Come superare l’aracnofobia?

Irrazionale

La fobia è una paura irrazionale, immotivata. Quindi per aracnofobia non intendiamo una generica sensazione di disgusto, o disagio, di fronte alla vista di un ragno, ma qualcosa di più pervasivo e invalidante. 
Che sia una paura irrazionale significa che non deriva da dati della realtà oggettiva. Che sia sostanzialmente immotivata significa che il pericolo che percepiamo è esponenzialmente maggiore di quello reale, ossia gonfiato dalla nostra mente. È come se avessimo delle lenti che ci fanno vedere tutte le cose normalmente come esse sono, tranne i ragni, che ogni volta ci appaiono sempre più grandi, più minacciosi e pericolosi. 

Rapporti di forza


Facciamo un esame della questione. In una situazione tipo, poniamo, un essere umano incontra sulla sua strada un ragno. Quali sono i rapporti di forza? Chi dei due ha una posizione privilegiata? Chi dovrebbe temere per la propria incolumità?  In una situazione standard, quando un essere umano incontra un ragno, ha di fronte a sé solo scelte vincenti. Può decidere di cambiare strada, e nessun ragno potrebbe mai rincorrerlo per obbligarlo allo scontro. Può decidere per il confronto, a mani nude, con un attrezzo, o con qualche insetticida. E anche in questo caso la sorte dell’aracnide sarebbe segnata. Potrebbe catturare l’insetto, e tenerlo, non so, in una teca di vetro. E anche in questo caso il malcapitato non avrebbe modo di eccepire nulla. 
Come si vede, in una situazione standard, (in genere) un essere umano avrà sempre la meglio su un ragno. Lo stesso vale in situazioni più articolate e complesse. Ossia se un individuo incontra un ragno in camera da letto, sul comodino, tra libri, sveglia e suppellettili. O in bagno, prima di entrare in doccia, o in auto, quando si ferma per fare benzina. Anche in tutte queste situazioni, per quanto più complicate rispetto all’esempio iniziale, l’umano avrà sempre la possibilità di sbarazzarsi dell’insetto, senza mai sentirsi realmente minacciato nella sua incolumità. 

Psicoterapia


Ecco quindi che veniamo al nocciolo della questione, se l’arcanofobia non è l’espressione di una paura concreta che riguardi la sopravvivenza, di cosa è la cifra? È a questo punto che entriamo nel territorio della psicoterapia. Perché evidentemente le associazioni che la nostra mente attua in relazione al concetto “ragno”, una volta che la vista mette al corrente il cervello della presenza di un ragno sul nostro cammino, sono associazioni che riguardano pericoli enormi per la nostra sopravvivenza psichica. Il ragno non codifica per un pericolo fisico, oggettivo, esterno, ma per un pericolo interno, psichico, che può essere persino più grave e invalidante. 
Nell’attacco di panico un individuo sente che sta per morire, manca l’aria, il cuore sta per cedere. Se queste sensazioni sono date dalla vista di un ragno significa che il ragno è l’emblema di un pericolo mortale per il . Il ragno non può dare la morte, ma può dare la morte psichica, cosa appunto, ben più grave. 
La psicoterapia punta proprio a smascherare i legami sotterranei tra la vista del ragno e la sensazione di pericolo. E l’obiettivo non può essere solo quello della desensibilizazione. Perché come per i disturbi alimentari, c’è un motivo ben preciso se la nostra mente associa il pericolo ad un ragno, piuttosto che a un panda o a un elefante. 

Pragmatismo e senso di colpa: stregati (e fregati) dagli Americani.

Se pensiamo che dovremmo essere più pragmatici, ci hanno fregato. 
L’innamoramento per la cultura americana, l’american way of life, prevede l’idealizzazione di tutto quello che viene d’oltreoceano, ma alcune cose proprio non fanno per noi, e una di queste è il pragmatismo


Football americano, Formula Indy, pena di morte

La nostra proverbiale esterofilia ci fa sentire – per partito preso – peggiori degli altri, fino a quando scopriamo che certi piatti proprio non ci vanno giù. Lì, scoppia l’orgoglio. Non c’è niente di male, le culture sono cucite addosso a chi le ha generate, e non è possibile adattarsi troppo a quelle altrui. 
Facciamo un esempio: amiamo tanto gli Americani, ma poi arricciamo il naso quando scopriamo che da loro la palla si passa con le mani, oppure che i sorpassi si fanno a sportellate.

Questi sono solo degli esempi pop, ma se citassi sensibilità più specifiche, come la pena di morte, o il porto d’armi, la nostra reazione sarebbe grosso modo la stessa. Si tratta di aspetti profondi della nostra cultura, (che condividiamo con gli altri grandi Paesi europei) a riprova del fatto che non tutta l’american way of life faccia veramente per noi. 


Pragmatismo e senso di colpa 

Un altro grande concentrato di valori e tratti indentitari americani è la filosofia del pragmatismo. Io credo che questa filosofia, o per lo meno ciò che di essa è filtrato nella cultura europea, abbia penetrato il mercato nostrano delle idee tanto quanto la Coca-Cola, o le sigarette, quello dei beni di consumo. 


La prova di quanto dico sta in quella forma di lieve senso di colpa che ci prende quando sospirando diciamo: “Ecco, dovremmo essere più pragmatici. ”. Il pragmatismo non deve diventare una regola di vita. La specificità dell’individuo si fonda sulla sua personalità, i suoi interessi, ma anche sulle sue passioni, i suoi desideri, e i suoi sogni, attuali e futuri. 


Ragionare in termini pragmatici, invece, per quanto aiuti a focalizzarsi sul presente e a razionalizzare gli sforzi, svuota l’essere umano da tutti quegli spetti che ne caratterizzano la vitalità. L’individuo angosciato, preda della depressione, è in definitiva un individuo senza entusiasmo, senza passioni. Per questo è molto importante alimentare, non smorzare, gli slanci idealistici, passionali. Se a volte ci capita di pensare che dovremmo essere più pragmatici, ci hanno fregato. È anzi vero il contrario: se lo fossimo di meno, saremmo più felici. 

La paura del corpo e le relazioni a distanza

Stiamo diventando sempre più bravi nelle relazioni a distanza, e sempre più fobici nel rapportarci agli gli altri in presenza. A ben guardare questa potrebbe essere una conseguenza della pandemia, in cui ciò che inizialmente era innaturale, ossia fare cose con gli altri senza averli vicini, era diventata, per necessità, una prassi. 

Paura del corpo

La tendenza a considerare “invadenti” le persone che ci stanno vicine, e ad evitare comportamenti di eccessiva prossimità come il contatto fisico, l’uso di diminutivi, gli atteggiamenti erotizzati, ci parla di una paura per il corpo e di ciò che evoca. Non sto ovviamente parlando degli abusi, che per quanto il legislatore fatichi a definire in termini giuridici, hanno connotati psichici molto chiari, sia nella vittima, sia in chi li attua. 

Sto parlando del corpo nelle relazioni, in tutte le relazioni, non solo quelle affettive. Quando saliamo sulla metropolitana, quando prendiamo il sole in spiaggia, quando viaggiamo con amici, ma anche all’assemblea di condominio, o nello spogliatoio della palestra, o in discoteca, abbiamo con noi un corpo che non possiamo eliminare. 

La cosa, per quanto scontata, è paradossale, perché sui social network, su cui passiamo molto tempo, e su cui incontriamo molte persone, il nostro corpo non c’è. 

Il passaggio dal mondo virtuale a quello fisico, il meatspace, porta evidentemente delle turbolenze.

Un’altra adolescenza

Abbiamo un corpo, quindi, che non possiamo eliminare. È un bel problema, perché sui social network ci stiamo abituando ad una sostanziale assenza del corpo. Pubblichiamo e commentiamo storie, inviamo note vocali, video, immagini: tutto senza fisicità. La ricomparsa del corpo ci spaventa, perché il corpo ha le sue regole, i suoi funzionamenti, se vogliamo le sue esigenze, e ciò che può essere negato, nascosto, o semplicemente taciuto, a distanza, non può esserlo in presenza. 

La variabile “corpo” nel meatspace, in qualche modo, ci richiama alla memoria l’adolescenza, quando per la prima volta abbiamo scoperto che tra noi e gli altri c’era il corpo. Il nostro, anzitutto, ma anche il loro. Come abbiamo superato quella fase? Quali strascichi, conseguenze, questioni irrisolte, ha lasciato alle spalle? 

Tra le conseguenze della pandemia c’è la riscoperta delle relazioni “in presenza”, con il carico di angosce che possono elicitare. Confondere la “prossimità” degli altri con l’“invadenza” nasconde, secondo me, una paura per il corpo e le sue peculiarità che ricordano molto da vicino l’adolescenza. È forse quello il vero buco nero della vita che vorremmo superare, dimenticare, cancellare dalla nostra memoria? 

La cura dei disturbi alimentari

Anoressia, bulimia, e gli altri disturbi della condotta alimentare sono in genere collegati a vissuti profondi di angoscia, inadeguatezza, o instabilità della percezione di sé. 

Di conseguenza, nel loro trattamento, il rapporto con il cibo è soltanto il punto di partenza, mentre il lavoro vero riguarda proprio i sentimenti cronici di depressione e vuoto esistenziale che attanagliano queste persone. 

Intelligenza e negazione

Il disturbo alimentare si associa in genere a due aspetti che complicano (o allungano) il trattamento. L’intelligenza dei pazienti, in genere sopra la media, e la loro resistenza. 

Gli anoressici sono individui estremamente intelligenti. La capacità di architettare, e mantenere, una condotta alimentare, necessita di competenze cognitive superiori, così come di una determinazione fuori dall’ordinario. I bulimici, poi, sono persone che attuano bulimia in ogni loro comportamento, per esempio “divorano” libri, oppure “divorano” relazioni affettive o amicali, ecc… . 

La cura dei disturbi alimentari, pertanto, è anzitutto un rapporto di forza con individui molto intelligenti, fieri, che difendono le loro posizioni, e di conseguenza il loro sintomo, con tutta la determinazione di cui sono capaci. 

Il secondo aspetto, perciò, è la negazione. La forma di resistenza attuata da individui ben strutturati, e con grandi capacità cognitive, è quella di respingere ogni riferimento al loro problema. Se il paziente fobico soffre maledettamente quando ha un attacco di panico, e vorrebbe che non tornasse mai più, se il paziente depresso detesta con tutto se stesso quei periodi di buio, in cui deve disconnettessi dal resto del mondo, il paziente alimentare tende a negare sempre tutto, non c’è nessun problema, io sto benissimo. 

Cibo e Orgoglio

Senso di abbandono, solitudine, tristezza, sono sovente i compagni di viaggio di una vita del paziente con disturbo alimentare. Ma, come si vede, anche il suo orgoglio lo è. Non avere potuto esprimere le difficoltà, le sofferenze, i momenti di sconforto, ha portato questi individui a chiudersi nel loro silenzio, in una riservatezza in cui ha accesso soltanto il loro cibo. 

La cura del disturbo alimentare, quindi, soltanto in una prima fase ha per oggetto il cibo e la sua gestione. Perché ad un livello più profondo si occupa della solitudine atavica di questi pazienti, del vuoto interiore che cercano di riempire con il cibo, o di cui negano l’esistenza con il digiuno. Ossia, in via definitiva, si occupa dell’orgoglio dietro a cui essi hanno imparato a nascondersi, dopo essere stati troppo a lungo inascoltati. 

Separazione, divorzio, tradimento: come sopravvivere?

Il tradimento ferisce il nostro valore individuale. Essere traditi, abbandonati, sostituiti, soprattutto da chi amiamo, intacca la percezione di amabilità personale, ci espone alle domande più profonde riguardo chi siamo e se abbiamo valore per gli altri. 

Quanto valgo?

Tuttavia di fronte al tradimento è bene fare alcune considerazioni. Anzitutto il tradimento intacca il senso di valore personale, ma soltanto se ne abbiamo. Non veniamo tutti feriti in ugual misura dal tradimento. 

La reazione a come veniamo trattati dagli altri ha a che fare con le nostre aspettative, e se ci aspettiamo rispetto, amore, fedeltà, in genere è cosa positiva. Intendo dire che solo chi non ha grandi aspettative, soffre poco quando viene abbandonato, o anzi è egli stesso a lasciare, o tradire. 

Le aspettative nei confronti dell’altro nascono dalle prime relazioni, ossia dall’ambiente in cui siamo stati accuditi da bambini. Se siamo stati accuditi con cura, attenzioni, rispetto, molto probabilmente siamo predisposti a soffrire di più se abbandonati o traditi. 

Quanto vale l’altro?

Soffrire per l’abbandono è un atto egoistico. Vorremmo non essere lasciati, in ossequio al valore che sentiamo di avere, valore però, che non vorremmo riconoscere all’altro, a cui stiamo stretti. Se una persona ci chiede libertà, è perché ha bisogno di qualcosa di diverso. 

Nelle relazioni affettive, poi, tendiamo a essere possessivi a senso unico. Perché è cosi difficile lasciare andare? Anche questa è una matassa da dipanare: molte volte il tradimento non è un fulmine a ciel sereno, è stato preceduto da segnali che però abbiamo voluto ignorare. Per quale motivo? 

Quando le relazioni si incagliano, diventano una tortura per entrambi, per questo non dobbiamo temere di guardare il vero significato del tradimento o dell’abbandono

Il lavoro con le persone che hanno subito un tradimento, o hanno alle spalle una separazione, non è semplicemente quello di aiutarle ad adattarsi alla nuova situazione. L’adattamento, qui, sarebbe qualcosa di regressivo. 

L’analisi va spostata sui significati che attribuiamo, da un lato alla relazione di coppia,  dall’altro all’attaccamento, e alle sue implicazioni. 

Il punto, in altre parole, non è sopravvivere ad una separazione, ma come trasformarla in una rinascita. 

Il sogno dell’infanzia: è del bambino, o dell’adulto che se ne prende cura?

Tutti abbiamo avuto un sogno durante l’infanzia. C’è chi ha sognato di correre in Formula uno, chi di fare il cardiochirurgo, chi addirittura di diventare Vescovo, Papa o comunque un alto prelato. Poi siamo cresciuti, e per alcuni di noi quei sogni sono svaniti, come la foschia nelle mattine d’estate, o sono stati sostituiti da altri sogni. Viene così da chiedersi: di chi era quel sogno, e perché tutto ad un tratto è sparito?

Il desiderio altrui e il suo soddisfacimento

Molto spesso il sogno dell’infanzia non è del bambino, ma è ispirato dall’adulto. E’ una costruzione dell’adulto, potremmo dire un baco, un seme, che l’adulto mette nella mente ancora in formazione del bambino. Potrebbe trattarsi di una fantasia emozionale di un genitore, per esempio la madre è innamorata di un attore famoso, e insiste col piccolo affinché da grande diventi un divo del cinema. Oppure potrebbe essere un desiderio di riscatto sociale: fare un lavoro di rilievo in cui non si debba chiedere a nessuno, ma soltanto ricevere, o che sia molto remunerativo. Oppure ancora potrebbe essere la fantasia maniacale del superamento di un handicap, come una malattia. Un parente è molto malato, e i genitori istillano nel bambino il sogno di diventare un medico importante, che sappia trovare la cura per questa persona cara. 

In questi casi, come si vede, non è il bambino a sognare, ma l’adulto, che sogna attraverso il futuro ancora da scrivere del bambino. Il bambino è in divenire, malleabile, e soprattutto è alla ricerca di qualcosa per fare breccia nel cuore dell’adulto. E quale migliore occasione, se non quella di realizzarne un sogno?

Infanzia e spoliazione 

Introdurre nel bambino sogni, ambizioni, desideri è cosa comune, ma è una prevaricazione sulla sua individualità. Quando un sogno infantile viene abbandonato durante la crescita, può significare che non era un sogno autentico del bambino. Non solo, ci sono sogni che non vengono mai abbandonati, ma diventano inclinazioni, missioni, progetti di vita. E tutto questo senza mai rappresentare davvero una componente autentica delle fantasie, dei desideri, delle ambizioni di quell’individuo. 

Consiglio a tutti di fare un’analisi dei sogni che avevamo da bambini, potrebbe sorprendere. E soprattutto potrebbe sorprendere capire se e quanto quei sogni facciano ancora parte della nostra identità odierna.

Giovani sotto stress. La società senza politica, religione e passione per l’arte.

Gli Italiani non votano, non vanno più in chiesa, non amano la cultura. Il disinteresse, direi quasi il tedio, è rotto soltanto da una blanda forma di ambientalismo, che se non altro denota ancora la voglia di credere in qualcosa. Dagli Hikikomori (ragazzi che si chiudono alle relazioni) ai tentati suicidi, dagli accessi al pronto soccorso psichiatrico ai TSO, le forme di disagio giovanile dilagano, e nessuno riesce a proporre contromisure efficaci.  

Gli studenti e la politica

Le generazioni passate erano quelle dell’impegno politico, dei cortei, della partecipazione popolare alle decisioni sui diritti civili, sulle guerre, sulla vita pubblica. Oggi però la politica ha deluso, non lo scopro certo io, la gente si è stufata. Così l’astensionismo aumenta ad ogni tornata elettorale, e i partiti politici accusano chi non vota, invece di capire che anche il non voto è un messaggio. Fare politica è una passione, una ragione di vita. C’è chi ha scritto dei libri, sulla politica, chi per la politica è stato perseguitato, e chi ci ha rimesso la vita. In gran parte lo slancio ideale verso la politica appartiene ai giovani, ha a che fare con il mondo dei giovani. I giovani sanno essere grandi idealisti, sanno passare le notti a discutere di ipotesi, di alternative, di proposte. Così la disaffezione nei confronti della politica, per quanto colpisca l’intera società, fa più danni tra i giovani (o quelli che un tempo venivano genericamente chiamati gli “studenti”), la parte della società che naturalmente dovrebbe occuparsene.  

La passione per la politica ha almeno due importanti funzioni psicologiche e identitarie: canalizza le energie e costruisce significati. Se un giovane, poniamo, si iscrive a un partito politico, ne segue la vita e le tendenze culturali, ne appoggia le proposte e ne promuove la diffusione, da un lato incanala delle energie, per esempio l’aggressività, in una cornice di proposte concrete, dall’altro individua dei significati nella propria vita, e nel proprio operato, che vanno al di là della mera quotidianità, e anzi si spingono a coinvolgere le generazioni future. Per questo in passato è stato molto importante che i giovani si aggregassero a discutere di politica, perché il confronto, anche aspro, tra idee, posizioni, ipotesi, è certamente più proficuo e meno deleterio di un confronto tra sassaiole e bottigliate, come talvolta avviene, ad esempio, nel caso del tifo sportivo.  

Per questo si vede come la crisi della politica, il fatto che i giovani non credano più nei partiti e non ne seguano più la vita con passione, li lasci privi di un grande meccanismo di gestione e rivalutazione di condotte e di speranze. Senza politica i giovani stanno peggio.  

L’azione cattolica 

Un altro ambito che storicamente ha costituito fonte di aggregazione e di partecipazione attiva, è stato quello religioso. Nei decenni scorsi erano migliaia i giovani che partecipavano a eventi, meeting, percorsi spirituali proposti da organizzazioni religiose. Pensiamo al mondo cattolico, per esempio, alle giornate della gioventù, ai ritiri spirituali, alle gite parrocchiali

La disaffezione degli Italiani nei confronti della chiesa è reso evidente da un dato segnalato dalla CEI, Conferenza Episcopale Italiana: nelle scuole sono sempre meno gli alunni che chiedono di prendere parte alle lezioni di religione. Questo è preoccupante per un motivo: il sacro non suscita interesse, non è usato per interpretare la vita e il mondo. Come la politica, anche la spiritualità incanala energie che potrebbero essere disperse malamente, e offre un’opportunità di leggere il mondo, ossia di ragionare su cosa si potrebbe fare per migliorare questa o quell’altra cosa. Insomma, come la politica, la spiritualità è strettamente connessa alla “speranza”. 

Se le cose stanno nel modo in cui dice la religione, cosa sono io? E cosa sono, su cosa si basano, i rapporti con gli altri? Che cosa può dare senso alla mia giornata, alle mie notti, alle mie vacanze? Il senso del sacro è fortemente fondativo dell’identità, una società in cui gli individui non cercano il sacro, non credono nelle religioni, non si fanno domande filosofico – esistenziali, è una società che va in pasto all’economia, e abbiamo già detto altrove del pericolo che questo può rappresentare. 

Arte: cultura o provocazione? 

Veniamo ad un altro grande motore delle idealità e delle identità, la cultura. John Lennon, secondo alcuni il più grande artista del Novecento, disse di avere chiuso l’esperienza Beatles quando capì che la sperimentazione era finita, e che la loro arte si era trasformata in un unico grande business. Secondo John Lennon il business non è arte. Era un idealista, non c’è dubbio, e infatti da solo muoveva le masse. Ecco, un idealista muove le masse. Con l’idealismo non si mangia, lo sappiamo, ma si riempie la testa di pensieri, di significati, di speranze. E questo è tantissimo. A quanto pare i movimenti artistici si spostano sempre più dalla comunicazione alla provocazione, e gli artisti piegano le loro capacità tecniche in senso commerciale: per vendere si deve parlare di loro. Per qualcuno è certamente un bene, alcune proposte artistiche sono interessanti, non c’è dubbio, ma la provocazione non può diventare la ragione di tutta la pratica artistica. O quantomeno, se lo diventa lo fa a scapito dell’altro significato dell’arte, quello che in termini molto generali potremmo definire “fare cultura”.

Lo scivolamento dell’arte verso la provocazione a tutti i costi, verso la massificazione, verso i grandi numeri, è il terzo aspetto che credo importate sottolineare. L’arte come la politica e la religione sono moti interiori che costruiscono il senso dell’essere, che aiutano chi se ne occupa a costruire significati. 

Se le persone hanno perso la voglia di sognare, di sperare, di immaginare un mondo diverso, per forza di cose restano invischiate nel pantano del qualunquismo, per forza di cose restano vittime delle seduzioni della rete. 

Il disagio giovanile è il risultato catastrofico, tra l’altro, di questo impoverimento passionale per la vita, per le sue attività sociali, per quel sogno del domani che ci culla ogni sera quando ci addormentiamo. 

Il disagio è strettamente correlato alla patologia mentale, che sovente non è altro che l’aumento a proporzioni insostenibili di quello stesso disagio. E il primo passo per contrastare il disagio è riempire l’essere di sogni, di speranze, di slanci vitali. 

Il secondo passo sarà, poi, quello di riempirlo di relazioni vitali, di affetti, di progetti condivisi. Ma come diceva Michael Ende, questa è tutta un’altra storia, e ne parleremo un’altra volta. 

Colleghi: flirt, amori e altre catastrofi organizzative.

Il clima è centrale nell’azione organizzativa, lo sappiamo bene. Un clima pesante o negativo fiacca il morale e rompe la collaborazione, mentre un clima sereno e positivo aumenta il benessere e di conseguenza i risultati del ciclo produttivo. 

Collusioni

Ogni gruppo di lavoro ha dei ‘conflitti di interessi’ nei confronti dei superiori o dell’esterno. In un ufficio, per esempio, i dipendenti avranno la tendenza a fare pause più lunghe o più frequenti di quanto concordato, oppure a usare lo smartphone anche quando non necessario, oppure ancora a limare il turno di lavoro spegnendo il pc qualche minuto prima della fine. Anche in una squadra di calcio professionistica ci sono conflitti di interessi, o in una banca centrale, o nel mondo del cinema e così via: i conflitti di interessi fanno parte delle interazioni lavorative tra persone. 

Così è importante che ci sia un buon clima tra colleghi, ma questa ‘positività’ deve avere dei limiti, per non sbilanciare l’azione complessiva in favore dei conflitti di interessi, ossia della ‘collusione’ tra colleghi. 

Una collusione abbastanza frequente nel mondo del lavoro è quella dei flirt o delle relazioni di coppia. In genere le persone vanno a lavorare per ragioni diverse da quelle relazionali o sessuali, ma questo tipo di ‘accidente’ esiste perciò è bene parlarne.

Non è detto che i flirt nascano dove il clima è migliore. A volte è vero il contrario: possono sorgere come reazione umanizzante in contesti difficili o particolarmente conflittuali. 

Contesti troppo facilitanti: gestire il conflitto 

In questo caso la fine di un flirt non potrà impattare molto sul clima perché è già altamente deteriorato, il problema riguarda quei contesti particolarmente predisponenti le relazioni informali.

Nel titolo parlavo di catastrofi organizzative. Ovviamente non volevo dire che quando sul lavoro nascono amori sia una catastrofe, tutt’altro, ma volevo mettere a fuoco un aspetto specifico: i contesti troppo facilitanti non sono abituati al conflitto

Alcuni ambienti sono costruiti sull’informale e sulla simmetria: vengono favoriti tutti i comportamenti atti a accorciare le distanze tra colleghi. In questi contesti è facile trovare persone che si frequentano dopo il lavoro, o che parlano tra loro di cose private. Il vero problema di questo modo di operare è il conflitto. 

Tutti sappiamo che raramente le relazioni affettive terminano senza screzi, per questo motivo un flirt in un contesto facilitante può diventare una piccola catastrofe organizzativa. 

Se una delle due parti patisce in maniera abnorme la rottura, può coinvolgere i colleghi (come da prassi dei contesti facilitanti) in polemiche trasversali, trasformando il clima in una palude a cui, per l’appunto, non si è abituati. 

Un buon clima è centrale nell’azione organizzativa, ma per evitare che nascano troppe collusioni un certo livello di sano e propositivo conflitto può essere pur sempre positivo. 

Aggressività sul lavoro: insoddisfazione e burnout.

In ambito lavorativo un livello minimo di conflittualità tra colleghi è utile, se non per certi versi persino auspicabile. 

Anzitutto perché, come insegna la filosofia, il confronto, la discussione, il ‘conflitto’ sono aspetti vitali del cooperare, rendono feconda e viva l’azione organizzativa che altrimenti potrebbe appiattirsi, e poi perché è meglio avere discussioni a cielo aperto piuttosto che mugugni e incomprensioni sotto traccia. 

Il conflitto e l’aggressività però devono restare entro una soglia di normale tollerabilità, perché una cosa è la dialettica appassionata tra professionisti, altra cosa è la difesa spartana di posizioni (e privilegi) attuata con arroganza e villania, cosa che accresce e non diminuisce la conflittualità e deteriora il clima. 

Insoddisfazione 

Posto che  l’arroganza può essere imputabile a perfidia o maleducazione, e per questo la psicologia del lavoro non può fare nulla, altre volte alla base di atteggiamenti poco collaborativi può esserci l’insoddisfazione o il burnout

Nel corso degli studi ci imbattiamo in argomenti che ci intrigano più di altri, e comprensibilmente culliamo il sogno di occuparcene durante la carriera lavorativa. Questo tuttavia è un sogno che solamente in pochi riescono a realizzare, e per lo più in maniera parziale. Ossia in tutti i lavori ci si trova a dover incanalare le competenze e gli interessi professionali nella direzione di quanto previsto dalla mansione che si ricopre. 

Così il preparatore dei portieri della nazionale di calcio, poniamo, sognava di allenare le skills dei suoi atleti, cosa che avrebbe fatto se fosse stato in una squadra di club, e invece deve occuparsi di altri aspetti più pragmatici. Allo stesso modo l’ingegnere al touch screen della Nasa ha fatto la tesi su un certo argomento e invece gli viene chiesto di occuparsi di altro. 

La distanza tra il lavoro che abbiamo sognato da studenti, o della modalità con cui vorremmo effettuarlo, e quello che ci viene richiesto dai committenti, scava in vari modi l’insoddisfazione lavorativa. Questa insoddisfazione può emergere sotto forma di alta conflittualità o peggio aggressività, ed è evidente che se in un team di lavoro qualcuno è arrogante o svalutante perché fortemente insoddisfatto le prospettive del team di lavoro non sono rosee.

Burnout

La conflittualità nelle organizzazioni può essere scatenata anche dal burnout. Se l’insoddisfazione riguarda la mansione, un certo tipo di burnout può riguardare il ‘ritorno’ che sentiamo di avere relativamente alle energie investite. Quando l’investimento non viene ripagato da un adeguato riscontro di risultati, può portare ad una forma di alienazione. In questo senso il burnout non riguarda soltanto le professioni di aiuto, in cui tipicamente si può avere l’impressione che gli sforzi non siano ripagati adeguatamente, ma per estensione tutti i casi di adattamento dell’uomo al suo contesto lavorativo.

L’aumento dell’irritabilità del soggetto in burnout può sfociare in rapporti lavorativi stereotipati e freddi, e in alcuni casi in atteggiamenti particolarmente arroganti o aggressivi. Se l’aggressività dovuta all’insoddisfazione riguarda la mansione, pertanto, l’aggressività dovuta al burnout riguarda il soggetto, il suo rapporto con il lavoro. La prima può essere superata soltanto dall’individuo, la seconda, se vogliamo, dal team nel suo insieme. 

Adolescenza, web e alimentazione: i ragazzi sono ben informati?

Una delle modifiche irreversibili che il web ha portato alla nostra vita riguarda il rapporto con il cibo. L’aumento dei contenuti social a sfondo alimentare non può non avere un impatto sulla percezione che abbiamo della nutrizione e di tutto quello che le ruota intorno. In adolescenza, inoltre, ogni micro evento va considerato sempre come elevato a potenza. Questo a causa della difficoltà degli adolescenti di adeguarsi al corpo che cambia, ma anche alla competizione tra pari, che a seconda dei casi può essere altamente distruttiva. 

Ho già detto altrove del food porn, ossia della moda esibizionista di postare i piatti che abbiamo cucinato o che stiamo per mangiare, vorrei ora soffermarmi sull’informazione e sulla disinformazione. 

Fake news

La capacità di leggere i contenuti impliciti di un testo, di un video o di un evento storico è centrale nella scuola come nella vita di tutti i giorni. La libertà di pensiero di cui godiamo si basa sulla possibilità di dare interpretazioni diverse, anche contrastanti, di uno stesso fenomeno. Tuttavia fare errori di valutazione molto grandi può essere controproducente, anche nel lungo periodo, e decifrare correttamente i dati che abbiamo davanti può discriminare tra conseguire un successo o un fallimento. 

Sui social network è facile incappare in sedicenti sessuologi, medici, esperti di storia, di lingue straniere ecc… e naturalmente anche di nutrizionisti. Dico di sedicenti non per sfiducia, ma perché dietro ai nomi ‘Emily 99 studentessa di medicina’, ‘Peppe Trapp ginecologo’, ‘Maneskina osteopata e erborista’ è difficile scorgere professionisti in grado di aiutare chi ha problemi di salute. 

Così il problema si sposta sull’utente della rete, sulla sua capacità di distinguere e scegliere tra un buon consiglio e un parere scientifico. 

Disturbi e disturbatori alimentari  

Il discorso alimentare in adolescenza può aprire faglie di vulnerabilità. La competizione nel gruppo classe, ma peggio ancora nello spogliatoio della palestra, può scatenare ossessioni profonde legate alla qualità o alla quantità del cibo assunto. Se aggiungiamo che i canali informativi privilegiati dagli adolescenti sono giocoforza quelli collegati al web, capiamo quali difficoltà abbiano educatori e famiglie nel modulare il flusso e la qualità delle informazioni. 

Le dinamiche di gruppo possono indurre i ragazzi a estrapolare frasi o frammenti di video dai social network e farne regole di vita. Il rinforzo ad un messaggio non è dato da chi lo emette, ma dal valore che viene assegnato dai membri del gruppo di riferimento. 

Se la ragazza più in vista della palestra riposta un video in cui, poniamo, si afferma che lo zucchero fa male, e infatti lei non lo assume, l’effetto di emulazione può essere dirompente. Il disturbatore alimentare, che emette sentenze legate alla sua esperienza, e che lui sente (legittimamente) efficaci, stimola, così, l’esordio di un vero e proprio disturbo alimentare. Non sarà però lui a pagarne il prezzo, ma i ragazzi e le loro famiglie. 

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