Psicologia dello sport e dello sportivo

Il gioco è allegoria della vita. Quando giochiamo siamo più sciolti, limitiamo l’autocontrollo, e vengono fuori le nostre modalità comportamentali più specifiche. La parte negativa di questa condizione è che lo sportivo vede riflessi nella sua attività anche alcuni dei limiti che preferirebbe tenere nascosti. Tutti sappiamo, per esempio, di campioni che hanno ‘steccato’ nella gara più importante della loro vita, o di atleti che vanno in crisi al cospetto di rivali più bravi. Questo avviene perché le componenti personologiche individuali influiscono nella prestazione atletica più di quanto vorremmo. La buona preparazione atletica, quindi, dovrebbe comprendere anche una buona preparazione mentale, se si vogliono esprimere le abilità al cento per cento, limitando l’influenza di ansie e condizionamenti personali. 

Faccio alcuni esempi, per mettere meglio a fuoco l’influenza degli aspetti mentali nella prestazione sportiva.

  1. Il quarto game del set.  Chi gioca a tennis conosce molto bene quel preciso istante in cui la partita ha una svolta: è sovente quando dal 3-1 si passa sul 4-1, anziché sul 3-2. Parliamo di un piccolo punto che a livello numerico vale come tutti gli altri, ma mentalmente è molto pesante, perché genera un calo complessivo della concentrazione. Va detto che a volte è una tattica di gara, per chiudere il set e ripartire dal successivo, ma molto spesso no. Vi è che non c’è un vero motivo per cui qualcuno sia giustificato a cedere in una fase particolare della partita: né nello sport, né del resto nella vita, di cui lo sport è allegoria, come abbiamo detto. Del resto non c’è solo il primo posto, anche arrivare secondi, terzi e così via può essere importante. Così ci rendiamo conto che chi è vittima del quarto game del set, come amo definirlo, è destinato a soccombere ogni volta che si troverà in situazioni di svantaggio, e nello sport sono, ovviamente, molto frequenti.
  2. Competizione. Stare in una situazione di contrasto sportivo non è facile, ma non è neppure per tutti. Alcuni individui per natura non sanno dare battaglia, non sono in grado di ‘strappare’ qualcosa ad altri, non sono portati al ‘conflitto’, che come dicevano gli antichi è origine di ogni cosa. Per questi individui arrivare alla fase finale di una competizione sportiva è già una vittoria, e abbassano irrimediabilmente il livello della disputa perché trovano difficile ‘competere’. Quando si parla di competizione si aprono mille spunti di riflessione dal punto di vista psicologico: pensiamo alla competizione sessuale. Vediamo ogni giorno cosa fanno uomini traditi o rifiutati alle loro donne. La sana competizione non può prevedere la distruzione dell’avversario, o chi ti fa un torto, ma un lavorio intelligente facendo leva sulle caratteristiche più favorevoli di una situazione. Quindi lo sportivo potrebbe domandarsi: quali sono i miei limiti in questa situazione? E puntare su quegli aspetti in cui è più forte. E dove invece ha delle difficoltà nell’approccio alla battaglia (sportiva) analizzare le ragioni di queste difficoltà e limarle per definire delle competenze mentali più consone agli obiettivi che egli ha come sportivo.

Altri aspetti ‘psi’ che condizionano la prestazione sportiva sono la capacità di concentrazione, la motivazione alla riuscita, la gestione dello stress di gara, che è associata a quel filone di studi che oggi va sotto il nome di burnout sportivo, a altri ancora. Ma anche, allargando lo sguardo alle dinamiche di gruppo di uno sport di squadra, la gestione della leadership, o i rapporti nello spogliatoio, messi in crisi dalle differenze di compenso all’interno di un team. Per non parlare di eventuali dissidi, dissapori, incomprensioni personali, per esempio con lo staff tecnico, che oltre a creare malessere fanno perdere ‘valore di mercato’. Insomma, come si vede gli elementi psicologici presenti nello sport sono di diversa origine e natura, e se non ben affrontati possono portare anche al fallimento di un’esperienza sportiva, individuale o di gruppo che sia. 

Quali sono gli stili materni? Mother Superior, un tipo di madre invadente (e disfunzionale)

Non tutte le madri ‘presenti’ sono invadenti, non tutte le madri invadenti sono necessariamente disfunzionali. La vulnerabilità percepita può indurre la madre a perpetrare un accudimento eccessivo nei confronti del figlio, un accudimento che in alcuni casi può diventare controproducente allo sviluppo del figlio stesso.

Alcune madri dispongono e pianificano le tappe di crescita dei figli. Non alludo al naturale desiderio di una madre di vedere un figlio laureato o con una buona posizione lavorativa, e che pertanto fa delle pressioni per la scelta di un corso di studi o di un contratto di lavoro. Intendo quel tipo di atteggiamento che sia insieme minatorio e denigratorio, e per lo più preverbale, non totalmente esplicitato. In base a questo atteggiamento un individuo ha bene presente che cosa la madre approverebbe e cosa no, ancora prima che ella lo esprima.

L’invadenza disfunzionale in questi casi diventa intrusione ed estrazione parentale, ovvero il mettere dentro ai figli parti che non siano loro, ed estirparvi parti non apprezzate. Una delle conseguenza più disastrose dell’invadenza disfunzionale è che si può scaricare sull’individuo, sulla famiglia che egli si crea, o ancora sui suoi figli. in questi casi ci troviamo di fronte ad un figlio che riesce a ‘bypassare’ l’invadenza della madre ingombrante su di sé, ma la ‘scarica’ sulla compagna/compagno o sugli eventuali figli.

L’abbandono e le sue implicazioni

Quando l’abbandono descrive la ripetizione di un trauma passato è certamente più doloroso e difficile da superare. Quelle che chiamiamo le separazioni premature, o perdite precoci (early losses) scavano nell’individuo una solitudine carica di ansie, angosce e sensi di colpa.

All’inizio, come diceva Freud, un bambino sceglie una figura di riferimento e la investe di energie vitali, per orientarsi nella crescita e identificarsi in un modello vincente. Quando la perdita riguarda questa figura fondamentale il bambino si trova davanti al baratro dell’ignoto. A questi bambini può servire molto tempo per definire la propria identità senza una figura simile, ma la cosa peggiore è che quando nella loro vita vivranno un altro abbandono (non fatevi illusioni, ci passiamo tutti) la ripetizione potrà scatenare i fantasmi di un tempo. O se preferite la metafora neurologica, l’attivazione di quelle aree sottocorticali potrà fare emergere le stesse sensazioni della separazione originaria.

Una seconda implicazione è quella della teoria su di sé. Quando l’abbandono viene letto attraverso la lente della colpa, ovvero ‘Sono stato abbandonato perché non sono abbastanza buono, ho fatto qualcosa di sbagliato’ o simili, la ripetizione dell’abbandono riattualizza la teoria su di sé. Una teoria su di sé è talvolta una narrazione interna silente e preconsapevole, un insieme di sensazioni non del tutto esplicitate che conducono però a conclusioni rigide e definitive del tipo ‘Se anche questa volta sono stato abbandonato, allora è proprio vero che non valgo, non sono degno di amore’ e simili. Questo tipo di narrazione interna basata sulla colpa può condurre l’individuo a percorrere strade diverse: da quelle riparatorie, (ad es. volontariato) a quelle che mirano a colmare o spegnere il vuoto (shopping compulsivo, dipendenze, e simili).

Ripetizione della perdita precoce e riattivazione di una certa teoria su di sé sono pertanto due delle principali implicazioni dell’abbandono.

Ce ne sono altre, ma le metterò a fuoco in un secondo momento.

Trauma

Tutti abbiamo nel nostro passato un evento che definiamo come una ‘ferita’ o una ‘rottura’. Tuttavia non tutti abbiamo superato questa ‘rottura’ allo stesso modo. Molti l’hanno superata globalmente bene, ne portano un ricordo doloroso, ma malinconico, come se fosse una parte comunque cara della loro storia. Vi è invece chi è stato sconvolto da questo evento, e non lo ha mai veramente metabolizzato. La sua vita da quel momento ha preso una direzione diversa, imprevista prima, direzione che lo ha portato lontanissimo da dov’era inizialmente. E poi c’è anche chi non è mai riuscito a ripartire, ed è rimasto schiavo dei condizionamenti che quell’evento ha generato.

La storia del trauma e di ciò che è stato traumatico è per larghi tratti la storia stessa della psicoanalisi. E a ben guardare per larghi tratti è anche la storia stessa della cultura di cui facciamo parte. La storia dell’umanità avanza per eventi traumatici, e anche nella storia dell’umanità vediamo culture che superano i traumi senza problemi, altre culture che pur se con difficoltà si adattano ai cambiamenti introdotti da un trauma, e altre culture ancora che invece si perdono irrimediabilmente proprio a causa della rottura che per l’appunto il trauma ha causato. 

Non è facile definire che cosa sia traumatico e cosa no, o almeno non in termini assoluti. Come è stato ben definito da qualcuno, per esempio, l’11 settembre come evento collettivo è stato globalmente meno traumatico di alcuni eventi individuali. L’11 settembre è stato metabolizzato a livello collettivo con un serie di cambiamenti di abitudini in tutto il mondo, pensiamo alle regole sui voli, con nuovi progetti per lo skyline della città e non da ultimo con una serie di azioni militari che per alcuni sono state persino superiori rispetto all’offesa ricevuta. E per non citare quel senso di vilipendio collettivo che in occidente tutti hanno sentito come proprio, anche chi a New York non ha mai vissuto, e mai ci vivrà. In altri casi invece non siamo così fortunati. Ci sono eventi che per pudore, per vergogna, o semplicemente per disinteresse da parte degli altri, restano per lo più segreti, così come i loro connotati emotivi, che nessuno mai accoglierà. Può avvenire che questi eventi portino a cascata delle ricadute nel nostro comportamento, come ad esempio diventiamo pian piano diffidenti verso gli altri, o veniamo colpiti da attacchi di malinconia, o da un senso di disagio nelle relazioni affettive. In questi casi il trauma diventa ‘insuperabile’.

Poi c’è il trauma cumulativo. E’ una definizione che amo particolarmente, perché rende conto di tutte quelle situazioni che di per sé non sono traumatiche, ma lo diventano in quanto condizioni esistenziali. Subire per qualche volta le angherie di una persona insoddisfatta non è traumatico, soprattutto se sappiamo avere pazienza, ma vivere per anni con un congiunto che si sente un fallito e scarica su di noi la sua rabbia, magari castrando ogni ambizione che esprimiamo, beh questo può diventare traumatico.

Tenere d’occhio un fratellino per un pomeriggio non è traumatico, anzi può favorire la crescita sana e il senso di responsabilità, ma avere sulle spalle l’impegno di controllare un fratellino che ha un problema di salute e deve essere monitorato costantemente, può creare ansia e difficoltà a lasciarsi andare, insomma a suo modo può essere traumatico.

Le modalità con cui abbiamo reagito a eventi traumatici passati condizionano sovente anche il nostro presente, e ad esserne pienamente consapevoli non è mai troppo tardi.