I Beatles Now And Then: la fine del tempo

L’ultimo brano dei BeatlesNow and then – dissolve il rapporto che lega l’opera d’arte con la rappresentazione del tempo. Ci appare, infatti, come un lavoro sospeso tra le epoche che lo segnano, e che utilizza la musica, che è tempo, per confondere i riferimenti temporali agli ascoltatori.


Il tempo della creazione


Per Umberto Eco la creazione di un’opera d’arte, la sua fruizione, e la sua conservazione, sono inestricabilmente connessi con il problema del tempo. Con Now and then i Beatles sfasciano tutti i riferimenti classici che legano un’opera con il tempo, e ci consegnano un lavoro che è insieme una grande illusione psichedelica, un monumento alla civiltà virtuale, una seduta psicanalitica in libere associazioni. 


Partiamo dalla creazione. Tutti sappiamo che Dante ha lavorato una ventina di anni per la sua divina trilogia, che Tolstoj ne ha impiegati almeno dieci per Guerra e Pace, mentre Haydn, che era molto creativo, chiudeva i suoi lavori più velocemente. In questi casi il rapporto temporale tra l’ispirazione creativa e il prodotto finale appare abbastanza chiaro, ed è, infatti, legittimo chiedersi quanto abbiano impiegato quegli artisti per concretizzare la loro prima idea.    Le cose si complicano quando parliamo di Eyes Wide Shut di Kubrick, o della Sagrada Familia di Gaudì, perché sono state, o verranno, terminate da altri. Indagare i tempi creativi è più arduo, perché può sempre restare il dubbio che siano opere diverse da come immaginate dall’autore. Il percorso artistico, in ogni caso, ci resta chiaro. 


Dalla gestazione alla nascita di Now and then, invece, la cronologia biologica evapora. John Lennon ha registrato la demo nel 1977, ma da allora sono intervenuti tali e tanti accidenti, da rendere impossibile collegare il contenuto di quel nastro con il file pubblicato dai social network il 2 novembre 2023. 


Guardiamo da più vicino. Nel 1995, storica reunion, i restanti ragazzi di Liverpool lavorano su alcuni brani che Lennon aveva lasciato su un nastro, tra cui Now and then. I tre pubblicano due tracce, lo sappiamo bene, ma scartano la terza, quella in questione: la voce di John è impastata al pianoforte, il risultato non li convince. Di quelle sessioni, tuttavia, restano arpeggi, accordi, giri di basso, di cui i tre non si disfano. Sono, quelle sessioni, da inserire nel tempo della creazione di Now and then? E se sì, stiamo parlando ancora del brano concepito da John, o di un’altra cosa, sospesa tra passato e futuro? 


Inoltre c’è un passaggio intermedio, tutt’altro che trascurabile. Sulla cassetta con le incisioni c’era scritto “per Paul”, ma Lennon non l’ha mai inviata all’amico. È stata Yoko Ono a dare la cassetta a Macca, mesi dopo la morte di John. Quindi vediamo un po’, Yoko Ono un giorno nel Dakota Building apre un cassetto, trova il nastro, legge che è per Paul McCartney. Cosa fa la vedova Lennon? Se seguisse il suo primo istinto, alla vista di quel nome andrebbe su tutte le furie, distruggerebbe il tutto e buonanotte al secchio. Invece no, Yoko ha un sussulto, si morde le labbra, apre la porta ai fantasmi del passato. Lascia passare un po’ di tempo, Yoko Ono, e alla fine telefona a Paul. 

Senza considerare che il nastro poteva tranquillamente andare perso, il rovello interiore di Yoko Ono, e il suo gesto, entrano di diritto nel tempo della creazione. Anzi, dovremmo ammettere che lo dissolvono: perché senza quella fase il brano non avrebbe mai visto la luce. La scelta di Yoko, dunque, si pone al di fuori delle consuete tempistiche creative, le supera, anzi le sfalda. 


  Veniamo a tempi più recenti, é il 2022: Paul McCartney e il suo team hanno nuovi programmi informatici, sentono che il lavoro non è ancora finito, tornano sulla vecchia traccia. Con l’intelligenza artificiale riescono a isolare dal pianoforte la voce di Lennon, “crystal clear” dice sir Paul incredulo: il problema del ’95 è superato!  Si riapre il cantiere, ma nel frattempo Harrison non c’è più. Poco male, ci sono i video del ’95, gli arpeggi, gli accordi. Ci sono i disegni di George, la moglie è d’accordo, andranno bene per la copertina. Il basso si può risuonare, Ringo è un mago nei cori, e poi c’è la stoffa, tanta: e così sarà Paul a fare un assolo di chitarra, in stile George Harrison. Eh, quanta confusione! Il lavoro è finito, osserviamo meglio: la voce è di Lennon, ma il brano c’è per volere di Yoko, c’è grazie all’AI che separa le tracce, e grazie al fatto che nel trambusto dell’otto dicembre non è andato perso. Harrison c’è grazie ai video del ’95, grazie ai disegni dati dalla moglie, e grazie al talento di Paul. Quando esce il singolo è il giorno dei morti, e non è a caso: Now and then arriva dall’al di là, più che dal di qua. Per questo possiamo davvero dire che che è un brano senza tempo: è impossibile ricomporre le fasi della sua creazione, se non dicendo che è appunto il Tempo, nel suo insieme, che ce lo ha consegnato. 


Il tempo della lettura e dell’interpretazione

Ammetterete che leggere un meme su Instagram sia più veloce che leggere La Repubblica di Platone. E anche la sua decifrazione, con tutto il rispetto, è più immediata. Now and then scioglie il concetto di tempo di lettura e di interpretazione di un’opera d’arte. Ci avevano già provato con Get Back, I Beatles, l’ultimo brano dell’ultimo album (della prima fase). Già in quel caso non erano tanto Jo Jo e Loretta  Martin a dover tornare indietro, ma l’intero popolo beatlesiano. In un eterno ritorno alle radici, in un perpetuo vagabondare tra le pieghe del tempo passato, ritornare ai 16 anni di I saw her standing there era negare, insieme alla fine del gruppo, la fine dell’adolescenza. È così per ciascuno di noi, che giunto ai trent’anni, per la prima volta, ripensa ad un tempo passato. 


Ma ora è diverso, Now and then dura pochi minuti, ma non finisce con l’inchino dei quattro. Anzi, è proprio allora che i fans asciugano la lacrima, afferrano la chitarra, e premono rec sullo smartphone. Oggi ci sono i social, tutto si può condividere. La storia dei Beatles si intreccia con la storia dei loro fans, con la storia delle loro emozioni, dei loro amori, delle loro delusioni.


Questa volta l’ascolto e l’interpretazione di una traccia audio non avrà fine. Ogni ascolto indurrà l’ascolto di altri brani, e la sua interpretazione porterà a fare confronti, discussioni, parallelismi. Come avviene con il testo freudiano in psicoanalisi, con la Critica della ragione di Kant, con la poesia romantica inglese. Now and then polverizza il rapporto classico tra l’arte e il tempo. 


Now and then: ma quando di preciso?


“C’era una volta, tanto tempo fa…” così iniziavano le fiabe. La letteratura definisce il tempo narrativo in vari modi, a volte più esplicitamente, a volte meno, ma in genere sempre con un decorso lineare. Il principe Andreij ama segretamente Natasha, ai tempi delle guerre napoleoniche, il matrimonio di Renzo e Lucia non s’ha da fare, ai tempi della peste, Pisa è vituperio delle genti italiche, ai tempi del conte Ugolino. Che fosse una volta tanto tempo fa, senza altre indicazioni, o che fosse precisamente ai tempi di Napoleone, di don Abbondio o di Dante, la storia che viene raccontata ha un prima, un durante, un dopo. Al più, come in alcuni film gialli, potrà raccontare uno o più flash back, ma sempre all’interno di un frammento spazio-temporale definito.   

Now and then è una matassa intricata di memorie, che definisce la dissoluzione del tempo narrativo e interpretativo. Lennon canta nel 1977, quindi si riferisce in maniera assai vaga a qualcosa che riguarda quegli anni. Ma si rivolge a Yoko Ono, o a Paul McCartney? Perché se si riferisce a Yoko, (il loro incontro risale al 1966), il Now and then riguarda gli anni tra il 1977 e il 1966. Se invece si riferisce a Paul, amico di infanzia, il riferimento si sposta a molto tempo prima. Oppure in un verso accenna a Stuart Suttcliff, l’amico morto prima del grande successo? In quel caso Now and then definirebbe un frammento di storia precedente all’incontro con Yoko, ma successivo a quello con Paul. 


Come abbiamo detto, inoltre, il brano non esiste per solo merito di Lennon, quindi in quel “Now and then” vanno considerati gli accidenti del 1980, del 1981 (il ritrovamento), e del 1995. Ossia accidenti che riguardano la traccia che ascoltiamo, ma non gli intenti di chi la canta. Non esistono le coordinate spazio-temporali di Now and then


E poi ci siamo noi, il pubblico. Anche noi, ascoltando, pensiamo al nostro “Now and then”: ma quand’è di preciso? Dante esce dalla selva a 35 anni, e noi con lui, pensiamo a quando, più o meno alla stessa età, ci volgemmo a rimirar lo passo che non lasciò persona viva. Quando Bastian si chiude nella soffitta della scuola, con la testa tra il mondo di Fantàsia e la principessa dei suoi sogni, lui (e noi) ha tra i 12 e i 16 anni. Quando Kid Rock canta Sweet home Alabama, a metà strada tra ragazzo e uomo, sappiamo bene cosa intende. Ma Now and then, quando la situiamo? Oggi che ascoltiamo, oppure quella volta che ci siamo innamorati? Oppure forse pensiamo a quando eravamo bambini, o a quando abbiamo visto per l’ultima volta colui che non ritorna, e ci manca così tanto? 


Se non sappiamo rispondere a queste domande, o meglio se ogni volta a queste domande sorge una risposta diversa, significa che il tempo non viene più rappresentato, ma resta sospeso, come nella memoria. E che cosa fa sì che nella memoria un ricordo sia più vivido di un altro? Il connotato emotivo che vi si associa. Ecco allora che la rappresentazione del tempo perde i connotati narrativi, razionali, esteriori, che ha sempre avuto nell’arte, e ne acquisisce di differenti.  Ed ecco l’ennesima magia di John Lennon, che ci lascia un brano fuori dal tempo, che è insieme grande illusione psichedelica, monumento alla civiltà virtuale, seduta psicanalitica in libere associazioni.

Perché amiamo la “persona sbagliata”?

Dagli adolescenti agli studenti universitari, dagli imprenditori fino ai grandi uomini e donne di Stato, a tutti capita di innamorarsi della persona sbagliata. Tuttavia quando arriva una delusione, puntiamo il dito su quella persona, e giuriamo che è solo colpa sua, perché non ci ha mai dato quello che avremmo voluto.


Cambiare per amore?


Ma questa posizione è ingiusta: alcuni se ne accorgeranno anni dopo, mentre altri non riusciranno mai ad ammetterlo. È ingiusta perché “narcisistica”, ossia non prevede nessuna responsabilità per chi la esprime, ed è ingiusta perché svuota l’altra persona della propria specificità. 


Un’altra accusa classica è che l’altro non voglia cambiare per noi, per il nostro amore. Anche questo è sbagliato: parte dal presupposto che nella relazione ci siamo noi al centro, mentre l’altro ci ruota intorno, come un satellite. Ma perché dovrebbe “cambiare” per noi? E se fossero gli altri a chiederci di “cambiare” per loro, come la prenderemmo? 


Come si vede, quando nelle relazioni qualcosa va storto, siamo sempre pronti a scaricare le colpe, senza accettare che le cose, come si diceva un tempo, si fanno in due. Le stesse considerazioni valgono per tutti gli altri problemi di coppia, dal tradimento, al ghosting temporaneo, fino ai “periodi di pausa”. L’altro è, e deve restare, se stesso. Possiamo, piuttosto, chiederci, perché crediamo, ci affidiamo, alle persone sbagliate?


La “persona sbagliata”


Anzitutto dire che qualcuno sia sbagliato è ingeneroso. Io preferisco spostare il fuoco sulle aspettative: verso gli altri abbiamo alcune aspettative che sono ragionevoli, e altre che lo sono meno. Perché, dunque, abbiamo aspettative sbagliate? 


Le aspettative nelle relazioni dipendono da come siamo abituati, da quale ambiente proveniamo: è quello che ci fa sentire a disagio o meno, è quello che determina ciò che vorremmo, o ciò da cui fuggiamo. Vale il vecchio esempio psicoanalitico dell’eschimese sulla riviera romagnola. Se ci va in vacanza si trova bene, ma se si trasferisce stabilmente, rischia di ammalarsi, perché è abituato ad un clima diverso.


Allo stesso modo, se in una relazione troviamo molto calore e comprensione, quando per varie ragioni non vi siamo abituati, la cosa all’inizio ci potrebbe piacere, ma alla lunga potrebbe creare claustrofobia. Vale lo stesso per le relazioni violente, tossiche, o deprivanti. Se qualcuno ci attrae, ma non ci convince fino in fondo, dovremmo chiederci: quali aspettative abbiamo, come vorremmo che si comportasse? 


Attese e aspettative


C’è sempre una ragione profonda, che riguarda noi stessi, il nostro passato, se qualcuno ci attira, se ce ne invaghiamo. L’aspettativa è qualcosa di individuale, dipende da noi, non da come si pone l’altro. 
Così passerei dal “perché amiamo persone sbagliate?” a “per quali motivi riponiamo aspettative in chi non è in grado di rispettarle?”.

La domanda è più impegnativa, me ne rendo conto, e costa fatica. Ma se non altro ci consentirà, in futuro, di non ricadere negli stessi errori. 

Sentirsi in colpa

A tutti è capitato di sentire nello stomaco un peso fatto di ansia e angoscia, e di imputarlo al senso di colpa, ossia alla reazione emotiva per aver fatto, o non fatto, qualcosa. 


Responsabilità 


Sentirsi in colpa per una mancanza è certamente cosa buona, e anzi definisce il senso di responsabilità, ossia, se volgiamo, l’attitudine a vivere all’interno di un gruppo o di una collettività. Sentirsi responsabili di un danno arrecato, apre la strada alla possibilità di recuperare, di riparare il misfatto. 


Sin dai tempi di Melania Klein, e dei suoi primi studi su Sigmund Freud, questo è stato correlato con una buona integrazione del . In quest’ottica, chiosava Speziale Bagliacca, “la colpa non è un fenomeno umano primitivo, per sentire colpa occorre avere raggiunto una certa maturità”. Il che significa che le persone in grado di sentirsi in colpa sono persone migliori di altre, che hanno una grande sensibilità, e sanno mettersi nei panni di chi hanno davanti. 


Se parcheggiando urto l’auto del mio collega, o in a discussione mi accorgo di essere andato oltre le righe, è buon segno sentire il bisogno di recuperare, di fare qualcosa per segnalare la mia presa di consapevolezza. 


Colpa senza dolo


Tuttavia non tutti i misfatti comportano lo stesso senso di colpa, e questo significa, di contro, che non tutte le volte che ci sentiamo in colpa ce ne sia un’effettiva ragione. Quando il senso di colpa per aver fatto qualcosa di sbagliato, e soprattutto per aver causato la sofferenza di qualcuno, eccede la normale tollerabilità, per usare un’espressione non psicologica, questo senso di colpa è la spia di una paura più profonda, una paura che ha soltanto trovato un’altra occasione per uscire allo scoperto. 


Prendiamo il caso di due fidanzati che interrompono la loro relazione. Senza dubbio uno dei due cercherà di fare sentire in colpa l’altro, di indurlo a tornare sui suoi passi. Come ben sappiamo, in genere questi tentativi restano vani, non hanno nessun esito. Ossia, quando si decide di troncare una relazione, non c’è senso di colpa che tenga. Pertanto, se esistono misfatti senza colpa, per quale motivo debbano esistere sensi di colpa in assenza di veri misfatti? 

È così che il focus deve spostarsi su quella sensazione di disagio, su quell’esigenza così pressante di riparare alle nostre mancanze. Se quel pensiero dura oltremisura, e arriva a rovinarci un’intera giornata, è segno che merita di essere affrontato una volta per tutte. 

Laureati: come trovare lavoro?

Laureato e intellettuale

La formazione universitaria lascia una competenza tecnica (le conoscenze professionali in un certo ambito), e una competenza strategica (saper impiegare tatticamente tali conoscenze, per poter affrontare casi specifici).
Ne discende che al termine di un percorso di laurea uno studente abbia sviluppato parallelamente almeno due diverse capacità, una direttamente collegata all’oggetto di studio, l’altra al suo utilizzo. 
Proprio questa capacità di utilizzare la conoscenza andrebbe presa in esame quando ci si mette alla ricerca di un impiego, perché lo sappiamo bene, il mercato del lavoro è cambiato, e la mansione pura non esiste quasi più. 


Tutti influencer  

La smania con cui molti laureati si scatenano a pubblicare video online, è la cifra dell’illusione di avere grandi risultati con minimi sforzi. Se questo è vero per alcuni fortunati, non può, tuttavia, valere per tutti, e in linea di massima per avere successo, anche poco, è sempre necessario faticare molto, moltissimo. 
È stato così per i grandi musicisti, per i poeti e gli scienziati di ogni tempo, è così anche oggi, che la globalizzazione ha azzerato le distanze, e aumentato esponenzialmente, come vediamo ogni giorno, l’aggressività. 
Quando il laureato si mette alla ricerca di un impiego, quindi, dovrebbe anzitutto fare due operazioni. La prima è non dare per scontato che l’ambito di questo lavoro sia quello della sua formazione. L’università è anzitutto una maestra, e insegna a usare la testa. La seconda, partire dall’analisi del contesto di riferimento. E qui intendo quello fisico, non quello virtuale, dato che a parte il lavoro di influencer tutti gli altri lavori si svolgono in uno spazio e in un tempo ben definiti. 


Cosa so fare?


La ricerca di un lavoro, così, è sempre più un chiedersi: con le mie caratteristiche, le mie competenze e i miei interessi (ossia con le competenze che oggi non ho, ma che potrei avere domani) quale mansione potrei ricoprire? In quel ambito potrei apportare un mio contributo? 


L’abbiamo detto, il lavoro è cambiato. Per questo deve cambiare drasticamente anche l’atteggiamento verso il lavoro, a partire dalla fase in cui si entra nel mercato e si cerca un impiego, ossia in cui si offre la propria competenza di saper fare qualcosa. 

Insoddisfatti al lavoro: come migliorare il clima aziendale?

Tra le cause del crescente malessere esistenziale, che per molti diventa malessere psichico, quando non grave patologia mentale, c’è senza dubbio anche la crisi del lavoro e dei lavoratori. 


Insoddisfatti e non rimborsati

Passiamo al lavoro una quantità considerevole della nostra vita, e il logoramento delle condizioni lavorative tradizionali, unito all’intrusività permessa dalla tecnologia, fa di noi dei lavoratori a tempo pieno, che ogni tanto si prendono piccoli spazi per una cena à deux, o una serata tra amici. 
L’insoddisfazione sul piano del lavoro, di conseguenza, entra nel nostro quotidiano più di quanto avvenisse un tempo, quando usciti dalla fabbrica si potevano cancellare dalla mente nomi, mansioni, dinamiche relazionali. 


Così urge un’analisi sul clima e sul benessere lavorativo, che vada al di là di quei tempi e quegli spazi che hanno caratterizzato la vita produttiva del Novecento. Smart working, smart mobbing, leadership diffusa, globalizzazione, e soprattutto apprendimento continuo, diventano le nuove parole del lavoro, parole su cui è necessario soffermarsi, se non vogliamo che le organizzazioni diventino grandi serbatoi di patologia mentale.  


Smile, please


Il clima aziendale è determinato dalle scelte organizzative, non c’è dubbio, ma in ultima analisi è creato ogni giorno dalle persone che fanno parte delle dinamiche aziendali, che stingono relazioni, che mandano mail, o scrivono sui gruppi WhatsApp. Insomma, quando entriamo in un contesto lavorativo, per quanto male organizzato, ci entriamo col nostro nome e la nostra faccia, e siamo anche noi i responsabili del clima che respira chi ci lavora vicino. 


Il primo asset del clima lavorativo è la disponibilità. Immaginiamo di entrare in ufficio in ritardo, mal vestiti e di pessimo umore. Quali reazioni potremmo suscitare? Sovente dimentichiamo che il lavoro è un fatto sociale, che non riguarda soltanto il compito, ma anche le interazioni di gruppo che conducono alla sua realizzazione. 


In molti contesti lavorativi bisognerebbe insegnare a sorridere, ad essere disponibili, a creare empatia, se non simpatia, per i colleghi. Il malessere e l’insoddisfazione sul lavoro dipendono anche dall’aria che si respira in ufficio, e un ambiente lugubre non ha mai giovato a nessuno.   Migliorare il clima aziendale si può, almeno fino a un certo punto, e dipende da ciascuno di noi. Proviamo a pensarci, la prossima volta che vorremmo rispondere al veleno ad una mail di gruppo. Esiste anche l’ironia: ed è un detonatore fortissimo. 

La violenza nelle relazioni omosessuali: come difendersi?

Molto spesso nelle relazioni omosessuali la violenza, il sopruso, la prevaricazione, non sono fisiche, ma psicologiche

Mind games: le manipolazioni “a fin di male”

In un precedente articolo ho definito mind games tutte quelle manipolazioni psichiche atte a mantenere soggiogato qualcuno, pur nella consapevolezza che lo si sta facendo contro il bene della coppia. Nelle coppie omosessuali sovente sono proprio questi “colpi bassi” a costituire violenti attacchi all’autostima e all’equilibrio individuale. 


In questa sede non possiamo parlare del perché queste cose avvengano, per qual motivo il mind gamer si adoperi a sminuire l’altro e al contempo a tenerlo stretto a sé, ma possiamo dire alcune parole in difesa della parte debole, di quella che subisce i mind games, e vi soccombe.


Essere parte debole in una relazione significa fare quotidianamente delle rinunce. La ragione sostanziale per cui si fanno rinunce è che si teme di perdere l’altra persona, ossia che vivere l’abbandono sarebbe enormemente più penoso che sopportare quelle rinunce. Quindi dobbiamo chiederci, che cosa mi lega così forte a qualcuno, da temere di perderlo anche se il saldo è negativo? 

Isolamento, impoverimento, dipendenza affettiva


Le relazioni affettive sono molto sovente causa di malessere, e questo perché, in definitiva, non siamo mai trattati dagli altri come vorremmo, ma come vogliono loro. Per meglio dire, abbiamo delle aspettative che sono basate sulle nostre relazioni primarie di accudimento, e ci aspettiamo, a priori, che l’altro faccia, piuttosto che non faccia, determinate cose, che però non sono necessariamente quelle che vorrebbe fare lui/lei in sua coscienza.  


In una relazione equilibrata la distanza tra le aspettative e le risposte affettive reali pesa di meno, è tutto sommato sopportabile, perché vale per entrambe le parti. Se pesa di più per una delle due, si rischia di entrare in un circolo vizioso che andrebbe spezzato il prima possibile, perché potrebbe condurre a isolamento sociale, o all’impoverimento dell’individuo, o peggio ancora a dipendenza affettiva.  


Quando in una coppia omosessuale si crea questo tipo di sbilanciamento siamo in presenza di una forma di violenza, che pur non essendo fisica, ne ha però tutti i connotati psicologici. Ed è drammaticamente sufficiente. 

La relazione tossica: come uscirne?

Una relazione è “tossica” quando crea più malesseri che benefici. Non tutte le relazioni sbilanciate sono tossiche, e forse neppure tutte le relazioni di dipendenza lo sono. Le relazioni tossiche si riconoscono da quella modalità quasi magnetica di tenere insieme persone che appartengono a universi paralleli. 


Mind games  


Una componente caratteristica delle relazioni tossiche sono i mind games, i giochi mentali. Si tratta di strategie manipolative che fanno restare nel giusto approfittando della buona fede dell’altro. I mind games sono modalità vili di tenere insieme una relazione tossica, ossia una relazione che uno dei due partner vive come altamente instabile e dolorosa. E sono modalità che non verrebbero accettate se uno dei due non temesse fortemente la separazione. 


Dunque paura dell’abbandono, della separazione, della fine della relazione sono sovente alla base delle relazioni tossiche, e sono la ragione profonda per cui è così difficile uscirne. 



Un salto nel buio


Di conseguenza, per uscire da una relazione tossica è necessario un salto nel buio. O meglio, è necessaria un’analisi dei mind games. Quale verità profonda e inconfessabile confermano, per chi a malincuore li accetta? Per quale motivo è così difficile perdere una persona che manipola la nostra buona fede? 


Le stesse domande, sia chiaro, andrebbero poste anche alla parte forte della coppia, ossia a chi deve utilizzare queste modalità per tenere a sé l’altra persona, per il resto insoddisfatta e persino impaurita. 

La via d’uscita, in una psicoterapia, si persegue anzitutto esplorando il tipo di equilibrio che una relazione tossica garantisce ai due membri della coppia. Ossia i vantaggi (paradossali) dati dal restare in una relazione che, come abbiamo detto, crea più malesseri che benefici.  

Adolescenti: il senso di colpa nel divorzio dei genitori

Non è raro che i figli vivano con un senso di fallimento personale il divorzio dei genitori. Uno dei pensieri inconfessabili, soprattutto durante l’adolescenza, riguarda l’egoismo. Ma quando arriva la colpa, perché “potevo fare di più”, lì bisogna sapersi fermare. 

Adolescenti saggi e comprensivi 


A parte alcuni casi di violenza o soprusi, gli adolescenti vivono la famiglia come un luogo di affetti e ristoro, e la lacerazione indotta dal divorzio, intendo anche nei casi di separazioni consensuali e “pacifiche”, definisce la perdita di un equilibrio.  Solitamente i figli mostrano nei confronti del divorzio atteggiamenti maturi e consapevoli, fornendo letture comprensive, specie se inconsciamente alleati con uno dei due genitori.  “I miei non vanno d’accorso, hanno fatto bene a lasciarsi”. “Mia madre sente un amico d’infanzia, mio padre esce sempre per conto suo, era ora che ci dessero un taglio”. E cose simili.

 
La posizione indulgente verso il divorzio è una forzatura difensiva, una maschera di ghiaccio che nasconde e congela sentimenti di vuoto e abbandono

La consapevolezza che si sedimenta nella memoria dell’adolescente riguarda la premura che i genitori hanno nei suoi confronti, quanto sono disposti a rinunciare per lui/lei. Quanto valgo per loro? Soprattutto con il passare del tempo, i ragazzi imparano a relativizzare i conflitti di coppia, e a inserirli in un più ampio contesto relazionale. Così appena passata la tempesta, iniziano a covare rancori, perché “Davvero a me non hanno mai pensato”. Oppure: “Non ci voleva molto, bastava avere un po’ più di buon senso, in una direzione o nell’altra”. Questo avviene soprattutto quando le relazioni con i nuovi partner vanno in crisi, e i ragazzi ripensano all’altro genitore. 


Colpa

Qui arriva la colpa. Quando le nuove relazioni finiscono, l’adolescente si chiede: “Allora potevo fare di più?”. Ed ecco che l’identificazione inconsapevole con uno dei genitori diventa rovesciamento dei ruoli, la saggezza diventa incarico di cura e accudimento, rimprovero di non aver fatto da genitore ai genitori. 
Il senso di vuoto e abbandono, quel sottile rimprovero mai esplicitato di non essere stati visti per troppo egoismo, diventa auto rimprovero, nella certezza che si poteva fare di più. 

Ecco allora che si rende necessaria una presa di consapevolezza complessiva da parte dell’adolescente, perché ciò che da subito ha vissuto come un sopruso, una lacerazione della sua stabilità, sta diventando un penso sulla coscienza, il rimprovero di non essere stato abbastanza bravo.

Umberto Eco, Bauman e Wagner: la fine della liquidità e il nuovo Umanesimo.

In uno scritto del 2015 Umberto Eco citava Bauman e si chiedeva cosa avrebbe sostituito la grande liquefazione, a cui entrambi stavano assistendo. Oggi (2023) abbiamo le idee più chiare: la società liquida, come per raffreddamento, si è scomposta in migliaia di frammenti, anzi milioni, e ai soggetti contemporanei non resta che guadarsi da lontano, delle loro micro isole, e comunicare tramite smartphone.  


La spinta principale in questa direzione è arrivata dalla pandemia, che ha acuito le distanze sociali tra tutti, ricchi e poveri, più istruiti e meno, chi abita territori con maggiori servizi e chi no, ecc…  La pandemia ha innescato problematiche relazionali e psichiche del tutto nuove, come la paura per il corpo, il contatto fisico, la prossimità, o patologie del carattere, o disturbi del sonno, tutte se vogliamo legate all’uso smodato dello smartphone. 


E poi c’è la frammentazione politica, sociale ed economica, data dalle guerre, dalle migrazioni, dal rifiuto dell’ordine mondiale costituito, da parte di miliardi di esseri umani che si organizzano con apparati alternativi.  
La grande frammentazione ha preso il posto della liquefazione, e alla società liquida si sta sostituendo una società fortemente frammentata. In tutto, e infatti vediamo anche una progressiva frammentazione psichica del soggetto del nostro tempo.   


Come se ne esce? Nello scritto citato, Umberto Eco lamentava l’assenza della politica e la pigrizia dell’intellighenzia. Che la politica sia assente dalle grandi discussioni epocali non deve sorprendere, è così dai tempi di Platone. Il populismo, del resto, non prevede pensiero, ma solo invettiva istintuale. L’intellighenzia è pigra? Quando i filosofi smetteranno di fare convegni su Spengler, saremo già tramontati tutti. Quando smetteranno di chiedersi se Heidegger fosse nazista o meno, sarà arrivata un’altra Shoah


La verità è che serve da subito un rinnovato istinto umanista. Non esistono razze, non esistono forse neppure culture. Esiste un unico genere umano, che sta colonizzando il mondo, ne sta spremendo le risorse, e fra poco scatenerà conflitti per contendersi il poco rimasto. Ecco secondo me la vera svolta post liquidità, la rifondazione dell’Umanesimo


Mettere l’uomo, le sue esigenze, anche psichiche, al centro di ogni discussione. E va fatto subito, prima che l’onda lunga del post pandemia travolga tutti con la sua coda di diffidenze, perché incontrare l’altro non porta solo la diffusione del Covid o l’intrusione traumatica.  E va fatto subito, per dimostrare a Umberto Eco, o ai suoi eredi spirituali, che Zigmund Bauman non è solo una “vox clamantis in deserto”. 

Come superare l’aracnofobia?

Irrazionale

La fobia è una paura irrazionale, immotivata. Quindi per aracnofobia non intendiamo una generica sensazione di disgusto, o disagio, di fronte alla vista di un ragno, ma qualcosa di più pervasivo e invalidante. 
Che sia una paura irrazionale significa che non deriva da dati della realtà oggettiva. Che sia sostanzialmente immotivata significa che il pericolo che percepiamo è esponenzialmente maggiore di quello reale, ossia gonfiato dalla nostra mente. È come se avessimo delle lenti che ci fanno vedere tutte le cose normalmente come esse sono, tranne i ragni, che ogni volta ci appaiono sempre più grandi, più minacciosi e pericolosi. 

Rapporti di forza


Facciamo un esame della questione. In una situazione tipo, poniamo, un essere umano incontra sulla sua strada un ragno. Quali sono i rapporti di forza? Chi dei due ha una posizione privilegiata? Chi dovrebbe temere per la propria incolumità?  In una situazione standard, quando un essere umano incontra un ragno, ha di fronte a sé solo scelte vincenti. Può decidere di cambiare strada, e nessun ragno potrebbe mai rincorrerlo per obbligarlo allo scontro. Può decidere per il confronto, a mani nude, con un attrezzo, o con qualche insetticida. E anche in questo caso la sorte dell’aracnide sarebbe segnata. Potrebbe catturare l’insetto, e tenerlo, non so, in una teca di vetro. E anche in questo caso il malcapitato non avrebbe modo di eccepire nulla. 
Come si vede, in una situazione standard, (in genere) un essere umano avrà sempre la meglio su un ragno. Lo stesso vale in situazioni più articolate e complesse. Ossia se un individuo incontra un ragno in camera da letto, sul comodino, tra libri, sveglia e suppellettili. O in bagno, prima di entrare in doccia, o in auto, quando si ferma per fare benzina. Anche in tutte queste situazioni, per quanto più complicate rispetto all’esempio iniziale, l’umano avrà sempre la possibilità di sbarazzarsi dell’insetto, senza mai sentirsi realmente minacciato nella sua incolumità. 

Psicoterapia


Ecco quindi che veniamo al nocciolo della questione, se l’arcanofobia non è l’espressione di una paura concreta che riguardi la sopravvivenza, di cosa è la cifra? È a questo punto che entriamo nel territorio della psicoterapia. Perché evidentemente le associazioni che la nostra mente attua in relazione al concetto “ragno”, una volta che la vista mette al corrente il cervello della presenza di un ragno sul nostro cammino, sono associazioni che riguardano pericoli enormi per la nostra sopravvivenza psichica. Il ragno non codifica per un pericolo fisico, oggettivo, esterno, ma per un pericolo interno, psichico, che può essere persino più grave e invalidante. 
Nell’attacco di panico un individuo sente che sta per morire, manca l’aria, il cuore sta per cedere. Se queste sensazioni sono date dalla vista di un ragno significa che il ragno è l’emblema di un pericolo mortale per il . Il ragno non può dare la morte, ma può dare la morte psichica, cosa appunto, ben più grave. 
La psicoterapia punta proprio a smascherare i legami sotterranei tra la vista del ragno e la sensazione di pericolo. E l’obiettivo non può essere solo quello della desensibilizazione. Perché come per i disturbi alimentari, c’è un motivo ben preciso se la nostra mente associa il pericolo ad un ragno, piuttosto che a un panda o a un elefante. 

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