O meglio, per cosa daremmo la nostra vita? La mia esperienza quotidiana, e credo sia sovrapponibile a quella di Ultimo, è che nessuno darebbe la propria vita per difendere diritti che non lo riguardino. Cioè, rischierebbe qualcosa soltanto per difendere i propri privilegi (veri o presunti). 

Il narcisismo individualista è il vero nemico del nostro tempo. Dobbiamo combattere una battaglia identitaria e culturale, direi persino ideologica, contro il narcisismo. Come se fosse una guerra civile. Il narcisista inquina i rapporti umani, corrode il senso di appartenenza ad una famiglia, ad un gruppo di amici, ad una comunità. Il narcisista è perennemente in credito verso tutti, che dovrebbero fare di più, perché “io valgo”. 

Ha ragione Ultimo, molti hanno smesso di votare e andare in chiesa. Ma la ragione per cui non lo fanno è talvolta pericolosa, perché muove da una sensazione di lesa maestà. Se individualismo e narcisismo si incontrano, e strutturano un nuovo tipo di soggetto contemporaneo, avremo una collettività di insoddisfatti. Che inoltre denigrano tutto quello che li circonda perché non sufficientemente a loro misura. 

Il mio ultimo libro

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