Giovani sotto stress. La società senza politica, religione e passione per l’arte.

Gli Italiani non votano, non vanno più in chiesa, non amano la cultura. Il disinteresse, direi quasi il tedio, è rotto soltanto da una blanda forma di ambientalismo, che se non altro denota ancora la voglia di credere in qualcosa. Dagli Hikikomori (ragazzi che si chiudono alle relazioni) ai tentati suicidi, dagli accessi al pronto soccorso psichiatrico ai TSO, le forme di disagio giovanile dilagano, e nessuno riesce a proporre contromisure efficaci.  

Gli studenti e la politica

Le generazioni passate erano quelle dell’impegno politico, dei cortei, della partecipazione popolare alle decisioni sui diritti civili, sulle guerre, sulla vita pubblica. Oggi però la politica ha deluso, non lo scopro certo io, la gente si è stufata. Così l’astensionismo aumenta ad ogni tornata elettorale, e i partiti politici accusano chi non vota, invece di capire che anche il non voto è un messaggio. Fare politica è una passione, una ragione di vita. C’è chi ha scritto dei libri, sulla politica, chi per la politica è stato perseguitato, e chi ci ha rimesso la vita. In gran parte lo slancio ideale verso la politica appartiene ai giovani, ha a che fare con il mondo dei giovani. I giovani sanno essere grandi idealisti, sanno passare le notti a discutere di ipotesi, di alternative, di proposte. Così la disaffezione nei confronti della politica, per quanto colpisca l’intera società, fa più danni tra i giovani (o quelli che un tempo venivano genericamente chiamati gli “studenti”), la parte della società che naturalmente dovrebbe occuparsene.  

La passione per la politica ha almeno due importanti funzioni psicologiche e identitarie: canalizza le energie e costruisce significati. Se un giovane, poniamo, si iscrive a un partito politico, ne segue la vita e le tendenze culturali, ne appoggia le proposte e ne promuove la diffusione, da un lato incanala delle energie, per esempio l’aggressività, in una cornice di proposte concrete, dall’altro individua dei significati nella propria vita, e nel proprio operato, che vanno al di là della mera quotidianità, e anzi si spingono a coinvolgere le generazioni future. Per questo in passato è stato molto importante che i giovani si aggregassero a discutere di politica, perché il confronto, anche aspro, tra idee, posizioni, ipotesi, è certamente più proficuo e meno deleterio di un confronto tra sassaiole e bottigliate, come talvolta avviene, ad esempio, nel caso del tifo sportivo.  

Per questo si vede come la crisi della politica, il fatto che i giovani non credano più nei partiti e non ne seguano più la vita con passione, li lasci privi di un grande meccanismo di gestione e rivalutazione di condotte e di speranze. Senza politica i giovani stanno peggio.  

L’azione cattolica 

Un altro ambito che storicamente ha costituito fonte di aggregazione e di partecipazione attiva, è stato quello religioso. Nei decenni scorsi erano migliaia i giovani che partecipavano a eventi, meeting, percorsi spirituali proposti da organizzazioni religiose. Pensiamo al mondo cattolico, per esempio, alle giornate della gioventù, ai ritiri spirituali, alle gite parrocchiali

La disaffezione degli Italiani nei confronti della chiesa è reso evidente da un dato segnalato dalla CEI, Conferenza Episcopale Italiana: nelle scuole sono sempre meno gli alunni che chiedono di prendere parte alle lezioni di religione. Questo è preoccupante per un motivo: il sacro non suscita interesse, non è usato per interpretare la vita e il mondo. Come la politica, anche la spiritualità incanala energie che potrebbero essere disperse malamente, e offre un’opportunità di leggere il mondo, ossia di ragionare su cosa si potrebbe fare per migliorare questa o quell’altra cosa. Insomma, come la politica, la spiritualità è strettamente connessa alla “speranza”. 

Se le cose stanno nel modo in cui dice la religione, cosa sono io? E cosa sono, su cosa si basano, i rapporti con gli altri? Che cosa può dare senso alla mia giornata, alle mie notti, alle mie vacanze? Il senso del sacro è fortemente fondativo dell’identità, una società in cui gli individui non cercano il sacro, non credono nelle religioni, non si fanno domande filosofico – esistenziali, è una società che va in pasto all’economia, e abbiamo già detto altrove del pericolo che questo può rappresentare. 

Arte: cultura o provocazione? 

Veniamo ad un altro grande motore delle idealità e delle identità, la cultura. John Lennon, secondo alcuni il più grande artista del Novecento, disse di avere chiuso l’esperienza Beatles quando capì che la sperimentazione era finita, e che la loro arte si era trasformata in un unico grande business. Secondo John Lennon il business non è arte. Era un idealista, non c’è dubbio, e infatti da solo muoveva le masse. Ecco, un idealista muove le masse. Con l’idealismo non si mangia, lo sappiamo, ma si riempie la testa di pensieri, di significati, di speranze. E questo è tantissimo. A quanto pare i movimenti artistici si spostano sempre più dalla comunicazione alla provocazione, e gli artisti piegano le loro capacità tecniche in senso commerciale: per vendere si deve parlare di loro. Per qualcuno è certamente un bene, alcune proposte artistiche sono interessanti, non c’è dubbio, ma la provocazione non può diventare la ragione di tutta la pratica artistica. O quantomeno, se lo diventa lo fa a scapito dell’altro significato dell’arte, quello che in termini molto generali potremmo definire “fare cultura”.

Lo scivolamento dell’arte verso la provocazione a tutti i costi, verso la massificazione, verso i grandi numeri, è il terzo aspetto che credo importate sottolineare. L’arte come la politica e la religione sono moti interiori che costruiscono il senso dell’essere, che aiutano chi se ne occupa a costruire significati. 

Se le persone hanno perso la voglia di sognare, di sperare, di immaginare un mondo diverso, per forza di cose restano invischiate nel pantano del qualunquismo, per forza di cose restano vittime delle seduzioni della rete. 

Il disagio giovanile è il risultato catastrofico, tra l’altro, di questo impoverimento passionale per la vita, per le sue attività sociali, per quel sogno del domani che ci culla ogni sera quando ci addormentiamo. 

Il disagio è strettamente correlato alla patologia mentale, che sovente non è altro che l’aumento a proporzioni insostenibili di quello stesso disagio. E il primo passo per contrastare il disagio è riempire l’essere di sogni, di speranze, di slanci vitali. 

Il secondo passo sarà, poi, quello di riempirlo di relazioni vitali, di affetti, di progetti condivisi. Ma come diceva Michael Ende, questa è tutta un’altra storia, e ne parleremo un’altra volta. 

8 marzo e femminismo. Il discorso mai concluso sulla violenza di genere.

Una donna su tre

Una donna su tre afferma di essere stata vittima di violenza nel corso della vita, ossia circa il 33 per cento del totale. Tra queste una su sette afferma che la violenza sia stata di matrice sessuale

Se a questo dato aggiungiamo che gli uomini in questione non sono gli stessi due o tre che vanno in giro ad aggredire e violentare, appare chiaro che il tema ‘violenza nella coppia’, o se preferite ‘violenza di genere’, coinvolge un numero spaventosamente alto di individui. 

Parlare di violenza di genere in ambito femminismo e parità di diritti, pertanto, è difficile e pericoloso. Da un lato si rischia di mettere fuorilegge milioni di uomini, accusandoli di avere fatto violenze che forse neppure hanno compreso. Dall’altro significa mettere e al bando milioni di donne, accusandole di avere caratteri deboli e di ripetere gli stessi vecchi errori nelle relazioni affettive. 

Le cose tuttavia sono più complesse di così, e infatti nel femminismo contemporaneo il discorso sulla violenza di genere, per quanto affrontato migliaia di volte, non è mai stato portato ad una conclusione.

Femminicidio e diritto di proprietà

Lo snodo cruciale che dovrebbe fare convergere gli sforzi del neo femminismo contemporaneo (ma vi prego troviamogli un altro nome) è quello del femminicidio

In genere si guarda al femminicidio (circa 300 casi all’anno in Italia) come a un evento raro e lontano, che riguarda persone strane, violente, distanti dal nostro modo di vivere. Qui sta il punto fondamentale del femminismo odierno, nel sottovalutare la portata culturale del femminicidio. 

Il femminicida e la sua vittima non sono necessariamente persone strane e avulse dal contesto sociale, anzi, tutt’altro. Il presupposto culturale di base, non ideologico si badi bene, ma socio culturale, del femminicidio è il diritto di proprietà. 

Il mio smartphone è un oggetto soltanto mio, come la mia automobile, la mia chitarra, o la custodia dei miei occhiali. Se questi oggetti sono miei ne posso disporre in maniera totale, e posso stabilire se tenerli, regalarli ad altri o gettarli nel cestino. Il femminicidio è l’estensione del diritto di proprietà ad una persona. 

Il femminicidio è il banco di prova del femminismo contemporaneo: si deve comprendere che si tratta della punta di un iceberg, un iceberg che rappresenta il disconoscimento dell’altro come individuo autonomo e indipendente. 

Il punto non è la violenza: tanta o poca che sia non fa molta differenza. Il punto vero è il diritto di proprietà. Se credo che una persona mi appartenga, che non sia degna di fare un passo senza la mia approvazione, sto già facendo una violenza di proporzioni inaudite. 

Il discorso sulla ‘violenza nella coppia’, o ‘violenza di genere’ se preferite, non è mai stato portato a conclusione perché non si è mai concentrato sul concetto di proprietà. Ecco su cosa devono insistere le azioni educative, i convegni, le tavole rotonde, del femminismo contemporaneo. Ammesso che se ne facciano ancora. 

Cosa non ha funzionato del femminismo? La risposta sbagliata ad una giusta domanda.

Oggi nel mondo la politica è un fatto sostanzialmente maschile, la religione è un fatto sostanzialmente maschile, i grandi gruppi economici sono gestiti sostanzialmente al maschile. Dovremmo concludere, senza troppa retorica, che il femminismo ha fallito? 

Da Simone de Beauvoir alle Pussy Riot

Il punto di partenza di ogni filosofia femminista è dimostrare che i generi non hanno un ordine di importanza, e non è dal genere che discende il peso che uno acquisisce nella società. 

Tuttavia i femminismi si declinano solitamente in azioni che paradossalmente negano la parità e sostengono la superiorità femminile. La conseguenza è un irrigidimento delle posizioni, ossia un aumento della conflittualità anziché una sua diminuzione. 

Il muro contro muro conduce la parte forte ad arroccarsi sui privilegi consolidati per spostare il focus dello scontro su altri livelli, diversi da quelli in questione. Trovo eccezionali a tale proposito le parole di Lorenza Foschini, grande giornalista Rai.  Dopo essere giunte, insieme ad altre grandi firme femminili, a condurre i TG della sera, alla metà degli anni Novanta si accorsero che i direttori di testata, di rete e i direttori generali erano tutti uomini. ‘A quel punto’ disse la Foschini ‘abbiamo capito di essere state giocate: il potere non stava nel leggere il Tg, come per anni ci avevano fatto capire.’

Così ai tempi di Chiara Ferragni, come a quelli di Simone de Beauvoir, ai grandi propositi, ai grandi discorsi, fanno seguito proposte spartane, urlate, non ragionate. Valga per tutte quella delle famose incursioni delle ‘Pussy Riot’, le ragazze che nude aggrediscono personaggi famosi. Le reazioni che scatenano queste proteste sono più estreme e rigide delle intenzioni che le hanno originate.

Femminismo da piazza e da salotto.

La contrapposizione muro contro muro cementa l’identità, ma è una forzatura nazional populista dei presupposti del femminismo. Non c’è una sola rima in Christine de Pizan, una sola pagina di Simone de Beauvoir, un solo accenno nell’intera opera di Julia Kristeva che ammicchi allo scontro, alla contrapposizione, all’invettiva di piazza. 

Dividere i femminismi in quelli da piazza e quelli da salotto è un modo per fare del male al femminismo, e per rafforzare, in sostanza, le posizioni dello status quo.

L’errore strategico del femminismo, perciò, è stato quello di volgarizzare lo scontro, di esacerbare le distanze, di chiedere riconoscimento di diritti sotto minaccia (sovente di stampo sessuale) dimenticando che nel rapporto tra generi uno sa ancora fare molto male, come  mostrano i dati sul femminicidio.  

E’ ancora tempo di femminismo?

Oggi nel mondo, come dicevo, la politica, le religioni, il potere economico sono gestiti sostanzialmente al maschile. La nostra cultura, se vuole davvero essere la più liberale, deve trovare il modo di garantire la pari dignità a tutti i cittadini, come peraltro va affermando nei suoi principi generali. 

Ritengo che il movimento femminista debba anzitutto liberarsi dai connotati ‘sessisti’, perché la libertà della donna non può essere un obiettivo delle donne, ma di tutta la società. Ripulire dal dibattito gli elementi di scontro significa eliminare per esempio termini come ‘maschilismo’, ‘patriarcato’, o lo stesso termine ‘femminismo’. Favorire l’incontro significa sfavorire lo scontro. 

Ancora una volta il ragionamento converge su Julia Kristeva, la sua opera, il suo sforzo di unire il buono che c’è nelle religioni, nelle filosofie, nella psicoanalisi: il ritorno all’umano. Nello scontro di società che sotto traccia serpeggia nel nostro tempo potrebbe essere proprio la questione del femminile a spostare l’ago della bilancia della storia. Qualcuno si sente pronto?

Padri assenti: ‘presenti nell’ombra’, ‘non pervenuti’, ‘evasi’.

Un padre può risultare assente per ragioni indipendenti dalla sua volontà. La mia intenzione qui non è quella di accusare, ma di analizzare serenamente, nel tentativo di comprendere; Aiutare i figli a capire come e perché hanno sentito un vuoto da quella parte, e aiutare i padri a prendere coscienza di come alcuni loro atteggiamenti potrebbero essere letti, contro la loro stessa intenzione, come disinteresse.

Fasi diverse, percezioni diverse 

Il peso del padre nella vita di un ragazzo o di una ragazza oscilla in maniera diversa a seconda della fase di crescita. Durante l’infanzia i bambini hanno bisogno di una presenza fisica, concreta, intendo anche a livello di affettuosità. Andare a scuola, agli allenamenti, o in vacanza non è la stessa cosa senza un padre, o senza la presenza tangibile di un padre. Durante l’adolescenza invece la presenza deve essere meno fisica e un po’ più psichica. I ragazzi vogliono sentirsi meno pressati, meno controllati, ma non per questo meno considerati, spronati, o anche ostacolati, nel caso facessero cose al limite del lecito. 

Metto in evidenza almeno tre casi in cui un padre possa essere percepito come assente. 

Padri ‘nell’ombra’

Il primo è quello degli uomini presenti, ma nell’ombra. In questi casi il padre c’è ma soltanto sullo sfondo: è una sagoma seduta sul divano, senza voce, e il cui sguardo non si posa mai sul figlio. La madre bada a tutte le esigenze del bambino, lo aiuta nei compiti, incontra gli insegnanti, ecc…, ma ogni tanto agita lo spettro paterno: ‘guarda che lo diciamo a tuo padre’, oppure ‘se lo scopre papà sono dolori’.

Questi padri non si vedono, sono muti, ma esistono, si percepisce che ci sono. A loro è sempre garantito un posto a tavola, per esempio, o un posto alla recita di fine anno; I figli faranno sempre loro una telefonata dall’aeroporto, poche parole formali, per dovere di cronaca. E’ poca roba, d’accordo, ma è pur sempre qualcosa. Il figlio ha verso il padre una specie di timore reverenziale, non di più; Del resto il padre non ha neppure mai niente da dirgli, nel bene come nel male. Così il figlio sente questo padre come assente, lo ricorderà a posteriori come assente, pur se di fatto era in casa, vivevano sotto lo stesso tetto. 

Padri ‘non pervenuti’

Ben diversa la situazione dei padri che potremmo definire ‘non pervenuti’. Il padre non pervenuto è un uomo che viaggia molto, o passa il suo tempo fuori casa: in cantina a fare le sue cose, come si usava un tempo, oppure al bar con gli amici, oppure in qualunque altro luogo o situazione che non sia a casa con il resto della famiglia. Il padre ‘non pervenuto’ manca tutti gli appuntamenti importanti della vita dei figli. Il saggio di danza, il primo concerto, l’esame per la patente. Questi padri hanno impegni inderogabili, e i figli passano la vita ad allungare il collo nella speranza di vederseli arrivare, di vederli presenti, ma invano. I figli di questi uomini non di rado covano dei risentimenti, perché hanno l’impressione di essere messi sempre al secondo posto.

Padri ‘evasi’

Infine c’è il padre ‘evaso’. E’ quello che ha vissuto una vita di coppia travagliata, conclusa con una separazione conflittuale. Secondo le sue intenzioni ha abbandonato i figli nelle grinfie della madre ed è scappato a rifarsi un’altra vita. Nella percezione del figlio, invece, il padre evaso è una specie di traditore, un codardo, che ha lasciato la nave in balia della tempesta anziché dare il suo contributo per aiutare i passeggeri. 

Il figlio del padre evaso non nutre disillusione o risentimento: può arrivare a sviluppare un rancore molto profondo per il genitore, anzi a generare man mano un astio verso tutto ciò che assume caratteristiche ‘paterne’, come per esempio gli insegnanti o le autorità. Se un figlio (o una figlia) percepisce il padre come un vile che lo ha abbandonato, può arrivare a detestare gli uomini, e in certi casi persino a rinunciare ad avere una famiglia propria, per non avere mai più a che fare con un ruolo come il suo.    

Perché gli italiani non votano? Non chiamatela depressione

Un autorevole editorialista ha sentenziato che la causa del recente astensionismo alle regionali di Lazio e Lombardia sarebbe la depressione. E ha pure insistito: i partiti politici non si chiedano se è meglio candidare questo o quel personaggio, ma si dedichino allo studio dei depressi e della depressione. 

Ora, è evidente che se questo editorialista ha dei dati epidemiologici che definiscono il 60 per cento degli abitanti di Lazio e Lombardia come depressi debba comunicarli al ministero competente. Sarà certamente lesto ad analizzarli e trarne le debite considerazioni. In caso contrario, però, credo sia bene puntualizzare almeno due aspetti. 

La depressione è una malattia che può essere molto grave

Il primo è che la depressione – nelle sue varie forme – è una malattia altamente invalidante: trasforma la vita delle persone che ne soffrono, nonché quella delle persone che esse hanno intorno. 

Se non curata la depressione incide fortemente sulla vita di un individuo, distorce le traiettorie della sua esistenza. Non soltanto quell’individuo potrebbe essere felice mentre non lo è, potrebbe anche fare e dire molte cose che invece non riuscirà mai a fare o dire: esprimere i suoi sentimenti, aiutare gli altri, avere degli hobby ecc… . 

La fatica, il travaglio, la disperazione con cui molti depressi guardano alla vita possono contagiare figli, fratelli, famigliari, nelle modalità più diverse. Per non dire che molti sviluppano rapporti morbosi con psicofarmaci o con droghe, nel tentativo di autoregolare il loro umore, ma incappando in un fai da te farmacofilico e inefficace. 

Per questo chiedo agli analisti politici di avere più rispetto della depressione: un cliente davvero molto brutto, che fa ironizzare soltanto chi ha avuto la fortuna di non vederlo mai da vicino.

L’errore non è mio, siete voi…

Il secondo aspetto è che, come ho già detto altre volte, è fuorviante porre fuori da noi la causa di un problema che ci riguarda. Dire che gli astensionisti siano depressi è riduttivo e semplicistico. Da psicoterapeuta non posso che fare notare il pericolo dietro al dire: la tale cosa non va perché tizio caio sempronio non vuole capire sentire ammettere adeguarsi interessarsi informarsi (in ultima analisi adattarsi.) 

Porre fuori da noi la spiegazione di qualcosa che ci riguarda e non funziona è una forma di difesa comprensibile, ma che non migliora le cose. Se quello che faccio non va anzitutto devo fare autocritica. 

La costruzione di un senso del mondo che separa nettamente me uguale buono da altro da me uguale cattivo è una costruzione che consente l’adattamento, non c’è dubbio. Ma un adattamento che si basa sull’incomunicabilità. E’ come tornare mentalmente ai tempi del muro di Berlino. Chi è di qua, con me, ha ragione. Chi è di là, con te, ha torto. Se la storia insegna qualcosa, dovemmo provare a superarlo.   

Generazione influencer: da anticonformisti a moltiplicatori di conformismo

Come detto in un precedente articolo siamo una generazione di (aspiranti) influencer

Non c’è niente di male sia chiaro, anzi è buon segno volersi rapportare agli altri in termini di guida, leader, following: significa che crediamo in noi stessi e pensiamo di poter aiutare il prossimo, consigliarlo, illuminarlo.   

Tuttavia c’è qualcosa che non mi torna nella dinamica ‘sé – altri’, specie se rapportata a quella in voga prima dei social networks

Anticonformismo

Prima del web distinguevi le persone eccentriche perché erano stravaganti. In tv si aggiravano personaggi che parlavano e vestivano in maniera stana, persino buffa, e coniavano termini che la gente ripeteva per darsi un tono o per ridere tra amici. E’ il caso del giornalista Giampiero Mughini, e del suo famoso ‘aborro’, o prima di lui del professor Gianluigi Marianini, reso noto dal programma ‘Lascia o raddoppia’ di Mike Bongiorno. O di altri che hanno avuto minor successo, come il cantante Adriano Celentano, meteora come presentatore del varietà televisivo. 

L’eccentrico era anzitutto anticonformista. C’era un conformismo di facciata, democristiano, potremmo dire: istituzionale, rassicurante, vestito grigio e cravatta. E poi c’era l’anticonformismo: farsi notare, rompere gli schemi.

Alla lunga, poi, questa cosa di rompere gli schemi si è un po’ arenata: bisognava capire anzitutto quali fossero gli schemi da rompere, ed era lì che il discorso si faceva più complicato. Ossia, tutti ammettevano l’esistenza di schemi dettati dalla società, ma era scarso il consenso su quali fossero, perché ciascuno intendeva i propri. 

Così ad un certo punto, (imperava il relativismo e il pensiero debole) ci si è resi conto  che ciascuno poteva essere anticonformista a modo proprio, e quindi, in sostanza, essere anticonformisti era diventata una nuova forma di conformismo. Insomma, non se ne usciva più. 

Molto più che leader: influencer

Oggi il web ha trasformato la voglia di protagonismo da eccentricità a esempio. L’influencer è un moltiplicatore di conformismo, un maître à penser che trasforma un sentire collettivo in espressione verbale: se vogliamo l’influencer è l’omologazione elevata a potenza, anzi a regola di vita. Quanti più followers riesco a convincere che si deve vivere come me, tanto più le regole del web (leggi: regole del mercato) mi sapranno premiare. 

Se l’anticonformista, l’anticonvenzionale, il ribelle protorivoluzionario, erano in fondo una sfida (per quanto conformista) alla società di massa, l’influencer è l’adeguamento all’irreversibile stato di cose. E’ accettare che se non è più possibile emergere come alternativi, tanto vale provare a emergere come super adattati. 

Baby alcol: il falso sé social alla prova del gruppo

Le spaventose rivelazioni di Espad sui baby alcolisti confermano dati già nell’aria da alcuni anni. ‘Un milione di italiani tra i 10 e i 14 anni già si sbronza. E il 66 per cento lo ha fatto tra i 15 e i 17 anni’ (fonte La Stampa-Instagram). 

Generazione Influencer

Il modello base dei rapporti tra adolescenti è giocoforza il social network. Non è un giudizio di valore, sia chiaro, ma una constatazione di fatto. Quasi tutti i ragazzi hanno almeno un account social, che costituisce un’estensione, se non un completamento, della loro personalità. Di conseguenza le relazioni tra coetanei, amicizie, rivalità, amori ecc… se non nascono direttamente in rete, certamente vengono aiutate, puntellate, riempite, dalla componente virtuale della loro personalità. 

Fin qui niente di male. Il social networking, però, porta una conseguenza. L’immagine di me che tenderò a dare sul profilo sarà sempre un po’ più cool, un po’ più trendy, un po’ più performante della realtà. Non significa che il mio profilo sarà un fake, ma che le informazioni (e soprattutto le foto di quello che faccio) baderanno un po’ più all’aspetto piacevolezza, strizzeranno l’occhio al mio follower, per il quale, c’è da scommetterci, vorrei avere il ruolo di ‘influencer’ .

Anche fino a qui, se vogliamo, niente di male. E’ del tutto legittimo voler dare di sé un’immagine di persona piacevole, che fa cose divertenti, che ha una vita piena e felice. Fa parte del gioco, anzi sarebbe strano il contrario. Le relazioni però, ad un certo punto, si devono vivere in presenza, di persona, ed è qui che le cose si complicano.  

Quanti likes hai?

Prima dei social network andavi a scuola e soltanto lì incontravi i compagni di classe. Se nascevano simpatie ci si vedeva fuori dal contesto. Prima solo per un caffè, poi un’altra volta si andava al cinema, così con alcuni si arrivava alla pizza, e a lungo andare con altri alle vacanze estive di gruppo. Era un conoscere sempre meglio persone che già frequentavi, e che a vari livelli sentivi affini. Il gruppo dello stadio, il gruppo dei concerti, quello del calcetto. Una volta raggiunti gli amici in birreria tutti sapevano già chi eri, non dovevi ricoprire un ruolo, se non marginalmente. 

La generazione social ha una difficoltà in più nelle relazioni: si porta dietro i followers e i likes del social network. Quando oggi un adolescente incontra gli amici sente il peso dei suoi followers e dei suoi likes: non può tradire la propria reputazione. Così ad una festa di coetanei ci sono ragazzi che cercano anzitutto di confermare l’immagine che gli altri si sono fatti attraverso il suo profilo social, e come abbiamo detto è cosa ardua, se il profilo strizza l’occhio al follower.

Baby alcol

Il consumo smodato di alcol tra giovani e giovanissimi è certamente correlato anche alla necessità di apparire spigliati, simpatici, sicuri di sé. In altre parole al sostegno di un falso sé, un sé idealizzato, unicamente piacevole e ‘social’. 

La riflessione torna così sulla difficoltà di aprirsi e lasciarsi incontrare in maniera autentica da altre persone, ma che è anche difficoltà di voler incontrare, di voler conoscere. In questo modo la responsabilità non ricade più sulle reti o sull’uso che ne facciamo, ma unicamente sulla reale disposizione, disponibilità, con la quale ci rapportiamo agli altri. 

Come si vede queste riflessioni valgono per tutti non solo per i più giovani. Essi talvolta non hanno alternative: non hanno mai conosciuto o frequentato gli altri in un’epoca senza social networks.

Goblin Mode: il diritto alla sciatteria

Il Goblin Mode è vivere il diritto di essere impresentabili, sciatti, di stare in pubblico come se si fosse in casa propria. Il Goblin Mode configge con gli stereotipi del bello e delle apparenze, ma può venire frainteso come forma di scortesia o disprezzo verso gli altri. E’ molto interessante che si sia diffuso in questo nostro tempo, e non per esempio negli anni Ottanta. 

Frammentazione 

Frammentazione è la parola chiave per capire il nostro presente. 

C’è stata un’epoca liquida, non c’è dubbio, in cui l’informazione ‘running water’ ha accompagnato il progressivo fluidificarsi della società e di conseguenza della nostra identità. O per essere più chiari del nostro modo di vedere le cose, di pensare e di relazionarci agli altri. Dopo le diverse crisi economiche, la pandemia da Covid-19 e la guerra nel cuore d’Europa, invece, siamo precipitati in un’epoca di frammentazione

Il quadro economico e politico che ci circonda è stato per molti anni più o meno stabile. Oggi invece tra nuove professioni in ascesa e vecchie professioni in declino, e tra vecchi partiti al collasso e nuovi partiti che cercano di sostituirli, vediamo una situazione altamente polverizzata. 

Di conseguenza la frammentazione si è impadronita di noi: facciamo cose frammentate, pensiamo cose frammentate, abbiamo contratti di lavoro, condizioni economiche, relazioni affettive, interi pezzi di identità frammentati. Siamo schegge di un muro, tessere di puzzle che si agganciano a immagini diversi, ma che non riusciamo a trovare: per fortuna abbiamo lo smartphone, piccolo stick di colla vinilica che riduce ad unità tutti i nostri frammenti. E del resto avete provato a stare un giorno senza telefonino? 

Goblin Mode 

Di conseguenza la frammentazione ha indotto nuove forme di disagio e nuove forme di reazione al disagio. Prendiamo il Goblin Mode: vestire in pubblico come se si fosse in casa propria, vantare il diritto di essere impresentabili rispetto ad un determinato contesto.

Rifiutare gli stereotipi di massa del bello, del pulito, del ben presentabile, lodabile da un punto di vista anticonvenzionale, mi da l’idea di sconfitta rispetto ad una competizione globale (di cui ho già detto altrove).  

Il confronto impietoso, offerto dai social networks, con tutto il resto del mondo, è un confronto che giocoforza si conclude con la sconfitta. La pianista francese che posta video in minigonna mentre esegue Schubert si espone alla risposta di un’altra pianista, dal Brasile, che suona in bichini Rachmaninov. Capite che se nella partita cominciano a entrare pianiste dagli Usa, dalla Cina dal Sudafrica e dall’Italia, come se ne esce? 

Se la competizione globale è fallimento certo, il Goblin Mode è sfuggire anche alla competizione locale: rinunciare ad ogni forma di apparenza per ammettere a priori la sconfitta. La frammentazione del contesto (psico)sociale si trasforma, con il Goblin Mode, in frammentazione della strategia di risposta. Che è anzi talmente atomizzata da non essere più visibile, da nascondere le vere intenzioni comunicative.  

Un atteggiamento di lodevole rifiuto degli stereotipi, partorisce un comportamento che può venire frainteso come disprezzo o maleducazione: non mi sembra un gran successo. 

L’autosabotaggio

L’autosabotaggio seriale è la conferma di un’ipotesi su di sé. 

Alcuni individui attuano regolarmente comportamenti che fanno saltare piani ormai conclusi: sono i peggiori nemici di loro stessi. 

Questi individui sono scissi tra due o più idee che li riguardano: si tratta di teorie che si escludono a vicenda, e che pertanto sono fonte di travaglio e sofferenza.

(Preciso che sto parlando dell’autosabotaggio seriale perché un singolo evento di autosabotaggio potrebbe essere un fatto di autodifesa, come un lapsus o un atto mancato, ma è fatto più raro, e dal mio punto di vista non patologico, non patogeno, non degno di particolare attenzione.)  

‘Io non sono capace’

Una di queste teorie recita cose del tipo: ‘tu sei un buono a nulla’ oppure ‘chi ti credi di essere, non sei nessuno’ o ‘non sei mai stato capace di fare cose di questo tipo’ ecc… Si tratta di teorie che negano il valore individuale, sono svalutanti o denigranti. Questa narrazione interna convive, da qui arriva il disagio, con un’altra (o più d’una) che al contrario è positiva, che sottolinea la forza e la competenza dell’individuo, che afferma la sua bravura o abilità in qualche ambito. Queste due (o più) teorie, come si vede, non possono convivere. Se intendo, poniamo, scalare una montagna, ma dentro di me c’è un’idea fissa che dice ‘non ci riuscirai mai, chi ti credi di essere’, e al contempo ce n’è un’altra che dice ‘sei bravissimo, ce l’hanno fatta in molti, puoi farcela anche tu’, a chi devo dare ascolto? Se riuscirò nell’impresa dovrò sconfessare una delle due, se non ci riuscirò dovrò sconfessare l’altra. 

Identificazione inconsapevole

Gli autosabotatori hanno sovente avuto un genitore svalutante, violento/aggressivo o denigrante/infamante. (Dico genitore ma intendo caregiver o Altro significativo, non è necessariamente detto che si tratti di un genitore, anche se per lo più è così.) 

La deprivazione affettiva, la spoliazione, o l’intrusione parentale realizzata dal genitore (suo malgrado, molto probabilmente) ha condotto il figlio ad una sorta di identificazione inconsapevole. Il figlio prende le distanze dal genitore, talvolta in maniera netta, se non violenta, ma ne è invaso: la sua identità ne è costituita, la sua personalità ha fatto proprie le teorie del genitore svalutante

L’identificazione inconsapevole con il genitore deprivante, elemento costitutivo  degli spoilt children, è alla base dell’autosabotaggio. 

Il progetto di vita dell’autosabotatore deve essere cambiato anzitutto estraendo dalla sua personalità, dalla sua narrazione interna, la parte costituita da quel ‘tu non sei capace’ che non gli appartiene, e che è frutto del troppo amore che egli ha avuto per quel genitore inadeguato, ma col quale egli è così fortemente identificato. 

Cos’è il food porn?

C’è qualcosa di erotico e al contempo di perverso nel mostrare in rete il piatto che si sta per mangiare. La foto del cibo può scatenare due reazioni: suscitare la fame in chi in quel momento non sente di averla, provocare invidia in chi non può permettersi quel boccone, non dico subito, neppure più tardi. 

Esibizionismo

Esibire qualcosa di sé per ricavare piacere dalle reazioni altrui è una delle più controverse dinamiche umane, e il food porn è lo spostamento sul cibo di questa modalità comportamentale. Tutti devono nutrirsi per sopravvivere, pertanto quale vantaggio ottengo dal gridare al mondo che sto per farlo? O forse dovrei comunicare anche che sto per fare una doccia, o sto per recarmi alla toilette, così da ingelosire il prossimo? Assolutamente no, il food porn è ben altra cosa: scatena reazioni violente anzitutto in chi lo fa, in chi posta le immagini del cibo che ha sotto il naso; E poi c’è chi guarda, e magari mette un like. Ma questo è un altro discorso. 

Erotismo alimentare/disturbo alimentare

Lasciando per un attimo da parte le considerazioni su chi è costretto (suo malgrado?) a osservare e commentare queste immagini, ossia tutto quello che può andare dal voyeurismo all’invidia penis,credo sia importante restare ancora un attimo sull’autore del food porn.  

‘Pizza’ in Italia codifica per ‘piacere’. Non c’è italiano che sappia fare la domanda: ‘stasera pizza?’, senza già sorridere con gli occhi. Ci avete mai fatto caso? Di conseguenza postare la pizza appena sfornata ha un significato fortemente condizionante. Gli stimoli emotivi e affettivi che possono essere elicitati da una pizza fumante posata su una tavola vanno (per noi italiani) dalla cucina della nonna alla partita della nazionale con gli amici, dall’appuntamento con la prima fidanzata, al dopolavoro con i colleghi. E via di questo passo. 

Cibo uguale gioia, felicità, affetto, equazione italica per eccellenza, non deve diventare cibo uguale riempire il vuoto affettivo, equazione costitutiva del disturbo alimentare. 

Il rischio che si corre con il food porn, in altre parole, è quello di investire un’azione consueta, per quanto importante, come quella del cibarsi, con significati aggiunti che non le appartengono, come quelli profondi e massimamente deprivanti che legano cibo e vuoti affettivi. 

Siamo così passati dal sorridere di un termine vagamente esotico ‘food porn’ che sa un po’ di commedia all’italiana, al prenderne un pochino le misure, le distanze, perché potrebbe nascondere insidie e indurre in qualche errore di valutazione. 

Ma ciò non significa che non dobbiamo usarlo, o commentarlo magari anche con grande ironia. Anche in questo consiste la filosofia ‘Sloweb’: conoscere è il primo passo per un utilizzo consapevole.

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