Recentemente è apparsa su un social network la seguente sequenza: un quotidiano economico asseriva in un post una certa notizia riguardante l’azienda di un famoso imprenditore; Nella scansione successiva il suddetto imprenditore rispondeva in prima persona dal suo account personale: ‘E’ tutto falso’. Al quel punto gli utenti si sono domandati: é una fake news? Chi ha ragione? 

La società dell’informazione in cui viviamo si basa sull’impossibilità di verificare pressoché tutto quello che è presente sui social networks. Da ‘Tokyo: terremoto del sesto grado Mercalli’ a ‘Il Real Madrid ha battuto il Siviglia 2-1’ le uniche notizie di cui possiamo incontrovertibilmente essere certi sono quelle che non ci servono, perché già le conosciamo. Ossia se eravamo a Tokyo durante il terremoto o allo stadio del Real Madrid durante la partita, o al limite se ce lo avesse detto un amico fidato.

Un atto di fede?

Quindi credere alle news sul web è un atto di fede? Sinceramente direi di no. Alla base del rapporto che abbiamo con i social networks c’è la nostra personalità di individui, e siamo noi in prima persona che valutiamo di volta in volta quello che leggiamo, come all’epoca della carta stampata. Come esseri umani non captiamo tutte le informazioni che ci circondano, perché moltissime non ci interessano: ma registriamo quelle utili ai nostri scopi. Se ad esempio usciamo per shopping e cerchiamo un paio di sandali, difficilmente la nostra attenzione sarà attratta dalle pubblicità dei box in affitto, dalla traiettoria di un rider o dal tempo di intermittenza dei semafori. Se ci imbattiamo in  un’informazione, pertanto, significa che siamo alla ricerca di quella informazione, che la stiamo selezionando tra le atre, che invece escludiamo dalla nostra attenzione. 

Inoltre se siamo vittime di informazioni palesemente incredibili non possiamo che incolpare noi stessi.

Dire che alla base del nostro rapporto con i social networks e i loro contenuti ci sia la nostra personalità, e la nostra capacità di valutare, significa anche un’altra cosa. Alcune informazioni sono utili alla nostra coesione interna, favoriscono la nostra stabilità. 

Frammentazione e Negative capability 

Un tempo insegnavano a leggere le notizie pensando a cosa potessero nascondere: ‘cosa c’è dietro?’. Oggi vediamo che questo atteggiamento è pericoloso e fuorviante. Il retropensiero ha una funzione più consolatoria che interpretativa, anzi alla lunga è sostanzialmente deleterio. 

La frammentazione della nostra vita mentale, trend ormai inarrestabile dopo la pandemia, conduce a dinamiche di ricompattamento che vanno dalla sottomissione al leader (Jay Frankel) all’interpretazione complottista, passando da una lunga serie di disturbi di personalità. Quando siamo di fronte ad una notizia che non possiamo verificare, pertanto, tendiamo a credere alla versione maggiormente significativa per noi, ossia che più compatta la nostra frammentazione interna. In questi termini tornano utili le riflessioni che partono da John Keats e dal suo concetto di Negative capability, ossia capacità negativa. La capacità di stare in negativo: vale a dire nel dubbio, nell’incertezza, nel mistero, è competenza avanzata dell’io adulto. 

Così una buona, anzi direi buonissima, modalità di reazione di fronte alla scansione dell’imprenditore che nega la notizia del quotidiano economico, sarebbe quella di restare in negativo, fino alla prova evidente che prima o poi arriverà da sé. 

Ma la cosa ancora più importante sarebbe chiedersi: per quale motivo propendo più per una risposta che per l’altra? Che tipo di rassicurazione interna mi forniscono le due posizioni? Il che significherebbe non negare di essere vittime della frammentazione, ma accettare di essere individui alla continua ricerca di una coesione interna: che poi è il nostro comune obiettivo ai tempi in cui tutto sembra franarci intorno.