Guerra, clima, economia. Come sopravvivere al caos?

Abbiamo già definito la condizione attuale, quella che è andata definendosi dopo la pandemia da Covid-19 e la guerra di Ucraina, come la grande frammentazione. Per frammentazione psichica intendiamo la frantumazione della psiche in parti consce e inconsce, che può avvenire in seguito ad un trauma. Nella fattispecie, abbiamo detto di come la nostra opinione sui fatti del mondo sia nella sostanza ambivalente e non definitiva, e di come questa ambivalenza sia il frutto del trauma che ci ha investiti in questa fase storica. Ad esempio, qualcosa dentro di noi ci dice, a tutta prima, che dovremmo stare da una certa parte, e ne siamo assolutamente convinti. Poi, però, dopo averci pensato sù,  cominciamo a non esserne più così sicuri: qualcos’altro ci dice che potremmo stare benissimo anche dall’altra parte. Ecco, servita la frammentazione. 

Frullato di verità e populismo

Lo spezzettamento della verità, direi anzi, il frullato di verità, (come quello che ci viene offerto dai social network), corrisponde al frullato della nostra identità, che infatti è sempre meno definita sotto tanti punti di vista. Avete mai notato che nello sport, pensiamo al calcio, ma non solo, non esistono più i ruoli predefiniti? Oggi si dice che un difensore deve sapere fare anche il centrocampista, che l’attaccante deve avere compiti difensivi, e via dicendo. Vale lo stesso nel tennis, nel ciclismo, e così via. Nel nostro lavoro quotidiano, in cui siamo chiamati a ricoprire diversi ruoli, funziona allo stesso modo, in virtù della frammentazione delle logiche produttive, e di conseguenza delle mansioni operative. 

Il social network è l’emblema del frullato di verità, perché per funzionare ha bisogno di un algoritmo. Se apro un social network, mi appare un elenco di stimoli che in qualche modo confermano le mie preferenze. Ma se, senza volerlo, induco l’algoritmo a propormi un contenuto affine e parzialmente alternativo, oppure è l’algoritmo stesso che decide di gettarmi sabbia negli occhi, il social network mi apparirà come un frullato di contenuti, dal gusto più o meno omogeneo, ma che non assomiglia a nessun elemento conosciuto. Ossia, avrà reso la verità come qualcosa di non afferrabile.  

In questa nebbia, va da sé che il populismo diventi una lanterna. Il populismo è la scomposizione di un teorema in micro vignette, la soluzione di un problema complesso in poche semplici operazioni. 

Dal caos al desiderio

Una soluzione che parta dal basso, invece, e che investa la nebbia nel suo processo di formazione, è quella della rifondazione dell’Umanesimo. Nel discorso che interessa qui, dobbiamo dirci che la fine del desiderio, del sogno e della speranza, è la vera responsabile della disperazione contemporanea. La frammentazione psichica indotta dal trauma socio-politico che ci circonda, e il frullato della verità favorito dalle innovazioni informatiche, non vanno aggrediti con il populismo, ma con la rifondazione dell’Umanesimo. Nella fattispecie, con la rinascita del desiderio

Sappiamo bene di come gli Italiani abbiano smesso di frequentare la chiesa, di andare a votare, e più in generale di credere nel futuro. La disperazione ci circonda a tutti i livelli, e i dati sul consumo di alcol e droghe, non fa che confermare queste considerazioni. C’è inoltre l’elemento della violenza di genere, che nasconde un grave vuoto interiore, per non dire una recrudescenza psicopatologica, a dispetto di letture sociologiche e semplicistiche. 

L’importanza di avere qualcosa in cui credere, non è di valore unicamente spirituale (che non sarebbe comunque poco), ma identitario. Muoversi con una prospettiva metafisica, spirituale, inseguire un ideale, è qualcosa che riempie di significato ogni istante della nostra vita. Avere fiducia nella politica e nella rappresentanza democratica, per essere più espliciti, non consente solo di partecipare alla vita pubblica, fornisce anche una ragione per sperare di cambiare domani ciò che oggi non ci piace. E infatti un elettorato che diserta le urne, perché privo di fiducia nel sistema politico, è un elettorato amareggiato, senza sogni, disperato, preda, di conseguenza di suggestioni e fascinazioni. 

Ecco perché insistiamo sulla necessità di investire in qualcosa che dia significato personale, al di là della corsa individualista all’apparire. Lo sport, l’arte, l’associazionismo, tutto quello che può farci alzare nel cuore della notte per raggiungere un meeting, una biennale, una manifestazione, è un modo per sconfiggere il vuoto interiore, e riempirlo di sogni, ambizioni, significati. In una parola, di desideri.   

Calcio: la svolta narcisistica e la fine del risultato

Il calcio è stato a lungo lo sport più seguito dagli italiani, e per questo osservarne le dinamiche ha sempre aiutato a cogliere alcuni piccoli/grandi cambiamenti nella cultura collettiva del nostro Paese. 

Tiki-Taka: il massaggio tantrico del calcio

Alcuni dati sugli ascolti delle partite dicono che la popolarità di questo sport è in calo rispetto ai decenni scorsi, ma si possono ancora fare delle considerazioni significative, soprattutto riguardo all’atteggiamento mentale con cui il pubblico guarda gli eventi. Abbiamo già detto di come la filosofia Tiki-Taka possa sfociare, quando estremizzata, in un’aggressività passiva, una specie di ostruzionismo rovesciato, dal sapore tantrico, in cui l’obiettivo non sia tanto quello di andare verso la porta, ma di irretire, se non umiliare, l’avversario. 

Un altro aspetto particolarmente inquietante è la svolta narcisistica del calcio contemporaneo. Il narcisismo sta diventando un marchio tipico del nostro tempo, soprattutto se associato all’individualismo, che il modello economico di riferimento ha fatto prevalere, rispetto a tutte le forme di economia dal prefisso “sociale”. 

Il narcisismo, che, come detto, di per sé non è necessariamente patologico, ha, però, quasi sempre a che fare con l’autostima e l’immagine di sé. Tanto più devo pavoneggiarmi, sminuire l’altro, evitarne l’incontro empatico, quanto più, evidentemente, ho paura di scomparire al suo cospetto, di mostrare la mia fragilità, di scoprirmi inferiore.

E il nostro presente, fatto di social network, di like, di tag nei post degli altri, è particolarmente orientato a forme di riconoscimento legate all’apparenza, più che alla sostanza. 

Il risultato non conta

Ora, nel calcio contemporaneo è in atto una svolta filosofico/antropologica. La vittoria, il risultato, il conteggio dei gol fatti, sta perdendo di importanza, a scapito degli schemi, della prestazione, della qualità del gioco espresso. Non è importante vincere, ma essere apprezzati, applauditi, diciamo pure: apparire belli. Come definire questo atteggiamento, se non come narcisismo

La svolta narcisistica è impropria, nello sport (proprio come lo è per un individuo), in quanto le regole, nella pratica, non sono certo cambiate. La vittoria nei tornei dei dilettanti e dei professionisti, nelle gare nazionali e internazionali, nelle partite amichevoli o ufficiali, viene assegnata sulla base dei gol fatti, non sulla base, per esempio, del tempo di possesso palla, del numero di passaggi, o di quello dei corner ottenuti. Quindi mistificare, e di fatto non riconoscere, questa regola, ponendovisi al di fuori, non è una strategia adattiva, ma regressiva e disadattata. 

La pretesa narcisistica di essere apprezzati per il solo merito della propria presenza, senza dover fare concretamente qualcosa che valga la valutazione, o la stima, altrui, è piuttosto pericolosa. E la pretesa di essere apprezzati per quello che decidiamo noi, e non per quello che un certo contesto ci richiede, lo è ancora di più. 

Credo che se da un lato dobbiamo stare attenti alla svolta narcisistica nel calcio, e nello sport in genere, come pericolosa deriva di autarchia psichica, dall’altro dobbiamo prestare attenzione al suo più pericoloso, e inquietante, sottinteso: il narcisismo dilaga, e ci ha ormai preso la mano.

I grandi della Nazionale di calcio. Roberto Baggio: Divin Codino.

Roberto Baggio è nato a Caldogno (VC) il 18 febbraio 1967. Relativamente alla sua carriera in Nazionale, oggetto di questo scritto, si potrebbe affermare che sia stato uno dei più grandi, anzi forse proprio il più grande, dei giocatori azzurri. Roberto Baggio merita questa valutazione sia a partire dalla qualità delle giocate espresse in azzurro, sia relativamente ai traguardi raggiunti. Un terzo posto a Italia 90 e un secondo posto a Usa 94, risultati che, a guardare bene, potevano essere ben altri, questione di centimetri. Infatti fu ai rigori che quelle squadre dovettero arrendersi, e quando si perde ai rigore si può ben dire che alla vittoria ci si sia andati davvero molto vicini. 

Temperamento in campo

Il Divin Codino, appellativo valsogli dall’abitudine di tenere i capelli lunghi legati con un elastico, è stato un giocatore più amato dai compagni che dagli allenatori, e, per la sua sportività, molto apprezzato anche dai tifosi avversari. In campo è stato anzitutto un leader nel compito, e ha espresso un temperamento a volte arrendevole di fronte all’aggressività altrui. La sua indole pacifica ne ha fatto un signore, come abbiamo detto, di sportività, ma anche di altruismo. Qualità, quest’ultima, ben riassunta dall’immagine di Italia 90, che lo vide lasciare a Salvatore Schillaci il rigore di Bari, rigore che permise all’attaccante siciliano di confermarsi capocannoniere del torneo. 

Roberto Baggio fece parlare molto di sé, ma soprattutto fece sognare gli appassionati italiani, e per questo ricevette una lunga serie di soprannomi e appellativi: senza dubbio frutto più dell’amore che l’ambiente riversava su di lui, che dell’invidia di pochi detrattori, di cui, si sa, il mondo del calcio è sempre stato pieno. Raffaello, Bagg10, Coniglio Bagnato, ma anche, più dispregiativamente, Filosofo, (infatti era, ed è tutt’ora, Buddista). Nessuno di questi, però, definisce meglio il suo temperamento in campo di Nove e Mezzo, affibbiatogli, con grade perfidia, da Michel Platini.

Nove e Mezzo richiamerebbe qualcosa di non compiuto totalmente, un ruolo a metà strada tra il centrocampista e il centravanti. Anche su questo, però, ci sarebbe da discutere, perché oggi, come in tutte le attività che facciamo, i classici ruoli del Novecento sono saltati, e non esistono più giocatori che si muovono soltanto in una zona del campo, o a cui sia richiesta soltanto una fase di gioco. E forse proprio per questo la storiografia calcistica dovrebbe recuperare la figura di Roberto Baggio, Nove e Mezzo, come un precursore dei tempi, più che come una via di mezzo tra il regista e l’attaccante.  

Nove e mezzo, in ogni caso, determinava oltre alla posizione, anche il suo rapporto con i compagni, con le dinamiche di gioco, e più in generale con quello che qui abbiamo chiamato il temperamento in campo. Perché questo stare un po’ qui e un po’ li, questo andare una volta con il dribbling verso il centro per cercare il tiro, e un’altra verso il fondo per fare il cross, non poteva che avere un impatto determinante, sulla squadra, sui compagni e ovviamente sugli avversari, che non avevano la benché minima idea di come fermarlo.  

Purtroppo ci pensò la fragilità del suo fisico, a fermarlo. In un’epoca in cui gli allenamenti non erano ancora pensati ad personam, e l’intera rosa faceva gli stessi esercizi, con lo stesso numero di ripetizioni. 

L’immagine presso il pubblico

Roberto Baggio è stato, come detto, amatissimo dal pubblico della Nazionale di calcio. Il gol preferito dai tifosi è stato probabilmente quello contro la Cecoslovacchia, a Italia 90, ma gli appassionati conservano del Codino un ricordo che va al di là dei gol e dei premi. 

La serenità con cui scendeva in campo, la correttezza, la dignità con cui ha attraversato i momenti bui della carriera, uniti alla determinazione e alla professionalità, hanno fatto di lui non solo una bandiera della Nazionale, ma anche un campione fuori dal campo. 

Baggio ha cambiato molte volte casacca, per questo non può essere identificato con nessuna delle grandi squadre del nostro campionato. Ma può essere identificato con la Nazionale, per la quale ha pianto e gioito. Se il pubblico ama sognare a occhi aperti, Baggio è l’uomo dei sogni del calcio italiano. 

Nella moderna, e sterile, diatriba tra tecnici, su chi sia (stato) più bravo tra Maradona e Messi, spesso si dimentica di segnalare che Maradona faceva sognare le masse. E non solo perché a quel tempo non c’erano i social media, su cui guardare e riguardare i video, ma proprio perché il suo calcio era allegria, follia geniale, gioia fanciullesca. Ecco, Roberto Baggio è stato, pur con tutt’altro carattere, il nostro Maradona: l’uomo che faceva sognare il pubblico. 

Si può aggiungere un’ultima considerazione. Umberto Eco ha sostenuto, e sono d’accordo con lui, che i romanzi, e i film, più amati sono quelli senza lieto fine. Il lieto fine è banale, scontato, non ha niente a che vedere con la vita reale. Quando l’eroe muore in battaglia, e il pubblico piange per lui, ecco che lì arriva l’effetto catartico dell’arte. Perché è lì che il pubblico sente di non essere solo. Quando l’eroe vive le sventure dell’uomo qualunque, l’uomo qualunque viene riscattato. Io penso che il rigore sbagliato a Pasadena sia l’evento che ha proiettato Baggio nella nostra memora collettiva. L’evento che ha detto agli italiani: se la vostra vita è pesante, c’è qualcuno che porta un peso ancora superiore, e questi è lui, il genio fragile del calcio. La sua sfortuna, da quel pomeriggio, ricalcando la nostra, ci consola un po’. E ci fa sentire meno soli. 

I grandi della Nazionale di calcio. Dino Zoff: capitano gentiluomo.

Dino Zoff, capitano gentiluomo, è nato a Mariano del Friuli il 28 febbraio 1942. Come giocatore ha ricoperto il ruolo di portiere, ma è stato anche un grande allenatore e dirigente. Tra i successi raggiunti in carriera si ricordano il Campionato Mondiale FIFA del 1982, in cui era il capitano, e il Campionato Europeo del 1968, (riserva di Albertosi e Vieri). Ha poi conseguito il secondo posto, come Commissario Tecnico, al Campionato Europeo del 2000, e una lunga serie di successi con squadre di club. 

Temperamento in campo

Dino Zoff è sempre stato un uomo riflessivo e moderato. Ha vestito la fascia da capitano in un ruolo insolito, quello di portiere, quando si diceva che il capitano dovesse stare vicino all’azione. Ma per lui l’autorevolezza era un fatto di carisma, non di aggressività. Raramente lasciava la porta per andare a discutere con l’arbitro, perché, il capitano, nel suo modo di concepirlo, è un punto di riferimento per i compagni, più che il portavoce dei malumori della squadra.  

Leader silente in campo, era sovente una coperta di Linus fuori dal campo. Sono molti i compagni che lo ricordano come capace di dare serenità e infondere fiducia. Dobbiamo pensare che, al tempo, i ritiri pre partita erano diversi da oggi. Non c’erano smartphone e social network, e in alcuni alberghi, specie all’estero, un telefono nella hall era già gran lusso. Così, nelle lunghe ore prima della partita, i giovani (Marco Tardelli, ad esempio) anelavano avvicinare il Capitano, stare un po’ con lui, respirare la sua tranquillità. 

Dino Zoff vacillò una sola volta, in quella che fu la parata più epica, della partita più epica, della sua epica carriera. Dopo il colpo di testa di Oscar, in Italia-Brasile del 1982. Chi c’era se lo ricorda, ma gli appassionati di calcio più giovani, dovrebbero conoscere quella partita, come gli studiosi di filosofia conoscono gli autori classici, anche se vissuti secoli prima di loro.  

Al tiro di Oscar, Dino Zoff afferrò con un guizzo la palla, la schiacciò a terra, e se la portò al petto. Ma alcuni brasiliani alzarono le braccia, in segno di giubilo. Per un istante leggemmo il terrore negli occhi del portiere, che non vedeva l’arbitro, e non sapeva se avesse fischiato il gol oppure no. Tutti gli italiani sanno come finì, quindi altri dettagli esulano da questo scritto. Ciò che conta qui, è la personalità pacata, ma sicura di sé e mai remissiva del grande Zoff. Leader nel compito, ma senza dubbio anche leader nel gruppo, personaggio straordinario di un calcio fatto da quelle “bandiere”, che oggi non esistono più. 

Immagine presso il pubblico

Bandiera, dicevamo. Ma cosa significa, questo, nel caso di Dino Zoff? Un altro frame iconico di quell’estate 1982, ritrae una partita a carte. In quegli anni così difficili per il Paese, non si può immaginare qualcosa di più familiare: un gruppo di amici e una partita a scopone. Siamo sul volo che riporta in Italia la nazionale, e il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, gioca, e gesticola animatamente, con il CT, Enzo Bearzot, Franco Causio, e il capitano, Dino Zoff. 

L’immagine che il pubblico conserva del capitano, è la seguente. Nel cuore della partita, ad un tratto, parte una polemica: accesa, come solo noi italiani sappiamo fare. Hai sbagliato tu, dovevi buttare la tale carta! Io?, Avrai sbagliato tu, che dovevi fare un’altra mossa! E via dicendo. Ebbene, davanti alle telecamere il Presidente Pertini, prima lascia passare un sette, e poi accusa il nostro di averlo fatto perdere. Soltanto i quattro al tavolo conoscono la verità: l’errore è chiaramente di Pertini. Allora Dino Zoff, dopo aver sfoderato per settimane, la sua classe come portiere, sfodera la classe del gentiluomo: “Per rispetto al Presidente”, disse in seguito “mi presi la colpa.”. Cosa aggiungere? 

Ci sarà un seguito, una lettera del Presidente al capitano, l’anno seguente. Ma questo non cambia l’immagine che il pubblico si porterà di questo personaggio cristallino, immagine che non appartiene soltanto al nostro calcio, ma senza dubbio anche alla nostra cultura popolare. 

Tiki-Taka e autolesionismo

Hanno fatto il giro del mondo le immagini di Pep Guardiola, allenatore del Manchester City, e guru mondiale del Tiki-Taka, vittima di piccoli gesti autolesivi

I benpensanti hanno subito accusato il famoso personaggio di non essere pago della sua fortuna, ma si sa, e proprio qui vediamo che non è una frase fatta, i soldi, di per sé, non danno la felicità. Nell’impossibilità di commentare i comportamenti e la psiche di Guardiola, perché non è mio paziente, e anche nel caso non avrei certo potuto farlo, vorrei però fare alcune riflessioni sulla rabbia, l’aggressività e l’autolesionismo

Aggressività passiva

Il famoso allenatore ci racconta una cosa molto chiaramente. A tutti i livelli è bene sviluppare una buona consapevolezza della nostra parte oscura, e trovare vie adeguate di espressione e manifestazione di rabbia e aggressività. Perché l’autolesionismo è una modalità estrema di espressione di queste emozioni, e soprattuto individua in noi stessi il colpevole di qualcosa di terribile. Qualcosa per cui meritiamo una punizione. 

Ognuno di noi ha una certa quota di arrabbiature quotidiane, e il modo in cui le superiamo fa la differenza sull’andamento della nostra giornata. 

Una modalità poco conosciuta di espressione della rabbia è l’aggressività passiva. Ci sono situazioni in cui siamo contenuti, bloccati, ma gettiamo saette con gli occhi, o con battute al veleno. Oppure ancora con sarcasmo pungente, colpendo persone che non hanno nessuna colpa. L’aggressività passiva è un modo molto disadattativo di superare la tensione. 

Autolesionismo

Un modo ancora peggiore, è l’autolesionismo. Colpire noi stessi significa anzitutto riconoscere di non essere adeguati alla sfida che stiamo affrontando, perché una sfida non ci può destabilizzare così profondamente. Ma soprattutto significa ammettere di essere stati talmente cattivi da meritare una punizione. 

Pep Guardiola ha confessato un piccolo gesto autolesivo, quello di ferirsi lievemente la fronte con le unghie, per sua fortuna è al riparo da gesti più eclatanti. Ma alcuni individui arrivano a graffiarsi violentemente il viso, a procurarsi tagli sulle braccia, a sfidare la morte in gare pericolose, o anche di peggio. Ciascuno di noi deve avere un buon rapporto con la sua rabbia, viverla ed esprimerla in termini adeguati e non distruttivi. In fin dei conti la rabbia ci racconta qualcosa di noi stessi, ci dice che siamo insoddisfatti, e capire dove e come lo siamo, non è cosa da poco. 

Sadismo e Tiki-Taka

Resta un altro step, quello sportivo. Qualcuno mi ha persino chiesto se il Tiki-Taka non sia, in fondo, una modalità di gioco passivo aggressiva, in cui l’avversario viene sfinito, quasi deriso, senza una vera logica razionale, una sorta di perversione sadica? È una domanda a cui non so rispondere, perché esula dall’ambito della psicologia sportiva. 

Posso dire, invece, che ogni forma di arte, ogni filosofia, ogni concezione estetica assomigliano intimamente a chi le ha ideate. E sono amate anche da chi, in qualche modo ci si rivede. Ma di questo parleremo in un’altra sede. 

Napuli sul tetto del mondo.

Quando i meridionali arrivarono a Torino negli anni Sessanta, per riempire di braccia quelle stesse fabbriche che oggi emigrano a loro volta, erano chiamati Napuli. Il termine, canzonatorio e genericamente riassuntivo, definisce in realtà il disprezzo che i torinesi di allora avevano per tutta quella massa di italiani, così lontani ed estranei, da poterli racchiudere in un unico sottoinsieme: napoletani.

Napuli

I Napuli a Torino hanno lavorato e pagato le tasse, hanno comprato case, automobili, quotidiani, hanno cresciuto figli, e poi hanno fatto proverbiali rimpatriate al sud, ai loro paesi d’origine, per le vacanze estive. Ma quel termine “napoletani” (che a Milano era “terroni”), li ha feriti e vilipesi, ben più di quanto abbiano mai potuto mostrare. Così, quando alla fine degli anni Ottanta, Totò Schillaci venne ingaggiato dalla Juventus, i meridionali di Torino videro in quel ragazzo il figlio che ce l’aveva fatta, il riscatto della nuova generazione su un passato di stenti e discriminazioni. 

I napoletani avevano già in Maradona il loro eroe, va detto, ma i meridionali tutti arsero immediatamente di orgoglio, quando il ragazzo siciliano (cit. Bruno Pizzul) indossò quella casacca, croce e delizia di ogni italiano. Nella sua prima stagione alla Juventus, Schillaci vinse la coppa Uefa, e quando allo stadio Meazza, contro il Milan, alzò anche la coppa Italia, Azeglio Vicini non poté esimersi dal convocarlo in Nazionale. 

Totò, figlio d’Italia

Fu lì che Schillaci scrisse la Storia. Entrando dalla panchina, e per questo senza pestare i piedi a nessuno, Totò, ex Napuli, ora beniamino di tutti gli italiani, salì letteralmente sul tetto del mondo. 

Della parabola discendente non vorrei dire, perché per tutti noi non ci fu mai nessuna parabola. Totò Schillaci resterà sempre l’emblema di quell’estate magica, con quel suo sguardo rapace di chi ha deciso di farcela. Sguardo che è senza dubbio la prima cosa che ci sale alla memoria, quando udiamo quello che fu davvero la colonna sonora di una grande estate italiana.  

E negli occhi tuoi, voglia di vincere, un’estate, un’avventura in più.”  

I grandi della nazionale di calcio: Rino Gattuso.

I campioni dello sport non sono tutti uguali. Alcuni sono amati per le loro gesta, altri per quello che lasciano nel pubblico. Gennaro Gattuso, detto Rino, entrambe le cose, per questo è certamente uno dei più grandi campioni del nostro sport, una vera icona della nazionale italiana di calcio.

Uomo del Sud

Atleta eccezionale, e uomo straordinario, Rino Gattuso incarna almeno due grandi archetipi della cultura popolare italiana. Anzitutto è l’uomo del sud che ha fatto fortuna al nord. Benché l’Italia sia un Paese unito da anni, in cui gli squilibri geografici vanno diminuendo, questa continua ad essere una grande allegoria del successo e della scalata sociale.

Rino è un uomo che, nonostante la lunga carriera a Milano, non ha mai perso l’accento calabrese, e porta sempre la sua Calabria con sé. Nei modi di fare, negli sguardi ai giornalisti, nelle risposte a certi dirigenti, Rino continua ad essere il ragazzo di un tempo, anche se mai fuori alle righe. Per lui vale certamente la classica espressione del cinema: “Il successo, non lo ha cambiato”. La pancia del tifoso lo sente, il pubblico vede in Gattuso i valori dello sport come passione genuina, come sfida sfrontata alle difficoltà quotidiane, come impegno a migliorarsi ogni giorno, non importa quale successo hai conseguito ieri.

Ringhio

Il secondo archetipo sta in quel soprannome: “Ringhio”. Non tutti gli campioni della nazionale di calcio hanno avuto la fortuna di essere identificati con la grinta e la combattività, come Rino Gattuso. Alcuni, anzi, sono stati percepiti come presuntuosi, altri come poco attaccati alla maglia, e così via. “Ringhio” definisce una caratteristica temperamentale del calciatore, che è anche dell’uomo: è la garanzia che “da qui non si passa, se non sul mio cadavere”. E cosa sogna di più il tifoso, se non vedere nel suo idolo le proprie stesse fatiche quotidiane, le proprie difficoltà di sopravvivere in un mondo feroce, la propria condanna a spendere tutto se stesso ad ogni nuova sfida?

E poi aggiungiamo un altro elemento, Rino Gattuso per primo ha alimentato questo mito, con la sua modestia (anche questa da fuoriclasse). Egli ha sempre detto di come, essendo inferiore agli altri tecnicamente, ha dovuto allenarsi più di loro, per poter competere alla pari. Ma davvero pensiamo che Rino Gattuso fosse inferiore ad altri? Un campione che ha vinto, tra l’altro, due Champions League e una Coppa del Mondo, era davvero inferiore a qualcun altro? O forse in questa modestia, in questa perseveranza, per l’appunto in questo soprannome, non sta racchiusa tutta la sua grandezza?

Questi sono alcuni aspetti del Gattuso “pubblico” che lo hanno reso grande agli occhi del pubblico. Certamente ce ne saranno altri che definiscono il Rino “privato”, ai quali noi non abbiamo accesso. Possiamo però dire, senza ombra di dubbio, che è stato fortunato chi ha potuto incontralo e conoscerlo. Probabilmente Ringhio avrà dispensato sorprese anche alle persone che hanno condiviso con lui i momenti più difficile della sua vita.

Torino è (stata) granata. Una risposta a Claudio Marchisio.

Una polemica surreale grava su Torino. Claudio Marchisio, ex bandiera della Juventus, ha affermato che i tifosi granata sono l’anima della città. I sostenitori juventini, secondo il bravo centrocampista, sotto la Mole quasi non esistono, e quei pochi sono poco rumorosi. Insomma, come diceva il vecchio adagio, Torino è granata.

A parte il viatico implicito, per i proprietari della società bianconera, a poter infine delocalizzare anche questa loro attività imprenditoriale, la discussione, oltre che di cattivo gusto, perché fatta da un ex simbolo bianconero, assume i toni del paradossale.

Anzitutto il sig. Marchisio dovrebbe sapere che ci sono ragioni storiche se a Torino molti simpatizzano per la squadra nata per seconda. Nel 1949, ai tempi della tragedia di Superga, il Grande Torino era paragonabile al Real Madrid di oggi. Vi immaginate se in uno schianto morisse l’intera rosa delle merengues, con Kylian Mbappé, Bellingham e tutti gli altri? Pensate che in Spagna la vicenda passerebbe inosservata? Il 4 maggio del 1949, volenti o nolenti, definisce una cesura nella storia dello sport torinese, una data che ha spostato le simpatie popolari. Unita, ovviamente, anche al fatto che chi vince è più antipatico di chi vince di meno. Ecco la prima lezione che dovremmo tenere a mente, leggendo le parole di Marchisio.

Poi Claudio dovrebbe pensare all’effetto vertigine della lista. Il bambino della pubblicità si meravigliava di vedere un pollo, perché non ci era abituato. Se da giocatore, Marchisio, avesse provato a perdere alcune decide di derby, invece di vincerli praticamente tutti, probabilmente i suoi tifosi avrebbero dato meno per scontate le sue prestazioni. Quindi in fondo è colpa sua, li ha abituati troppo bene. Altra lezione molto importante, che possiamo trarre, da questa polemica: la gente si abitua allo standard che forniamo.

E poi veniamo al paradosso. Per un quarto d’ora (di gloria) granata, vecchie bandiere della Juventus arrivano addirittura a difendere le ragioni dei cugini. Al Filadelfia tutto bene? Nessuno si sente usurpato? È proprio vero che i tempi cambiano, tutto passa o si trasforma. Altra lezione, quindi: anche quella granata, alla fine, non è più una vera religione.

Diego Maradona, Ayrton Senna, Valentino Mazzola. Mito, destino e consolazione.

Nei giorni scorsi abbiamo celebrato l’anniversario della morte di Ayrton Senna e della scomparsa del Grande Torino. La loro vicenda è simile a quella di un altro grande mito dello sport mondiale, Diego Armando Maradona. È simile perché tutti e tre questi pezzi di storia dello sport, condividono un fato avverso e terribile, che li ha piegati proprio nel momento di massimo splendore.

Amati in vita, compianti dopo, la ragione del mito che li circonda, tuttavia, non sta nella loro popolarità. Questi eroi del nostro tempo sono stati, come molte persone che conosciamo, battuti dal destino. Non è un caso se il motto che accompagna i tifosi del Grande Torino, sulla faccia oscura del colle di Superga, è “solo il fato li vinse”. 

Abbiamo bisogno di fissare nella nostra coscienza, individuale e collettiva, alcuni punti cardinali, alcune lezioni, che ci guidino quando siamo nel buio. Una di queste riguarda il lutto e il suo superamento. Il campione dello sport nel fiore della sua carriera, e che sarebbe stata ancora lunghissima, è il migliore emblema di una fine inaspettata e inspiegabile. 

Ayrton Senna è morto nel momento del suo massimo splendore, quando, si dice, avesse nel cassetto un contratto con la Ferrari. Diego Armando Maradona è stato fermato dal suo demone quando il mondo del calcio aveva più bisogno di lui. L’aereo del Grande Torino è caduto proprio alla fine degli anni Quaranta, quando l’Italia stava per prendere il volo. 

Il mito è saggezza popolare, è cristallizzare una lezione affinché non venga dimenticata. Se c’è un insegnamento dietro al mito di Valentino Mazzola, di Ayrton Senna e di Diego Maradona, è che la vita non guarda in faccia a nessuno. È la consolazione che l’inevitabilità del destino non riguarda solo noi persone comuni, ma anche loro, gli dei dell’olimpo dello sport. È questa loro umanità che ce li fa amare così tanto, proprio loro che tanto umani, in fondo, davvero non sembravano. 

Il mio ultimo libro

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