Venezia puzza

Sento sovente affermazioni lapidarie del tipo ‘Eastwood non sa recitare’, oppure ‘Andreotti è stato un politico mediocre’, oppure ancora ‘Venezia puzza’.

Sono sparate da discussioni semiserie davanti ad un caffè, d’accordo, ma tutte nascondono una tendenza comune: quella di racchiudere bene e male in compartimenti stagni di persone o cose. Se a queste affermazioni sostituissimo ‘Miss Italia quando corre traspira’, oppure ‘Pavarotti non era un granché alla chitarra’ o ancora ‘Nietzsche era completamente pazzo’, coglieremmo tutta la paradossale incompiutezza di cui sono costituite.

Considerare un oggetto come totalmente buono o totalmente cattivo, è una modalità difensiva che tutela i nostri ideali, ma non compatta le lacerazioni del nostro Sé; anzi le scava ulteriormente. Per questo è necessario fare uno sforzo di integrazione, per imparare a vedere che le persone e le cose a noi care (il nostro attore preferito, la nostra città natale, o i nostri genitori) non sono totalmente buone, cioè non corrispondono alla rappresentazione ideale che abbiamo di loro, ma hanno anche degli aspetti negativi, cioè hanno dei difetti. In altri termini diremmo che sono umani.

In questo modo affermare che Venezia sia una città meravigliosa non metterebbe in forse il nostro amore per il piccolo paese in cui siamo nati, così come accettare che Pavarotti abbia fatto una carriera eccezionale non significa che il nostro cantante preferito sia un buono a nulla, e via di questo passo.

Uno dei costi maggiori della crescita è scoprire come le cose, o le persone, che abbiamo idealizzato da bambini abbiano anche degli aspetti negativi.

Se sapremo farlo resistendo alla frustrazione, ameremo queste cose, e queste persone, ancora di più.

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Geni incompresi

Metto ora in evidenza un particolare tipo di condizione identitaria, quella del genio incompreso.

Va detto che a turno nella vita è successo a tutti di sentirsi incompresi, e magari con la sensazione di avere detto cose molto interessanti nell’indifferenza generale. Ma il genio incompreso è un tipo di individuo particolarmente convinto della sua unicità, e soprattutto che legge la propria solitudine come il risultato dell’appiattimento verso il basso dell’ambiente circostante.

Il genio incompreso non può neppure rifugiarsi in quella che Umberto Eco avrebbe definito la classe degli apocalittici, in quanto a suo modo di vedere non c’è nessuno in grado di condividere le
sue stesse intuizioni. Egli pertanto sente un solitudine fredda che non fa che aumentare ogni volta che qualcosa conferma la sua opinione.

Per non scivolare verso questa condizione è molto importante imparare a sostenere il confronto con i pari, e a fare valere le proprie ragioni non tanto sulla base di una supposta verità soggettiva,
quanto sulla forza della concreta capacità di adattamento e di problem solving.

Farsi valere, non farsi detestare. Ecco un buon sistema per non diventare un ‘genio incompreso’.

Un po’ tutti lo siamo ogni tanto, o almeno ci piace crederlo.

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Depressione

Una percentuale molto alta di individui soffre di disturbi dell’umore sotto traccia, o sotto soglia, se preferite. Sono quei disturbi che si palesano di tanto in tanto in forma di stanchezza eccessiva e apparentemente immotivata, di problemi del sonno, o di eccessiva trasandatezza e scarso amor proprio. Ma soprattutto come un calo della voglia di fare, un sentimento di vuoto persistente, una preoccupazione eccessiva per ogni cosa. 

Chiaramente bisogna fare una distinzione, la depressione reattiva ad un evento di vita, che può essere per esempio un lutto, una separazione, un trasloco, ecc…, non è un problema clinico.

Nella vita capita a tutti di essere un po’ giù di corda per qualche giorno, specie se in seguito ad un brutto momento. Ma qui si tratta di qualcosa di più, qualcosa di apparentemente immotivato. La donna in carriera, il professionista, lo sportivo di grido, che sentono dentro un peso non meglio definito, una percezione di vuoto, di nulla, di inutilità.

Molto spesso queste sensazioni rimangono, come dicevamo, sotto traccia, in quanto una bella serata in compagnia, magari con qualche bicchiere di vino, o un bel viaggio, possono allontanarle per un po’. Oppure la stessa routine quotidiana che per alcuni è davvero incalzante. Tuttavia se poi si presentano nello stesso identico grado, se non superiore, significa che non erano transitorie, e che pur se non sfociano in un vero disturbo dell’umore, possono ben ricalcarne le caratteristiche, e direi anzi in situazioni specifiche possono addirittura essere l’humus su cui un vero disturbo possa germogliare.

A proposito del viaggio: c’è chi ne fa una dipendenza. Gli psicanalisti francesi dicono che la mobilità geografica è sempre anche mobilità psichica, e che quando viaggiare è confrontare se stessi e la propria cultura con quella di altri, il viaggio è un elemento fecondo della vita mentale di ciascuno. Sono ovviamente d’accordo, ma bisogna dire che alcune persone viaggiano in maniera compulsiva, facendone una dipendenza. Un viaggio riempie la vita, e i vuoti che abbiamo nella pancia, già dalle fasi della sua preparazione. Alcuni al rientro da un bel viaggio si sentono a terra, come svuotati, non si adattano alla vita quotidiana e continuano a pensare incessantemente al viaggio appena terminato. Attenzione che questo senso di ‘svuotamento’ non nasconda un problema dell’umore. Un bel viaggio deve dare la carica, del resto è una vacanza, non può far sentire peggio di quando si è partiti. Così queste persone si dicono amanti del mondo, pianificano un’altra partenza e nel frattempo gettano discredito su chi sta sempre chiuso in casa. In questo modo, però, il senso di vuoto cresce, non si riempie, perché è un vuoto esistenziale. Ricordo ancora le pagine di Winnicott, quando parlava della capacità di stare soli. Un io adulto deve saper stare da solo con se stesso, sapendo gestire le angosce che inevitabilmente ciascuno di noi ha. Ampliando il significato diciamo che deve saper stare fermo. Conosco una persona che non vede l’ora di partire, poi durante il viaggio non vede l’ora di rientrare, poi quando torna a casa nuovamente pianifica un’altra partenza. E’ certamente una persona molto depressa, che non sa stare con se stessa, e non sa ammettere a se stessa quanto grandi siano i buchi che ha nello stomaco. 

Disturbi alimentari

Parlando di buchi nello stomaco, e più precisamente di vuoti affettivi, non possiamo non accennare ai disturbi alimentari. Il disordine della condotta alimentare è uno dei più diffusi (e infatti non tutti sono patologici) ma anche uno dei più dileggiati. Soprattutto se riguarda persone famose, attrici, cantanti, o anche un’amica particolarmente brava a scuola o nel lavoro.

Io preferisco parlare di ‘condotta alimentare’ piuttosto che di disturbo, perché alcuni comportamenti di controllo del piano alimentare non sono necessariamente patologici: chi di noi non si è messo un po’ a dieta prima della prova costume? E chi non ha fatto il ‘pieno’ di dolci o di carboidrati quando sapeva che ne sarebbe rimasto senza per un po’?

Anche la condotta alimentare, come le altre modalità stabili di comportamento, si situa su un continuum. Ad un lato del continuum si trova l’alimentazione per così dire accettabile, magari con una smorfia, anche dai nutrizionisti. Parlo della spaghettata dopo il bagno di mezzanotte, del secondo bombolone al rientro dalla discoteca, del rinforzo sulla pizza quattro stagioni. Ciascuno faccia gli esempi che meglio corrispondono alla propria vita. Il punto che interessa è la dinamica che si instaura con il cibo. Quel mix di amore/odio in un’atmosfera di controllo da un lato, quella ricerca di abbraccio degli zuccheri dall’altro, con la coda di sensi di colpa e odio per sé che in genere se consegue.

Inutile dire come le condotte alimentari, così fortemente osteggiate in famiglia, siano fonte di accusa e ostracismo anche nel gruppo dei pari. Abbiamo già detto altre volte della superiorità intellettuale del soggetto che sviluppa un disturbo alimentare. Non è raro, per meglio dire, che il disturbo alimentare sia una persona di successo, almeno nel gruppo di appartenenza. Per questo dietro un’aura di commiserazione talvolta si cela una vera e propria ostilità, direi un biasimo che le altre problematiche non portano. Il soggetto viene fortemente accusato, magari alle spalle, dal suo gruppo di appartenenza, che lo isola, ne prende le distanza, e nei casi peggiori arriva a distruggerne la reputazione. Personalmente ricordo un articolo di giornale che raccontava il suicidio di una ragazza con un problema alimentare: i coetanei, intervistati dal giornalista, bollavano l’amica come una persona debole, senza spina dorsale, e che rifiutava persino il cibo che i genitori le davano.

Fobie

Tutti conoscono qualcuno che non prende l’ascensore o detesta le gallerie. I problemi legati all’ansia sono molto diffusi, ma la cosa peggiore per chi ne è vittima è che gli altri tendono a svalutarli, persino talvolta dileggiarli. ‘E’ arrivato quello che non prende l’aereo’, ‘Andiamo in campagna, ma non diciamolo a … che ha paura dei ragni’.

Sovente le reazioni altrui sono quelle di una battuta impropria, di un sorriso, di una svalutazione. Ma il soggetto vive una  tragedia. C’è una sorta di piacere sadico nel dileggiare qualcuno che abbia una fobia, perché ci si sente superiori, forti, si sente di avere del potere sull’altro. Inutile dire quanto questo sia scorretto, ma nel mondo c’è sempre chi fa scorrettezze, tanto più nelle compagnie di amici o nei team di lavoro. Questo discorso, poi, si amplifica quando si parla di una persona di successo. Questi individui certamente rispettati e ammirati, sono molto spesso anche invidiati: facile  trovare chi metta in risalto una piccola difficoltà, giri il coltello nella piaga, amplifichi un’insicurezza. Ricordo una famosa diretta tv in cui le componenti della staffetta femminile italiana alle olimpiadi incolpavano della sconfitta una di loro, l’unica che correva anche da sola, evidenziando certe sue difficoltà.

Le persone con problemi di ansia vanno spesso incontro ad una condizione molto specifica: da una parte si ritirano dal punto di vista relazionale, aumentano le distanze, perdono la fiducia negli altri e nel poter avere delle relazioni significative. Dall’altra idealizzano delle relazioni come ‘salvifiche’, ad esempio con dei vecchi amici, o con dei luoghi, oppure ancora con gli ansiolitici, da cui poi faticano a staccarsi.

Il soggetto con attacchi di panico o fobie tende così a non uscire di casa senza la ‘copertura’ del farmaco. Lo tasta nella tasca interna della borsa, controlla l’orologio per la prossima somministrazione, e soprattutto si guarda bene dal fare parola ad alcuno. Le conseguenze si possono immaginare.

Ci sono persone che cominciano a vivere una frattura tra il pubblico e il privato, tra il loro essere in mezzo agli altri e il loro essere dentro casa.

Dalla fobia si può passare al pudore, alla vergogna, e in alcuni casi anche al senso di colpa. Così quello che può sembrare un sintomo isolato, come la paura del tram affollato, del cinema o del concerto, diventa fonte di vergogna, perché tutti gli altri ci vanno senza problemi, e invece la persona in oggetto non lo può neppure dire.

Pandemia

L’attuale condizione a cui tutti siamo sottoposti funge da potente detonatore. Ciascuno di noi ha un proprio particolare stile di personalità, e un proprio modo di reagire a situazioni stressanti. Ma i materiali più solidi sottoposti a condizioni particolari si logorano maggiormente, e se caricate su una bicicletta il peso di un’automobile il suo telaio si affloscerà.

Intendo dire che le situazioni limite portano all’estremo le nostre capacità di farvi fronte, e possono fare emergere piccole difficoltà che nella vita di tutti i giorni in genere teniamo ben sotto controllo.

Inoltre l’impossibilità di parlare con qualcuno, di dare rappresentazione mentale a certe forti emozioni, contribuisce a renderle sempre meno ‘pensabili’, e sempre più a scaricarle sul corpo, attraverso sintomi di vario genere.

Le persone di successo, in carriera, ben adattate hanno più possibilità di altre di riprendersi in fretta da un periodo negativo.

Ma devono credere in loro stesse, non si devono mentire, e soprattutto devono cambiare il modo con cui affrontano le cose.

La cura nelle persone “felici”

Alcuni individui hanno avuto un’infanzia felice, una buona adolescenza, una giovinezza ricca di esperienze ed ora sono adulti di un certo successo.

E’ nostra comune esperienza che queste persone possono essere vittime di attacchi di ansia, di problemi del sonno o di disturbi dell’umore, tanto quanto altre persone, diciamo così, meno fortunate.

Vorrei dedicare alcune righe a questi soggetti. Perché avere avuto una buona infanzia ed essere oggi persone complessivamente ben adattate, diciamo pure persone felici, non mette al riparo da cortocircuiti che possono trasformare un ‘periodo no’ in un inferno. 

La grave patologia mentale, con sintomi severi e persistenti, è in genere vista come la vera malattia, dilaniante e insieme invalidante, in grado di scompensare gli equilibri lavorativi, di coppia e familiari. Questo per certi versi è vero, anche se le tecniche terapeutiche hanno fatto enormi progressi, inimmaginabili fino a pochi anni fa. E certa patologia mentale è in relazione, come oggi ben acclarato, con esperienze primarie di deprivazione ambientale, se non di gravi traumi o abusi.

Ma non necessariamente un ambiente facilitante, o l’assenza di gravi traumi, garantisce per il benessere incondizionato, e anzi ci troviamo spesso dinanzi a persone ben adattate al loro ambiente, con una vita piena e tanti interessi, che ad un certo punto cominciano a soffrire per qualcosa che viene da dentro, ma anche da molto lontano, tanto lontano che loro stessi non saprebbero neppure dire da dove.

Una volta che si presenta questa sofferenza, inoltre, scatta quasi sempre un’ulteriore paradossale condizione. Direi quasi una condanna: fatta di pettegolezzi, discredito e spregevoli calunnie. 

Alle persone in carriera, di successo, o brillanti e indipendenti non è socialmente consentito avere défaillances. Ansie, angosce, disturbi dell’umore non possono riguardare il primo della classe. Alle persone di successo non è consentito essere umane.

Va così che lo studente universitario, lo sportivo da copertina o l’individuo realizzato con un lavoro stabile, entrano in un vortice da cui non riescono a uscire e alla sofferenza che li attanaglia uniscono la solitudine dell’incomprensione, alla paura che li abita ogni giorno, la perdita della fiducia nel prossimo, che non accetta, de facto, le loro difficoltà, al timore di non farcela le accuse degli altri, che si chiedono che cosa manchi loro per ‘ridursi in quel modo’. 

La storia di vita di queste persone è, come abbiamo detto, sostanzialmente felice, talvolta anzi essi hanno avuto tanto dalla vita. Per questo non riconoscono nel loro passato i semi della sofferenza attuale. Alla domanda ‘che motivo hai per avere questi attacchi durante la notte?’ fatta da qualche congiunto, rispondono abbassando lo sguardo ‘nessuno’, e chiudendosi in un silenzio carico di finzione. ‘Che motivo hai per vomitare ogni volta? Cosa ti è mancato nella vita?’ ‘Niente, va tutto bene’. Chi legge può aggiungere da sé altri esempi.

La consapevolezza che le cose siano andate bene, o meglio che ad altri, e il sostanziale scetticismo che li circonda, trascina questi individui in un baratro: mentre a volte basterebbe poco per sentirsi compresi, e ancora meno ad afferrare una verità che è solo lì a portata di mano.

Perché se è vero che la vita è stata buona, proprio questa è la fortuna di questi pazienti: essi hanno dentro di loro tutte le possibilità per drizzare la barra, e superare brillantemente le sabbie mobili.

Immagine di copertina di Florian Schmetz via Unsplash

Problemi di relazione

Sempre più persone faticano a intrecciare relazioni sentimentali stabili e soddisfacenti. In genere si tende a dare la colpa all’altro, o agli altri, dicendo che sono stupidi, che non hanno capito la ricchezza di quello che si ha da dare, o che sono degli egoisti. Altre volte invece ci si addossa l’intera responsabilità, dicendo che si è sbagliato tutto, che non si ha ancora imparato ad orientarsi nel mondo, e che evidentemente si è destinati alla solitudine.

Ciascuna di queste risposte, sia ben chiaro, può assolutamente essere vera, come ciascuna delle ‘posizioni’ che esse riflettono, e anzi in molti casi le motivazioni della fine delle relazioni possono essere proprio queste. Ma non tutte le volte la ‘colpa’ di un fallimento sta necessariamente negli altri o in noi stessi. A volte quello che si tende a sbagliare sono semplicemente i presupposti con i quali si sceglie una relazione, con i quali la si avvia, e di conseguenza, la si porta avanti.

Molte persone tendono a mostrarsi nei primi approcci in un certo modo per fare colpo, sperando poi che man mano l’altro si renda conto di come effettivamente la persona sia, e di cosa effettivamente stia cercando da quella relazione. Mentre va da sé che se entro in un negozio per comprare l’insalata e al banco frigo vengo attratto dai gelati, sarà difficile che una volta arrivato a casa mi renda conto di aver sbagliato qualcosa. Anche se non ho preso quello che mi serviva, ho comunque comprato quello che diceva il cartello.

Ovvero, il fallimento della relazione è già iscritto nel suo inizio, nessuno dei due ha fatto errori nel corso della relazione. L’errore era a monte.

Veniamo alla parte del ragionamento che più ci riguarda, l’incidenza di queste problematiche nella vita di persone di successo. Come per gli altri esempi fatti, i continui fallimenti nelle relazioni affettive fa soffrire e isola chiunque. Ma queste difficoltà creano un’aura di scetticismo intorno alla persona che per altri aspetti è ben adattata, preparata, vincente. 

Il mondo è pieno di detrattori. Figuriamoci per una persona molto stimata e invidiata che continua a circondarsi di persone sbagliate.

Psicosomatica

Il corpo parla. A tutti è capitato di arrossire ad un appuntamento, di avere il battito accelerato durante un esame o di sentire le mani fredde davanti alla paletta di un posto di blocco. Il nostro corpo ci parla anche quando noi non lo sappiamo, direi, anzi, persino quando noi non vorremmo che lo facesse. Questi fenomeni corporei sono dei segni che indicano un stato d’animo interiore, lo sappiamo tutti. Vi sono tuttavia anche altre e più importanti manifestazioni corporee, a cui però diamo minor peso in ambito psicosomatico, forse perché ci parlano di un malessere più profondo, più esteso, e meno superabile di quelli che abbiamo citato. Se l’emozione per un primo appuntamento svanisce al termine della serata per lasciare posto ad un benessere diffuso, se l’ansia dell’esame è superata appena arrivati al bar, o se la paura per un controllo è passata non appena mettiamo la freccia per ripartire, ci sono altre situazioni che creano un disturbo meno evidente ma più persistente, che non superiamo nel giro di pochi minuti.

Così certi problemi sul lavoro, o in famiglia, diventano condizioni stabili, e questo ci ferisce in maniera continua, per quanto sotto soglia, lasciando dentro una traccia, che il tempo scava sempre più profondamente. Quando la traccia diventa solco, anche il nostro corpo comincia a comunicare questo malessere, secondo il principio che alcune cose, come il rossore all’appuntamento, ecc, vengono espresse anche se noi non lo vorremmo. In questi casi ignorare, o concentrarsi troppo sul sintomo potrebbe essere fuorviante. Mi spiego con un esempio: poniamo che dietro al volante della mia auto si accenda la spia della benzina. Potrei scegliere cosa fare tra una piccola serie di alternative: ignorare la spia, svitare il rispettivo relè responsabile dell’accensione della spia stessa, andare al distributore e modificare le condizioni meccaniche che portano il sistema ad indicare che manca benzina. Chi legge sarà certamente d’accordo che la terza opzione è l’unica non soltanto dotata di senso, ma anche di visione prospettica. Infatti se non voglio trovarmi a piedi a metà del mio tragitto mi converrà assolutamente fare il pieno. Ecco, per la psicosomatica è un po’ la stessa cosa. Se fatti tutti gli accertamenti del caso i medici mi dicono che non c’è nessun problema organico e che il mio malessere è di natura psicosomatica, potrei fare come per la spia della benzina. Ignorarla, assumere ansiolitici, (svitare la lampadina) oppure capire che cosa crea dentro me il cortocircuito e cambiare le condizioni che ne sono all’origine. Nessuno ha mai detto che sia facile o veloce. Ma è l’unica soluzione cha abbia una visione prospettica

Psicologia del lavoro e del non lavoro

La parte predominante della giornata di chi ha un’occupazione stabile è dedicata a questa occupazione. Va da sé che gli aspetti ‘psi’ del lavoro che facciamo siano gli azionisti di maggioranza della nostra esistenza. Il clima in azienda, le relazioni con i colleghi, il rapporto con il prodotto finito (servizio o industriale che sia) dell’attività svolta, la condivisone o meno di vision e mission dell’organizzazione, sono tutti aspetti che incidono moltissimo sul benessere e sulla motivazione di un lavoratore. Per non parlare del rapporto con il tempo libero, di un eventuale progetto di carriera, del salario e delle sue variazioni. Il post industriale ha portato un progressivo disinteresse verso le problematiche del lavoro, ma anche verso le diverse dinamiche psichiche che dal lavoro vengono smosse. E così le fusioni aziendali, le ristrutturazioni e i vari ricollocamenti vengono spiegati attraverso le opportunità di crescita che rappresentano per i dipendenti, ma  (quasi) mai attraverso le delusioni che portano, la decrescita infelice che determinano, e il senso di fallimento a cui l’entusiasmo di un tempo lascia il posto.

Parlando del lavoro c’è poi quella che chiamo la psicologia del non lavoro. Chi non ha un lavoro apre una serie infinta di problemi al resto della società: cosa bisogna offrire a questi individui? Chi deve occuparsi di loro? Quali competenze è necessario che imparino a implementare e quali invece no? Se un’azienda in salute fa formazione perché vuole i suoi dipendenti sempre aggiornati, occuparsi di chi è senza occupazione, dal punto di vista della psicologia del lavoro, vuol dire fornire le capacità di fare domani un lavoro che oggi non si è in grado di fare, o le capacità per costruire un lavoro che oggi non si è in grado di costruire.

Come si vede gli aspetti psicologici dell’attività lavorativa vanno ben oltre i noti ambiti di selezione del personale, formazione e di assessment center, per andare ad abbracciare in pieno la vita lavorativa di una persona. Se vogliamo fare un parallelo possiamo dire che se un paziente viene in terapia da me per un problema di attacchi di panico, poniamo, legato all’ascensore, il mio obiettivo come terapeuta non è solo quello di fargli superare il sintomo, ma deve essere quello di aiutarlo a sviluppare gli anticorpi per le ansie di qualunque tipo. Solo in questo modo sarò certo che fra tre, cinque, sette anni non svilupperà un problema di ansia legata ad un altro stimolo. Per il mondo del lavoro, fatte le debite proporzioni, valgono le stesse regole.