Autore: Fabio Convertino

  • “Torna con me, sono cambiato”: implorare l’altro nella crisi di coppia

    “Torna con me, sono cambiato”: implorare l’altro nella crisi di coppia

    Implorare di non essere lasciati, durante una crisi di coppia, è senz’altro la reazione più naturale che possiamo avere, ma anche la peggiore.

    Non ti merito più

    Sono rare le occasioni in cui entrambi i partner accettano la crisi, e la vivono come il naturale decorso di un progetto in declino. Quando una coppia affronta una battuta d’arresto, invece, il più delle volte è in seguito ad un travaglio interiore di uno dei due, che in maniera molto sofferta giunge a delle conclusioni. Mentre l’altro giura di non sapere, di non capire. Posto che ci sarebbe da indagare se davvero uno non abbia mai subodorato nulla, credo sia anche giusto lasciare a ciascuno le proprie difese. Chi nega i problemi, in genere, lo fa perché non riuscirebbe a sostenerne il peso.

    Dicevamo, uno dei due attraversa una fase di dubbio, di tormento, chiede consigli ad amici, e alla fine prende una decisione. Il primo punto da chiarire è il ruolo dell’eventuale amante, o soggetto terzo. Sovente si ritiene che una coppia si separi per colpa di qualcuno che “rompe le uova nel paniere”. Niente di più sbagliato. Nessun terzo incomodo potrà mai sciogliere una coppia sana, in salute, in fase progettuale. La domanda più diffusa, agli incontri di chiarimento, è: “Hai un altro?”. Questa domanda è stupida, e disegna una sconfitta. Quale risposta ci aspettiamo? Sarebbe più facile accettare di essere lasciati per un altro, piuttosto che sapere di aver fallito? E infatti solitamente la risposta è: “Ma no, non ho nessuno, è solo un periodo un po’ così”. Anzi, se va bene chi lascia si prende anche delle colpe, si fustiga, ammette responsabilità: “Non ti merito più”, afferma. Quindi, direi, peggio di prima.

    Ti prego, torna: ti dimostro di essere cambiato

    L’eventuale amante, terzo incomodo, o come lo si voglia chiamare, quando c’è, può senz’altro avere un ruolo fondamentale. Ad esempio può dare al partner indeciso più coraggio, spingerlo ad innescare la separazione. Ma la nuova conoscenza non è mai la vera ragione della rottura. Ed è così che l’altra reazione classica, comprensibile, quasi inevitabile, diventa profondamente cieca, inutile, anzi dannosissima: “Torna con me, stavolta sono cambiato”. 

    Il corollario di tentativi disperati di recuperare, facendo ciò che non si è fatto per mesi, o per anni, non è solo patetico, ma deleterio. Se chi rompe non lo fa perché ha un sostituto, ma perché ha maturato una scelta, vede questi tentativi come una sceneggiata, fuori luogo, prima ancora che fuori tempo. 

    Questi atti disperati distruggono quel poco di dignità che resta, quel poco di appeal (anche erotica), e di credibilità. Poi anziché a ricredersi, aiutano a pensare di aver fatto la cosa giusta. Se una persona è incapace per anni di dire o fare delle cose, e invece ora le fa a ripetizione, perché teme di essere abbandonata, allora forse la storia merita davvero di essere chiusa. 

    Implorare di non essere lasciati, durante una crisi di coppia, è un altro tentativo di mettere sé stessi, le proprie esigenze, davanti alle ragioni dell’altro. È un atto di puro egoismo, ossia proprio l’ultima cosa da mostrare ad un partner preso dai dubbi, a cui abbiamo cominciato ad andare stretti.  

  • Adolescenti: invisibili in cerca di like

    Adolescenti: invisibili in cerca di like

    Nei giorni scorsi un adolescente si è tolto la vita, pare in seguito ad alcuni scambi avuti su un social network con i suoi follower. Il giudizio popolare è stato immediato: la gogna mediatica ha travolto gli strumenti informatici, la pratica delle comunicazioni tra sconosciuti, il costume di raccontare cose intime attraverso post, video o meme. Se il ragazzo è incorso in questo drammatico exitus, tuttavia, la colpa non è dei social network. Il bullismo esisteva anche prima delle reti sociali, ma quello che è cambiato, forse, è il modo in cui gli adolescenti vi fanno fronte: aiutati, o non aiutati, dal loro contesto quotidiano. È di questo che dobbiamo parlare, se vogliamo fornire loro strumenti mentali, e non pretesti. 

    Prima del cyberbullismo 

    Nel 1992 una mia cara amica venne bullizzata in occasione del concerto dei Guns N’ Roses. Su una rivista per giovani, questa ragazza pubblicò il suo numero di telefono sotto all’inserzione in cui cercava compagnia, per non fare il viaggio da sola. Nei giorni prima del concerto, avvenne che un gruppo di baldi, credendola molto brutta, la chiamò a quel numero, e la apostrofò dileggiandola volgarmente. La mia amica per tutta risposta scoppiò in lacrime, e fu lì che avvenne qualcosa che, oggi, potrebbe avere dell’incredibile. Il padre, fan dei Ricchi e Poveri, comprò due biglietti per lo stadio, e pensò lui stesso a portarla a vedere Axl Rose e compagni. 

    Ora, questo esempio deve fare concludere una sola cosa: l’adolescente sul social network non è stato ucciso dal cyberbullismo, ma dalla solitudine. Il padre della ragazza ha colto al volo la difficoltà della figlia, l’ha presa seriamente, e ha creato anzitutto un ambiente facilitante. Molto probabilmente quel ragazzo non ha trovato, per esempio a scuola, un contesto in cui portare il suo disagio. L’ha espresso, invece, sui social network, esponendosi all’aggressione dei bulli. Quindi chi ha sbagliato: lui, o chi non gli ha fornito questo contesto? 

    Come, ragionevolmente, non possiamo immaginare un mondo senza guerra, perché la prevaricazione fisica tra umani è un dato di fatto del loro modo di relazionarsi, allo stesso modo non possiamo sognare un mondo senza bullismo, o cyberbullismo. Quello che possiamo immaginare, invece, è la costruzione, e la diffusione, di strumenti atti alla difesa. 

    Adolescenti in palestra

    L’adolescente ha bisogno di una palestra. Intendo di un luogo, che non deve essere solo fisico, in cui sperimentare diverse capacità, apprendere o affinare quelle in cui scarseggia, e, se necessario, abbandonare quelle che non fanno per lui. 

    Il contesto scolastico, o quello familiare, devono fornire questo luogo, in maniera diretta, o anche indiretta. Da un lato sarebbe importante che gli adolescenti avessero spazi propri di confronto, anche in gruppo, sulle tematiche del loro mondo interiore. Dall’altro, però, anche i genitori e gli insegnanti dovrebbero avere uno spazio simile. Sono gli adulti a costruire l’ambiente in cui gli adolescenti si muovono, e questo ambiente non è solo fisico, è anche un ambiente mentale. Così, ancor prima di approdare sulle piattaforme online, i ragazzi frequentano luoghi e contesti, che hanno la responsabilità di essere accoglienti e facilitanti. 

    L’adolescente invisibile a casa, a scuola, in parrocchia, al campo di allenamento, va inevitabilmente in cerca di like. Per avere, se non altro, qualche rimando: su ciò che è, ma soprattutto su ciò che vorrebbe diventare. 

  • Bondage e dintorni: la coppia BDSM

    Bondage e dintorni: la coppia BDSM

    Con BDSM si intende una serie di pratiche sessuali il cui acronimo sta per:  Bondage (legare), Dominazione, Sadismo, Masochismo. L’argomento è, chiaramente, molto privato, e per questo è difficile avere dati statistici certi. Si stima, tuttavia, che circa il venti per cento degli Italiani abbia utilizzato almeno una volta pratiche di questo tipo. In conseguenza a questa alta diffusione nella popolazione, BDSM non definisce automaticamente un comportamento patologico: c’è chi, infatti, l’ha sperimentato per curiosità, chi per noia, o chi semplicemente perché incuriosito sul tema dal partner o dalle frequentazioni amicali. Vediamo di fissare alcuni punti su cui definire quando il ricorso massivo a condotte sadiche e/o masochistiche può essere definito patologico. 

    Provare dolore per provare piacere

    Il primo elemento da analizzare e su cui riflettere. In genere, per ottenere un piacere ricerchiamo il piacere, e per provocare agli altri un dolore, infliggiamo dolore. La cosa è talmente pacifica che nessuno penserebbe mai di mettere del sale nel caffè, per gustarlo meglio. Così come nessuno calzerebbe delle scarpe strette, per passeggiare più felicemente, o farebbe un bonifico a un suo nemico, per fargli un dispetto. La percezione che abbiamo di ciò che è piacevole e di cosa non lo è, così come appreso negli anni sulla nostra pelle, ci conduce a fare tutti i giorni la scelta più desiderabile, e scartare le altre. Nelle pratiche BDSM, al contrario, vige un’equivalenza differente: per aumentare, o prolungare, il piacere infliggo a me stesso, o all’altro, delle costrizioni o delle punizioni

    Avere atteggiamenti sostanzialmente sadomasochistici non è tipico della sfera sessuale. Alcune culture organizzative sono basate proprio sulla capacità stoica di sostenere sforzi eccessivi, nell’attesa di un riconoscimento successivo. Per non parlare delle privazioni previste da certe pratiche religiose, che molti attuano ciclicamente. Nessuno si sogna di definire patologiche tali rinunce. Chiaramente deve esserci una misura, un limite, che può essere quello di quanto, concretamente, si consideri piacevole la privazione, la punizione o l’umiliazione, (nel caso delle pratiche BDSM). Ossia il limite non può essere superato, se la rinuncia diventa un supplizio. Oppure, più propriamente, dovremmo capire quanto essa ci faccia sentire  riconosciuti, quanto ci restituisca un clima confortevole. Perché se un individuo si sente a suo agio quando vilipeso, più di quando non lo è, al punto da aver bisogno di provare dolore, per arrivare a provare piacere, allora le cose cambiano. 

    Il piacere di essere sottomessi

    Un altro punto su cui indagare: la cultura della libertà. Con estrema difficoltà riusciamo a rintracciare tratti comuni del nostro vivere con quello di nostri simili, e infatti, notoriamente, amiamo dividerci su tutto. Tra cittadini italiani, ma anche tra cittadini europei, e così ’ via, non c’è argomento su cui non litighiamo anche ferocemente. La libertà e la democrazia, invece, restano il comune denominatore sotto il quale non siamo disposti a scendere, attaccati come siamo al privilegio di esprimere sempre qualunque nostra posizione, anche la meno sensata, anche la meno richiesta dagli altri.  

    La difesa della libertà, ha condotto, in quest’ultimo periodo, persino alla rivolta del politicamente corretto. Sono state messe al bando espressioni e locuzioni popolari o familiari, perché ritenute irrispettose della dignità e del decoro di individui o della loro professione. Dalle posizioni sessiste al vituperato patriarcato, dalle minoranze linguistiche allo schiavismo, tutto è stato messo in revisione. Luca Ricolfi ci informa che negli Stati Uniti d’America è stata persino modificata la denominazione del cavo per amplificatori musicali jack maschio e jack femmina, perché irrispettosa, e sostituita con la versione più neutra plug e socket. 

    Tutta questa fame per la libertà si stoppa, improvvisamente, davanti al BDSM e alle sue sfumature di grigio. Nel privato qualcuno diventa improvvisamente illiberale, al punto da sottomettere o essere sottomesso. Da dove arriva questa svolta schiavista, quale piacere, concretamente, può fornire? Oppure di nuovo, è un fatto di riconoscimento, di sentirsi accettati, se non altro in quella situazione di sottomissione? 

    Un altro controsenso: il contratto

    Sappiamo di come le pratiche BDSM avvengano, sovente, sotto la copertura di un contratto. Da un lato, evidentemente, il contratto fornisce una difesa in caso di svolta tragica delle torture, anche se ci sarebbe da capire, all’atto pratico, quanto concreta in un’aula di tribunale. Dall’altro lato, cosa secondo me più rilevante, con il contratto si cerca un consenso

    Se sto facendo qualcosa di previsto, concordato, moralmente accettabile, a cosa mi serve un accordo? Sappiamo che i debiti di gioco sono sostanzialmente debiti d’onore, e quindi un patto fatto per gioco, ha un potere vincolante maggiore a quello della parola data? La presenza di un contratto, nelle pratiche BDSM, quindi, è l’aspetto più sinistro, quello che svela qualcosa di più sulle logiche profonde che legano i membri della coppia

    Sottomettere qualcuno, specie se considerato piacevole, dovrebbe essere secondo la propria coscienza. Essere vilipesi, umiliati, o percossi, se piacevole, dovrebbe essere secondo coscienza. Se, al contrario, sto facendo qualcosa di sbagliato, al punto da avere bisogno di un consenso esplicito, forse c’è qualcosa che non va.   

    La coppia BDSM

    Siamo pronti, quindi, a definire la coppia BDSM, che non è semplicemente quella che saltuariamente, per gioco, fa uso di queste condotte: nella coppia BDSM la modalità relazionale tipo è sadomasochista, e le pratiche di dominazione violenta o umiliante non si limitano alla sfera intima. Al contrario, sono la struttura su cui si fonda l’impianto relazionale della coppia, e che, evidentemente, corrisponde ad alcuni principi cardine della psiche individuale dei due partner. 

    Il sadomasochismo della coppia BDSM, inoltre, ha talvolta un funzionamento talmente patologico da dover essere giustificato, scusato, da un contratto: la cosa che in assoluto più allontana la dinamica di una coppia basata sull’amore e il rispetto reciproco, da una basata sulla perversione.  

  • Hermione Granger: la Natasha Rostov del nostro tempo

    Hermione Granger: la Natasha Rostov del nostro tempo

    Raramente un personaggio letterario entra nelle fantasie del pubblico così in profondità, da rappresentare archetipi di cultura collettiva. Uno di questi è senza dubbio Hermione Granger, la protagonista femminile della saga di Harry Potter, che il lettore certamente conoscerà, senza il bisogno di altre presentazioni.

    Dico raramente perché la letteratura è piena di eroi, anche molto ben riusciti, ma che in genere non escono dai libri, per entrare nel nostro inconscio collettivo. È questo il caso, invece, di Rossella O’Hara di Via col vento, per esempio, che nella battuta finale del film incarna tutta la speranza che riponiamo nel domani. O di Perpetua dei Promessi sposi, talmente caratteristica da dare il nome a tutte le donne a servizio dai sacerdoti. Oppure di Natasha Rostov, che oltre ad essere la (co)protagonista di Guerra e Pace, riesce a rappresentare il prototipo della donna ottocentesca (e non solo). E poi c’è lei, Hermione Granger, non a caso l’unico personaggio di fantasia che mi viene da associare a questi esempi immortali. 

    Abbiamo già detto di come alcuni personaggi della letteratura (del cinema, della tv, ecc…) abbiano un potere speciale: esistono pur senza essere mai esistiti. E questo perché hanno vissuto dentro di noi. Alcune persone depresse sono disperate, morte dentro, proprio perché sentono di non esistere nella mente di nessuno. È vivere nella mente di qualcuno, dunque, che discrimina tra essere o non essere. E alcuni eroi della fantasia sono molto più di individui reali, proprio perché vivi nella mente del pubblico. 

    Hermione Granger arriva nella vita di Harry Potter, e del suo amico Ron Weasley, in maniera rocambolesca. Ha l’antipatia tipica della ragazzina del primo banco, la più brava, quella che mai confesseresti di amare. E infatti, forse, l’amiamo da subito, anche da quando ci sta ancora visceralmente antipatica. È così perché sentiamo che ci assomiglia, ha la stessa foga di quando siamo in difficoltà. E quando dobbiamo mostrare di sapere, dobbiamo dimostrare il nostro valore. E questo per il femminile, nel mondo della scuola, ma non solo, è tutt’altro che affare da poco. Draco Malfoy, invece, (gli dedicheremo un altro spazio) non deve dimostrare niente a nessuno, è pieno di sé, e per questo ne abbiamo una repulsione strutturata. 

    Hermione ci cattura. La sorte (ma sarebbe comunque questione di tempo) consente di mostrare ai tre i veri volti reciproci, l’amicizia tra loro matura, e la ragazza si mostra per qualcosa di diverso. È l’intelligenza a farla saggia, non la paura. È la sua natura Babbana a farla rispettosa della legge, non il falso moralismo. Ecco che qui Hermione esce dalla finzione letteraria, per entrare nella storia di ciascuno di noi, forse ancora di più del protagonista, la cui vita pre Hogwarts ha un che di paradossale. 

    In Hermione non c’è niente di paradossale, c’è soltanto la tenacia di tutti quelli che non si rivedono in Malfoy. E infatti (già segretamente innamorati), segretamente cominciamo a fare il tifo per lei, a sperare in lei, quando c’è da salvare il nostro eroe, a sognare il suo ritorno quando si caccia nei guai. 

    Perché in fondo lo sappiamo: nel nostro mondo la magia non c’è, e quando non è possibile risolvere le cose con un colpo di bacchetta magica, se almeno avessimo lei, accanto, tutto ci apparirebbe enormemente più facile. E non è poco, per un’eroina fantastica. Hermione Granger è una novella Natasha Rostov, potremmo dire. Nella certezza che nessuno se ne prenderà a male.  

  • La coppia separata dalla morte

    La coppia separata dalla morte

    Nel film Ghost del 1990, Demi Moore e Patrick Swayze interpretano una coppia spezzata da una morte accidentale. I due ragazzi, tuttavia, rifiutano la nuova condizione, e attraverso una serie di espedienti trovano il modo di tenere in vita la loro relazione. Al netto della finzione cinematografica, questa condizione non è così rara. Sono tanti, infatti, gli individui che negano fortemente la dipartita del congiunto, e in maniera magica ne perpetuano il ricordo, continuando a considerarlo parte dalla loro vita quotidiana. 

    Negazione

    La tendenza a considerare il compagno deceduto come ancora vivo, presente, e protagonista nella vita di chi resta, è una lama a doppio taglio tutt’altro che facile da manovrare. Da un certo punto di vista, è assolutamente comprensibile portare avanti dei progetti, sapendo che sono stati sognati e condivisi con l’altra persona. E una volta raggiunti, è naturale che il pensiero corra anzitutto a chi ha visto nascere quel cantiere, che mai vedrà concludere. 

    Alcune persone, però, conservano molte abitudini della coppia, persino un’identità a due, come se l’altro non fosse mai andato. Qualcuno lascia vuoto il posto a tavola,  qualcuno mantiene gli stessi orari, c’è persino chi continua “a fare come se” l’altro ci fosse ancora. Il pensiero magico, in questi casi, è dietro l’angolo: alcuni arrivano a considerare telefonate, incontri casuali per la strada, piccoli/grandi eventi quotidiani come indotti direttamente dalla presenza dell’altro. 

    La negazione è il primo ostacolo che riguarda la scomparsa di un compagno. Quando la coppia separata dalla morte continua a esistere nella mente di chi resta, che insiste a sentirsene parte, molto sovente si tratta del preludio ad una caduta depressiva più importante. La negazione, infatti, non può protrarsi a lungo, proprio perché la sua perpetrazione potrebbe portare a distorsioni importanti del piano di realtà. 

    Per capirci, potremmo citare un altro film celebre, Psycho di Alfred Hitchcock. In quel caso la negazione della morte (della madre, nella fattispecie) raggiunge un livello di rigidità tale da sfociare nel grave disturbo mentale. 

    La sorte della coppia

    È giusto mantenere in vita una coppia sciolta da una causa esterna? In tutti i casi di separazione, la prima cosa da metabolizzare è che l’altra persona non c’è più. Quando   una coppia finisce, sovente c’è un periodo di strenui tentativi, anche disperati, di ricucire, di recuperare, di mostrarsi diversi. È una cosa dannosissima per la salute di entrambi: di chi lascia, perché in cuor suo ha già metabolizzato, e sente solo come invadente tale atteggiamento, e di chi viene lasciato, che cerca di andare contro la propria natura. 

    Prima si comprende che la relazione tra due persone è diventata impossibile, e meglio è per entrambi. Al di là delle credenze religiose, che rispetto, ma che non fanno parte di questa trattazione, la convinzione che la relazione con una persona deceduta possa continuare, è, per quanto commuovente nelle ambizioni, fortemente deleteria nelle conseguenze. 

    La più importare delle quali è che chi resta non supera il vuoto della perdita. Anzi, nel negare che la perdita sia mai avvenuta, ritarda la presa di coscienza del dono che l’altro ci ha fatto, regalandoci il suo tempo terreno. Come tutte le cose passate, che non solo rivivono nel ricordo, ma si strutturano dentro di noi diventando parte della nostra identità profonda, anche le relazioni, persino le più negative, mettono dei mattoncini nella nostra storia. 

    “L’amore che hai dentro, portalo con te” con queste parole Patrick Swayze saluta Demi Moore, nel film da cui siamo partiti. Molto probabilmente è qui la svolta per sopravvivere alla morte di un partner: si tratta, infatti, delle parole che non sentiremo mai, ma le uniche che ci autorizzerebbero ad andare avanti da soli. 

  • La gelosia patologica

    La gelosia patologica

    Avete mai visto un musicista geloso del suo strumento? E un botanico delle sue piante, o uno scrittore difendere le bozze del suo prossimo libro? Entro certi limiti, come tutte le manifestazioni dell’animo umano, anche la gelosia è un fatto fisiologico. Anzi persino positivo, perché ci parla di affezione, attaccamento, amore. 

    Il tango della gelosia

    Proprio questo attaccamento, però, può essere una lama a doppio taglio. Il nostro naturale istinto (ben educato dal modello sociale del capitalismo), ci porta a controllare le manovre che gli altri compiono intorno alle nostre proprietà. È un fatto istintivo: temiamo che ciò che è nostro possa finire in mano altrui. D’altro canto, sentiamo anche un piacere intimo quando agli altri piace qualcosa che ci appartiene, anche se talvolta non vorremmo ammetterlo. Il complimento per la nostra bella auto, per quanto vecchia, fa certamente piacere, così come l’apprezzamento per una foto scattata anni fa, un canzone scritta in gioventù, o un progetto realizzato contro il parere di molti. 

    Lo stesso vale, inevitabilmente, per le relazioni amicali o affettive, anche se, evidentemente, e qui dovremmo aprire una parentesi troppo grande da poter essere chiusa, una persona non ci appartiene come uno strumento musicale, un’automobile, o un progetto artistico. Quello che ci appartiene di una persona è la relazione che abbiamo con lei. È di quella che siamo gelosi, perché ci entra in profondità, e determina, in qualche modo, ciò che noi siamo ai suoi occhi. 

    Mio fratello, mia moglie, la mia psicoanalista: in questi casi il possessivo non si riferisce alla persona, ma al legame, ed è un legame di cui siamo gelosi, perché rappresenta qualcosa di piuttosto esclusivo nella nostra vita. Di fratelli, al massimo se ne possono avere alcuni, di mogli si potrebbe arrivare a tre o quattro, di psicoanalisti, se tutto va bene, nella vita ne avremo uno soltanto. 

    Relazione e attaccamento

    Ecco quindi che cominciamo a legare la gelosia con la relazione, ossia con ciò che noi siamo, o rappresentiamo, per l’altra persona. Il musicista geloso del suo strumento, per tornare all’esempio iniziale, ad un certo punto sposterà la gelosia sulla competenza, ossia su quello che succede tra lui e lo strumento (che forse non possiamo chiamare relazione.) E penserà che, per quanto altri possano avvicinarsi a suo oggetto, quelle determinate note, con quella certa intensità, potrà produrle soltanto lui. 

    Le relazioni affettive, invece, sono determinate dal modello di attaccamento a cui facciamo riferimento. Se siamo stati abituati a sentire fedeltà da parte degli altri significativi, ci aspetteremmo, per natura, fedeltà. Se abbiamo una storia di abbandoni, perdite, di sofferenze legate a figure che ci hanno lasciati per altri, saremmo orientati alla diffidenza, alla paura di essere nuovamente abbandonati, e di conseguenza alla gelosia morbosa, patologica. 

    La gelosia, come altre manifestazioni dell’animo umano, è un fatto fisiologico. Ma la gelosia patologica è spesso la traccia di qualcosa di arcaico, di un conto in sospeso con il destino, di una fiducia mal riposta, e che ci ha feriti. Il più delle volte non riguarda la persona verso cui la proviamo, ma qualcosa e qualcuno che viene da più lontano. Anche per questo andrebbe presa seriamente, perché rischia di rovinare tutte le belle relazioni cha abbiamo costruito. E portandoci a confermare, di conseguenza, le diffidenze di cui siamo vittime. 

  • Calcio: la svolta narcisistica e la fine del risultato

    Calcio: la svolta narcisistica e la fine del risultato

    Il calcio è stato a lungo lo sport più seguito dagli italiani, e per questo osservarne le dinamiche ha sempre aiutato a cogliere alcuni piccoli/grandi cambiamenti nella cultura collettiva del nostro Paese. 

    Tiki-Taka: il massaggio tantrico del calcio

    Alcuni dati sugli ascolti delle partite dicono che la popolarità di questo sport è in calo rispetto ai decenni scorsi, ma si possono ancora fare delle considerazioni significative, soprattutto riguardo all’atteggiamento mentale con cui il pubblico guarda gli eventi. Abbiamo già detto di come la filosofia Tiki-Taka possa sfociare, quando estremizzata, in un’aggressività passiva, una specie di ostruzionismo rovesciato, dal sapore tantrico, in cui l’obiettivo non sia tanto quello di andare verso la porta, ma di irretire, se non umiliare, l’avversario. 

    Un altro aspetto particolarmente inquietante è la svolta narcisistica del calcio contemporaneo. Il narcisismo sta diventando un marchio tipico del nostro tempo, soprattutto se associato all’individualismo, che il modello economico di riferimento ha fatto prevalere, rispetto a tutte le forme di economia dal prefisso “sociale”. 

    Il narcisismo, che, come detto, di per sé non è necessariamente patologico, ha, però, quasi sempre a che fare con l’autostima e l’immagine di sé. Tanto più devo pavoneggiarmi, sminuire l’altro, evitarne l’incontro empatico, quanto più, evidentemente, ho paura di scomparire al suo cospetto, di mostrare la mia fragilità, di scoprirmi inferiore.

    E il nostro presente, fatto di social network, di like, di tag nei post degli altri, è particolarmente orientato a forme di riconoscimento legate all’apparenza, più che alla sostanza. 

    Il risultato non conta

    Ora, nel calcio contemporaneo è in atto una svolta filosofico/antropologica. La vittoria, il risultato, il conteggio dei gol fatti, sta perdendo di importanza, a scapito degli schemi, della prestazione, della qualità del gioco espresso. Non è importante vincere, ma essere apprezzati, applauditi, diciamo pure: apparire belli. Come definire questo atteggiamento, se non come narcisismo

    La svolta narcisistica è impropria, nello sport (proprio come lo è per un individuo), in quanto le regole, nella pratica, non sono certo cambiate. La vittoria nei tornei dei dilettanti e dei professionisti, nelle gare nazionali e internazionali, nelle partite amichevoli o ufficiali, viene assegnata sulla base dei gol fatti, non sulla base, per esempio, del tempo di possesso palla, del numero di passaggi, o di quello dei corner ottenuti. Quindi mistificare, e di fatto non riconoscere, questa regola, ponendovisi al di fuori, non è una strategia adattiva, ma regressiva e disadattata. 

    La pretesa narcisistica di essere apprezzati per il solo merito della propria presenza, senza dover fare concretamente qualcosa che valga la valutazione, o la stima, altrui, è piuttosto pericolosa. E la pretesa di essere apprezzati per quello che decidiamo noi, e non per quello che un certo contesto ci richiede, lo è ancora di più. 

    Credo che se da un lato dobbiamo stare attenti alla svolta narcisistica nel calcio, e nello sport in genere, come pericolosa deriva di autarchia psichica, dall’altro dobbiamo prestare attenzione al suo più pericoloso, e inquietante, sottinteso: il narcisismo dilaga, e ci ha ormai preso la mano.

  • La notte della verità e il senso della psicoanalisi.

    La notte della verità e il senso della psicoanalisi.

    Quale verità?

    La fine della verità e l’esplosione del fake hanno condotto, come vediamo ogni giorno, al crollo della fiducia in qualunque tipo di comunicazione. La crisi del significato si accompagna, potremmo dire, alla crisi di credibilità del significante, ossia alla forma, o alla struttura, con cui un messaggio viene inviato. 

    Nella difficoltà di interpretare il significato di quello che ci accade, di attribuire un senso al nostro presente, dilaga, di conseguenza, qualunque forma di lettura, dalla più fantasiosa, alla più distorta. Come nella psicopatologia, che in molti casi altro non è che il tentativo di trovare un senso logico a qualcosa di incomprensibile. 

    Così assistiamo alla crisi endemica di ogni istituzione o sovrastruttura deputata alla lettura e all’interpretazione del senso e del significato: compreso il senso profondo dell’essere e del rapporto tra l’uomo e la sua stessa vita, il senso del rapporto tra l’uomo e i suoi simili, anche quelli vissuti in passato, o che vivranno in futuro, il senso del rapporto tra l’uomo e la natura, e, ultimo, anche se, ovviamente, non per ultimo, il senso del sacro, del religioso e del divino.

    Cuoricini

    Fuor di metafora. La politica non è più un modo per decriptare il presente e intuire una traiettoria in cui situarsi, e infatti la gente ha smesso di votare. L’arte, nelle sue varie forme, non è più creativa (nonostante le esponenziali opportunità offerte da 

    stampanti 3D, IA, e autotune), e stentiamo a cogliere in essa quel brivido di infinito che devono aver sentito i primi osservatori della Pietà di Michelangelo. Le chiese sono vuote, al punto che ci chiediamo se vi sia ancora una domanda di sacro e di infinito nell’uomo contemporaneo, o ci sia soltanto la più vuota rincorsa al “cuoricino”, ultima misura di valore individuale. 

    In questo scialbo inizio della fine (dove altro potremmo andare, se non verso l’inverno nucleare?), pare resistere un ultimo baluardo: quella serie di accidentate vicende che avvengono dietro la porta del dottor S. , e che prendono il nome, assai generalizzato, di psicoanalisi

    Psicoanalisi: una verità rivoluzionaria 

    La costellazione psicoanalitica di trattamenti si fonda su un’innegabile novità: nella relazione terapeutica viene presa in atto una verità sul paziente che è totalmente alternativa rispetto a quella a cui è abituato nella vita quotidiana, una verità talmente rivoluzionaria, da cambiare (radicalmente) il modo in cui egli sente di essere percepito. 

    Nella notte della lettura e dell’attribuzione di significato, direi la notte della verità, la psicoanalisi resta l’ultima vicenda umana e intellettuale, a fornire all’uomo odierno un incontro con le domande più pervasive della sua storia. I trattamenti sorti dalla teoria psicoanalitica sono gli ultimi a vincolarsi a un qualsivoglia algoritmo (purché fatti di persona), non dipendono dai sondaggi, non hanno per mercato che un solo individuo per volta. 

    Ecco che l’avventura “psi”, o meglio, la complessa raccolta di storie che avvengono intorno a quella scrivania, raccolta che soltanto ad un certo punto acquisirà statuto di romanzo, rimane, nella sua privata segretezza, l’ultima ad affrontare il senso dell’essere e del significato personale. E con buona pace della nostra immagine pubblica, quella così ben raccontata dai profili social, in cui siamo sempre vincenti, ultra performanti, e contornati da amici fantastici.  

  • One Mile Smile. Una storia d’amore e non solo.

    One Mile Smile. Una storia d’amore e non solo.

    Winslow, Arizona, 1886.

    La polvere si sollevava lieve sotto i passi di Jack mentre usciva dalla drogheria, il sole battente faceva luccicare i binari della ferrovia poco più in là. Fu in quel momento che la vide.

    Daniel era in piedi accanto al carretto del padre, una cesta di mele strette al petto. Il suo sguardo incrociò quello di Jack per un istante, e poi sorrise. Un sorriso lungo un miglio, uno di quelli che non si dimenticano. 

    Da allora, ogni notte, Jack sognava quel sorriso. E ogni notte si svegliava col cuore in gola, in preda a un’angoscia che non riusciva a spiegare.

    Sapeva bene che non avrebbe mai avuto il permesso di rivederla. “Lasciala stare, Jack,” gli aveva detto suo padre con quel tono che non lasciava spazio a repliche. Suo fratello maggiore lo aveva spinto contro la parete della stalla, ridendo amaro: “Dimenticala, prima che sia troppo tardi.”

    Ma era già troppo tardi.

    In un pomeriggio di fine estate, mentre le ombre si allungavano sulle colline, Jack salì alla vecchia miniera Duke. Portava con sé una bottiglia di liquore fatto in casa dal nonno, e perso nei suoi pensieri, beveva a piccoli sorsi. 

    Si avvicinò al bordo del dirupo. Il vento soffiava dal canyon, portando con sé l’odore della terra secca e del ferro. Jack estrasse dalla tasca un pezzo di carta,  scrisse alcune parole, e lo posò a terra, accanto alla bottiglia vuota.

    Quando i cercatori d’oro lo trovarono all’alba, il biglietto era ancora lì, appesantito da una pietra. C’era scritto solo questo:

    Jack and Daniel Forever.

  • Potere. Una storia di uffici e di ricatti.

    Potere. Una storia di uffici e di ricatti.

    Emanuele entrò in sala riunioni con il tablet in mano e il nodo alla cravatta stretto un po’ troppo. Era il più giovane tra i presenti, e l’aria densa di discorsi sottintesi lo mise a disagio. Sabrina sedeva a capotavola, la schiena dritta, lo sguardo che sembrava misurare ogni cosa.

    “Accomodati, ingegnere”. La sua voce era fredda, tagliente. Ma aveva un sorriso malizioso, di quelli che ti fanno chiedere se sei stato scelto o se sei solo stato preso di mira. Emanuele sedette alla sua destra, nel posto che la direttrice aveva tenuto libero per lui. Poi lei iniziò a parlare, snocciolando numeri e strategie. Aveva la sicurezza di chi sa che nessuno oserà metterla in discussione. Ogni tanto il suo sguardo tornava su di lui, indugiava, lo scrutava con un misto di sfida e compiacimento. E apriva nuovamente quel sorriso malizioso. 

    Quando la riunione finì, tutti uscirono rapidamente. Lui fece per seguirli, ma la voce di Sabrina lo fermò:

    “Emanuele, resta un attimo, per favore. Devo parlarti di una cosa”.

    Il giovane ingegnere si girò, cercando di mantenere un’espressione neutra. Lei si alzò, chiuse la porta con calma, si avvicinò. 

    “Ti trovi bene qui, Emanuele?”

    Lui annuì. “Certo, direttrice”. 

    “Bene.” La voce fredda divenne improvvisamente mielosa. Poi fece qualche altro passo in avanti. Ora il ragazzo poteva sentire il profumo costoso della donna. “Vedi Emanuele”, ancora quel sorriso malizioso, “Voglio essere sicura, come dire?” Con la mano sfiorò la sua cravatta. “Che tu sappia come funzionano le cose in questo ufficio.”

    Emanuele si irrigidì. Aveva capito benissimo. Il tono, la vicinanza, il profumo: era tutto chiaro, chiarissimo. Avrebbe potuto dire qualcosa, o arretrare. Ma il potere era tutto in quel momento, in quell’ufficio chiuso. Quella di Sabrina non era una domanda, ma l’affermazione di dominio su un territorio.

    “Certo, direttrice”. Le parole uscirono dalla sua bocca in maniera meccanica. 

    Quella sera, mentre tornava a casa, Emanuele ripensò a quel momento. Al gelo che gli era corso lungo la schiena, al sorriso di Sabrina: uno di quei sorrisi che non si dimenticano.