Società di massa borderline

Odio, rabbia, aggressività, sono sempre di più la cifra della società in cui ci muoviamo. L’insoddisfazione ci circonda, ma diversamente dal passato, ed è confermato da tutte le statistiche, invece di reagire in maniera propositiva, costruttiva, reagiamo distruggendo. Anzitutto a parole, ma non solo. 

Frammentazione 

La frammentazione dello spazio politico, sociale, economico ha determinato una frammentazione dell’identità. Non tanto e non solo nei termini in cui Ferenczi definiva la frammentazione interna (e inconscia) di parti scisse, sovente di origine traumatica; ma una frammentazione in parti distanti e difficilmente riconducibili a unica identità. 

Prendiamo la politica, per esempio. Un tempo gli schieramenti erano netti e definitivi,  ed esserne parte garantiva anche un sostegno all’identità. C’erano le sezioni sul territorio, i giornali, le reti tv con programmi dedicati, ecc…tutto questo aiutava anche a definire la propria identità. Oggi la politica è ultra frammentata, ed è molto più difficile identificare un progetto di appartenenza. Anzi, il partito del non voto ci dice che sono sempre meno quelli che si identificano in un progetto politico. 

Lo stesso vale per la religione e il rapporto con il sacro. Le chiese si svuotano, ma non c’è un travaso altrove. Le nuove generazioni praticano un blando ambientalismo, ma è ancora troppo poco, e poi ammetterete che l’impatto sull’identità individuale dato da un’appartenenza religiosa, non lo possa dare (almeno ad oggi) una filosofia ambientalista, per radicale che sia. 

Potrei fare altri esempi, come il clima impazzito, l’ascensore sociale, o il rapporto con i poveri del mondo, ma direi che ci siamo capiti. La frammentazione, lo spezzettamento, del contesto in cui ci muoviamo slabbra, di conseguenza, la nostra stessa identità: ci sfugge lo sguardo d’insieme, fatichiamo ad avere il controllo sulle variabili, aumenta il senso di impotenza. 

Professione hater: verso un mondo borderline?

Così prendono il sopravvento l’irritabilità, il livore, la rabbia. Si è persino diffusa una figura che un tempo non esisteva: lo hater, l’odiatore. Vomitare perenne insoddisfazione, e poi odio che diventa scoppio d’ira, quando meno te lo aspetti. Ai semafori, in assemblea di condominio, a scuola. Affrontare la frustrazione distruggendo, anzitutto a parole, ma non solo, però, rasenta la forma patologica che conosciamo nei nostri reparti, il disturbo borderline di personalità

La coesione del sé, negli anni dello sviluppo, va di pari passo con l’aumento delle competenze intellettive superiori, quelle che ci aiutano a generare strategie vincenti. 

Ecco una grande differenza rispetto al paziente con sindrome borderline. Il borderline ha un sé frammentato, ma non ha sviluppato la capacità di individuare modalità costruttive, evolutive, di risposta al suo malessere. Infatti sovente è incappato nella tossicodipendenza, nella farmacofilia, oppure in comportamenti a rischio, ecc. 

L’individuo con identità frammentata, ma che non ha ancora una personalità borderline, ha invece la capacità di individuare strade alternative. Ecco la direzione che dobbiamo seguire. La collettività sta scivolando verso la condizione borderline. Ma ritengo che ci sia ancora spazio per recuperare il senso di smarrimento dato dalla frammentazione sociale, e invertire la rotta dell’odio per l’odio, per tornare ad una prospettiva evolutiva. Ossia trasformare la rabbia in proposta, in azione costruttiva. Nessuno dice che sia facile, ma l’alternativa potrebbe essere il baratro. 

Capi che odiano sottoposti (e sono corrisposti).

In ambito aziendale è facile incontrare superiori che per ragioni professionali, personali, o per entrambe, detestano alcuni loro collaboratori. In questi casi solitamente la cosa è reciproca, nessuno si cura di nasconderla, e le ricadute sull’azione organizzativa sono evidenti anche all’esterno. 

Comunicazione

Posto che al mondo non sia possibile andare d’accordo con tutti, stare simpatici a tutti, essere amati e apprezzati da tutti, una minima capacità di adattamento è pur sempre necessaria in ogni ambito di vita collettiva. Nel lavoro siamo costretti a frequentare persone diverse da noi, e gli attriti che inevitabilmente nascono non devono interferire né su quello che facciamo, né tantomeno sulla nostra salute. 

Quando un superiore è sopraffatto dall’astio che prova verso un suo collaboratore viene meno una componente fondamentale del vivere organizzativo, la comunicazione. Se devo comunicare qualcosa ad una persona cui non amo relazionarmi, la comunicazione potrebbe risultare farraginosa, parziale o, nel peggiore dei casi, volutamente inesatta. Immaginiamo se questo avvenisse in ambito militare, o in un’azienda di prodotti chimici, o di trasporti, ecc… le ricadute per la collettività potrebbero essere enormi. 

Per questo è fondamentale che tutto quello che riguarda la “comunicazione”, ossia i flussi di informazioni tra livelli dell’organizzazione, e all’interno dei livelli, tra i vari  colleghi, sia gestito nella maniera più asettica possibile, lasciando fuori ogni antipatia o idiosincrasia individuale. 

Che in un’azienda ci sia una buona comunicazione è un fatto organizzativo, è una logica aziendale. La comunicazione è come il clima: non è buona o cattiva a priori, ma è diretta conseguenza delle scelte fatte (o non fatte) in merito.  

Leadership 

Se la comunicazione è un fatto organizzativo, la leadership è un fatto individuale, e inficiare il processo a causa di attriti personali è una sentenza sulla capacità di leadership di un superiore. 

Come tutti gli altri attori organizzativi anche il leader avrà simpatie e antipatie, e sarà più o meno stimato, più o meno apprezzato. Ma il leader che va in simmetria con un follower, anche il più ostico (vedremo altrove le dinamiche relative ai sottoposti insubordinati, ossia quelli che si oppongono alle logiche volute dall’azienda), un leader che scatena la sua antipatia utilizzando il potere affidatogli dalla struttura gerarchica, è un leader senza leadership, ossia un capo. 

Il capo è temuto, ma non rispettato dai suoi sottoposti, oggetto di scherno nelle loro conversazioni private, un luogotenente che non ha in mano il suo gruppo di lavoro. 

Il concetto di capo apre profonde riflessioni sulla leadership, sulla sua funzione all’interno di una struttura, e soprattutto sulle aspettative che si hanno a riguardo. Guidare il consenso non è facile, ma sopprimere il dissenso non è auspicabile, per lo meno se non si vuole mettere un tetto al livello del prodotto finale. 

Giovani sotto stress. La società senza politica, religione e passione per l’arte.

Gli Italiani non votano, non vanno più in chiesa, non amano la cultura. Il disinteresse, direi quasi il tedio, è rotto soltanto da una blanda forma di ambientalismo, che se non altro denota ancora la voglia di credere in qualcosa. Dagli Hikikomori (ragazzi che si chiudono alle relazioni) ai tentati suicidi, dagli accessi al pronto soccorso psichiatrico ai TSO, le forme di disagio giovanile dilagano, e nessuno riesce a proporre contromisure efficaci.  

Gli studenti e la politica

Le generazioni passate erano quelle dell’impegno politico, dei cortei, della partecipazione popolare alle decisioni sui diritti civili, sulle guerre, sulla vita pubblica. Oggi però la politica ha deluso, non lo scopro certo io, la gente si è stufata. Così l’astensionismo aumenta ad ogni tornata elettorale, e i partiti politici accusano chi non vota, invece di capire che anche il non voto è un messaggio. Fare politica è una passione, una ragione di vita. C’è chi ha scritto dei libri, sulla politica, chi per la politica è stato perseguitato, e chi ci ha rimesso la vita. In gran parte lo slancio ideale verso la politica appartiene ai giovani, ha a che fare con il mondo dei giovani. I giovani sanno essere grandi idealisti, sanno passare le notti a discutere di ipotesi, di alternative, di proposte. Così la disaffezione nei confronti della politica, per quanto colpisca l’intera società, fa più danni tra i giovani (o quelli che un tempo venivano genericamente chiamati gli “studenti”), la parte della società che naturalmente dovrebbe occuparsene.  

La passione per la politica ha almeno due importanti funzioni psicologiche e identitarie: canalizza le energie e costruisce significati. Se un giovane, poniamo, si iscrive a un partito politico, ne segue la vita e le tendenze culturali, ne appoggia le proposte e ne promuove la diffusione, da un lato incanala delle energie, per esempio l’aggressività, in una cornice di proposte concrete, dall’altro individua dei significati nella propria vita, e nel proprio operato, che vanno al di là della mera quotidianità, e anzi si spingono a coinvolgere le generazioni future. Per questo in passato è stato molto importante che i giovani si aggregassero a discutere di politica, perché il confronto, anche aspro, tra idee, posizioni, ipotesi, è certamente più proficuo e meno deleterio di un confronto tra sassaiole e bottigliate, come talvolta avviene, ad esempio, nel caso del tifo sportivo.  

Per questo si vede come la crisi della politica, il fatto che i giovani non credano più nei partiti e non ne seguano più la vita con passione, li lasci privi di un grande meccanismo di gestione e rivalutazione di condotte e di speranze. Senza politica i giovani stanno peggio.  

L’azione cattolica 

Un altro ambito che storicamente ha costituito fonte di aggregazione e di partecipazione attiva, è stato quello religioso. Nei decenni scorsi erano migliaia i giovani che partecipavano a eventi, meeting, percorsi spirituali proposti da organizzazioni religiose. Pensiamo al mondo cattolico, per esempio, alle giornate della gioventù, ai ritiri spirituali, alle gite parrocchiali

La disaffezione degli Italiani nei confronti della chiesa è reso evidente da un dato segnalato dalla CEI, Conferenza Episcopale Italiana: nelle scuole sono sempre meno gli alunni che chiedono di prendere parte alle lezioni di religione. Questo è preoccupante per un motivo: il sacro non suscita interesse, non è usato per interpretare la vita e il mondo. Come la politica, anche la spiritualità incanala energie che potrebbero essere disperse malamente, e offre un’opportunità di leggere il mondo, ossia di ragionare su cosa si potrebbe fare per migliorare questa o quell’altra cosa. Insomma, come la politica, la spiritualità è strettamente connessa alla “speranza”. 

Se le cose stanno nel modo in cui dice la religione, cosa sono io? E cosa sono, su cosa si basano, i rapporti con gli altri? Che cosa può dare senso alla mia giornata, alle mie notti, alle mie vacanze? Il senso del sacro è fortemente fondativo dell’identità, una società in cui gli individui non cercano il sacro, non credono nelle religioni, non si fanno domande filosofico – esistenziali, è una società che va in pasto all’economia, e abbiamo già detto altrove del pericolo che questo può rappresentare. 

Arte: cultura o provocazione? 

Veniamo ad un altro grande motore delle idealità e delle identità, la cultura. John Lennon, secondo alcuni il più grande artista del Novecento, disse di avere chiuso l’esperienza Beatles quando capì che la sperimentazione era finita, e che la loro arte si era trasformata in un unico grande business. Secondo John Lennon il business non è arte. Era un idealista, non c’è dubbio, e infatti da solo muoveva le masse. Ecco, un idealista muove le masse. Con l’idealismo non si mangia, lo sappiamo, ma si riempie la testa di pensieri, di significati, di speranze. E questo è tantissimo. A quanto pare i movimenti artistici si spostano sempre più dalla comunicazione alla provocazione, e gli artisti piegano le loro capacità tecniche in senso commerciale: per vendere si deve parlare di loro. Per qualcuno è certamente un bene, alcune proposte artistiche sono interessanti, non c’è dubbio, ma la provocazione non può diventare la ragione di tutta la pratica artistica. O quantomeno, se lo diventa lo fa a scapito dell’altro significato dell’arte, quello che in termini molto generali potremmo definire “fare cultura”.

Lo scivolamento dell’arte verso la provocazione a tutti i costi, verso la massificazione, verso i grandi numeri, è il terzo aspetto che credo importate sottolineare. L’arte come la politica e la religione sono moti interiori che costruiscono il senso dell’essere, che aiutano chi se ne occupa a costruire significati. 

Se le persone hanno perso la voglia di sognare, di sperare, di immaginare un mondo diverso, per forza di cose restano invischiate nel pantano del qualunquismo, per forza di cose restano vittime delle seduzioni della rete. 

Il disagio giovanile è il risultato catastrofico, tra l’altro, di questo impoverimento passionale per la vita, per le sue attività sociali, per quel sogno del domani che ci culla ogni sera quando ci addormentiamo. 

Il disagio è strettamente correlato alla patologia mentale, che sovente non è altro che l’aumento a proporzioni insostenibili di quello stesso disagio. E il primo passo per contrastare il disagio è riempire l’essere di sogni, di speranze, di slanci vitali. 

Il secondo passo sarà, poi, quello di riempirlo di relazioni vitali, di affetti, di progetti condivisi. Ma come diceva Michael Ende, questa è tutta un’altra storia, e ne parleremo un’altra volta. 

8 marzo e femminismo. Il discorso mai concluso sulla violenza di genere.

Una donna su tre

Una donna su tre afferma di essere stata vittima di violenza nel corso della vita, ossia circa il 33 per cento del totale. Tra queste una su sette afferma che la violenza sia stata di matrice sessuale

Se a questo dato aggiungiamo che gli uomini in questione non sono gli stessi due o tre che vanno in giro ad aggredire e violentare, appare chiaro che il tema ‘violenza nella coppia’, o se preferite ‘violenza di genere’, coinvolge un numero spaventosamente alto di individui. 

Parlare di violenza di genere in ambito femminismo e parità di diritti, pertanto, è difficile e pericoloso. Da un lato si rischia di mettere fuorilegge milioni di uomini, accusandoli di avere fatto violenze che forse neppure hanno compreso. Dall’altro significa mettere e al bando milioni di donne, accusandole di avere caratteri deboli e di ripetere gli stessi vecchi errori nelle relazioni affettive. 

Le cose tuttavia sono più complesse di così, e infatti nel femminismo contemporaneo il discorso sulla violenza di genere, per quanto affrontato migliaia di volte, non è mai stato portato ad una conclusione.

Femminicidio e diritto di proprietà

Lo snodo cruciale che dovrebbe fare convergere gli sforzi del neo femminismo contemporaneo (ma vi prego troviamogli un altro nome) è quello del femminicidio

In genere si guarda al femminicidio (circa 300 casi all’anno in Italia) come a un evento raro e lontano, che riguarda persone strane, violente, distanti dal nostro modo di vivere. Qui sta il punto fondamentale del femminismo odierno, nel sottovalutare la portata culturale del femminicidio. 

Il femminicida e la sua vittima non sono necessariamente persone strane e avulse dal contesto sociale, anzi, tutt’altro. Il presupposto culturale di base, non ideologico si badi bene, ma socio culturale, del femminicidio è il diritto di proprietà. 

Il mio smartphone è un oggetto soltanto mio, come la mia automobile, la mia chitarra, o la custodia dei miei occhiali. Se questi oggetti sono miei ne posso disporre in maniera totale, e posso stabilire se tenerli, regalarli ad altri o gettarli nel cestino. Il femminicidio è l’estensione del diritto di proprietà ad una persona. 

Il femminicidio è il banco di prova del femminismo contemporaneo: si deve comprendere che si tratta della punta di un iceberg, un iceberg che rappresenta il disconoscimento dell’altro come individuo autonomo e indipendente. 

Il punto non è la violenza: tanta o poca che sia non fa molta differenza. Il punto vero è il diritto di proprietà. Se credo che una persona mi appartenga, che non sia degna di fare un passo senza la mia approvazione, sto già facendo una violenza di proporzioni inaudite. 

Il discorso sulla ‘violenza nella coppia’, o ‘violenza di genere’ se preferite, non è mai stato portato a conclusione perché non si è mai concentrato sul concetto di proprietà. Ecco su cosa devono insistere le azioni educative, i convegni, le tavole rotonde, del femminismo contemporaneo. Ammesso che se ne facciano ancora. 

Il narcisista e la sua distruttività

Un narcisista può distruggere un amore, un’amicizia, un’intera collettività. 

Il disprezzo che il narcisista è in grado di scatenare quando sente di non essere al centro dell’attenzione, di non essere riconosciuto come il migliore, il più bello o il più speciale, può assumere caratteristiche devastanti, per chi ha intorno e di conseguenza anche per se stesso. 

Avere una personalità narcisistica non è una cosa positiva, molto spesso è sinonimo di infelicità.

La vittima del narcisista

La vittima del narcisista, sovente un partner, è esasperata. Vaga alla ricerca di una modalità definitiva per soddisfare questo individuo, senza trovarla, perché non esiste. 

Il vuoto cosmico del narcisista è una fame antica di sguardi e carezze che non dipendano dalla sua esteriorità, o dall’esteriorità di ciò che fa, ma dal valore intrinseco di individuo che egli è. La vittima continua a rinforzare il narcisista su aspetti esteriori del suo operato, come da sua apparente richiesta, rafforzandone, però, in questo modo, la modalità narcisistica e soprattutto scavandone ulteriormente il buco nell’anima. 

Al termine di una relazione, la vittima è stremata, ha perso ogni stima di sé, perché ha visto il proprio amore incapace di soddisfare. Al termine di un’amicizia le vittime del narcisista si sentono svuotate, ma al contrario del partner in loro non c’è delusione, ma solo acredine. 

Un narcisista può anche guidare una collettività, ed il caso peggiore. Quando il narcisismo maligno si scatena, la sua furia può distruggere un intero popolo.  

Esiste un narcisismo buono? 

A questo punto una discussione di buon senso è: esiste una forma moderata, adeguata, sana di narcisismo

Ora, un individuo che non pretenda di essere al centro dell’attenzione, o di essere servito e riverito, o che in una discussione non pretenda di avere ragione a priori non dovrebbe neppure acquisire titolo di narcisista. Del resto se parliamo di una incapacità di relazionarsi con gli altri da pari a pari, di ascoltare e mettersi in relazione, di aprirsi ad un confronto, ‘narcisismo’ è una condizione regressiva, che può essere anche patologica a seconda dei casi. 

Tuttavia amo molto riferirmi a competenze narcisistiche, tratti narcisistici, diciamo pure attitudini narcisistiche come a qualcosa di vitale per l’individuo, se non di profondamente salvifico. 

Se non esiste un ‘narcisismo sano’, credo ci possa essere una modalità di ‘sano narcisismo’: ossia un approccio alle cose e alle situazioni che sia di serafico distacco e di ironica superiorità. Forse qualcuno ha già capito dove voglio arrivare. 

Il mio ultimo libro

Il Kintsugi dell'anima

Una raccolta di scritti brevi che offre speranza e crescita personale, affrontando temi universali come famiglia, lavoro, sport e attualità. Invita i lettori a scoprire opportunità di miglioramento anche nelle difficoltà, trasformando la fragilità in forza.