Autore: Fabio Convertino

  • One Mile Smile. Una storia d’amore e non solo.

    One Mile Smile. Una storia d’amore e non solo.

    Winslow, Arizona, 1886.

    La polvere si sollevava lieve sotto i passi di Jack mentre usciva dalla drogheria, il sole battente faceva luccicare i binari della ferrovia poco più in là. Fu in quel momento che la vide.

    Daniel era in piedi accanto al carretto del padre, una cesta di mele strette al petto. Il suo sguardo incrociò quello di Jack per un istante, e poi sorrise. Un sorriso lungo un miglio, uno di quelli che non si dimenticano. 

    Da allora, ogni notte, Jack sognava quel sorriso. E ogni notte si svegliava col cuore in gola, in preda a un’angoscia che non riusciva a spiegare.

    Sapeva bene che non avrebbe mai avuto il permesso di rivederla. “Lasciala stare, Jack,” gli aveva detto suo padre con quel tono che non lasciava spazio a repliche. Suo fratello maggiore lo aveva spinto contro la parete della stalla, ridendo amaro: “Dimenticala, prima che sia troppo tardi.”

    Ma era già troppo tardi.

    In un pomeriggio di fine estate, mentre le ombre si allungavano sulle colline, Jack salì alla vecchia miniera Duke. Portava con sé una bottiglia di liquore fatto in casa dal nonno, e perso nei suoi pensieri, beveva a piccoli sorsi. 

    Si avvicinò al bordo del dirupo. Il vento soffiava dal canyon, portando con sé l’odore della terra secca e del ferro. Jack estrasse dalla tasca un pezzo di carta,  scrisse alcune parole, e lo posò a terra, accanto alla bottiglia vuota.

    Quando i cercatori d’oro lo trovarono all’alba, il biglietto era ancora lì, appesantito da una pietra. C’era scritto solo questo:

    Jack and Daniel Forever.

  • Potere. Una storia di uffici e di ricatti.

    Potere. Una storia di uffici e di ricatti.

    Emanuele entrò in sala riunioni con il tablet in mano e il nodo alla cravatta stretto un po’ troppo. Era il più giovane tra i presenti, e l’aria densa di discorsi sottintesi lo mise a disagio. Sabrina sedeva a capotavola, la schiena dritta, lo sguardo che sembrava misurare ogni cosa.

    “Accomodati, ingegnere”. La sua voce era fredda, tagliente. Ma aveva un sorriso malizioso, di quelli che ti fanno chiedere se sei stato scelto o se sei solo stato preso di mira. Emanuele sedette alla sua destra, nel posto che la direttrice aveva tenuto libero per lui. Poi lei iniziò a parlare, snocciolando numeri e strategie. Aveva la sicurezza di chi sa che nessuno oserà metterla in discussione. Ogni tanto il suo sguardo tornava su di lui, indugiava, lo scrutava con un misto di sfida e compiacimento. E apriva nuovamente quel sorriso malizioso. 

    Quando la riunione finì, tutti uscirono rapidamente. Lui fece per seguirli, ma la voce di Sabrina lo fermò:

    “Emanuele, resta un attimo, per favore. Devo parlarti di una cosa”.

    Il giovane ingegnere si girò, cercando di mantenere un’espressione neutra. Lei si alzò, chiuse la porta con calma, si avvicinò. 

    “Ti trovi bene qui, Emanuele?”

    Lui annuì. “Certo, direttrice”. 

    “Bene.” La voce fredda divenne improvvisamente mielosa. Poi fece qualche altro passo in avanti. Ora il ragazzo poteva sentire il profumo costoso della donna. “Vedi Emanuele”, ancora quel sorriso malizioso, “Voglio essere sicura, come dire?” Con la mano sfiorò la sua cravatta. “Che tu sappia come funzionano le cose in questo ufficio.”

    Emanuele si irrigidì. Aveva capito benissimo. Il tono, la vicinanza, il profumo: era tutto chiaro, chiarissimo. Avrebbe potuto dire qualcosa, o arretrare. Ma il potere era tutto in quel momento, in quell’ufficio chiuso. Quella di Sabrina non era una domanda, ma l’affermazione di dominio su un territorio.

    “Certo, direttrice”. Le parole uscirono dalla sua bocca in maniera meccanica. 

    Quella sera, mentre tornava a casa, Emanuele ripensò a quel momento. Al gelo che gli era corso lungo la schiena, al sorriso di Sabrina: uno di quei sorrisi che non si dimenticano.

  • Pensiero debole: prove di bilancio

    Pensiero debole: prove di bilancio

    Negli anni Ottanta, quando Gianni Vattimo propose il filtro del pensiero debole, il mondo sembrava avviato a una fase di declino delle grandi certezze. Il crollo di muri e ideologie, il tramonto delle narrazioni totalizzanti, la diffidenza nei confronti delle verità assolute: tutto questo si rifletteva in una filosofia che non pretendeva più di fondare sistemi rigidi, ma si apriva alla pluralità dei punti di vista, era “possibilista”.

    Oggi, a distanza di decenni, viviamo in un’epoca che sembra muoversi in direzione opposta. Il populismo, nelle sue varie forme, predica verità indubitabili, semplificate, ridotte a slogan. Nel tumulto della geopolitica contemporanea, l’incertezza non è più vista come uno spazio di libertà e dialogo, ma come una minaccia da respingere con dogmi rassicuranti. Quale bilancio possiamo fare, allora, del pensiero debole? Cosa ne è rimasto, in questo ritorno delle garanzie autoritarie? 

    Un pensiero che accoglie il diverso

    Uno degli aspetti più interessanti del pensiero debole, e delle sue diverse declinazioni in psicologia e sociologia (Giorgio Girard, ad esempio), è stato il suo invito a guardare l’altro senza pregiudizi, con l’apertura mentale di chi non pretende di imporsi, ma accetta la propria versione come una delle possibili. Non che si trattasse di un relativismo nichilista, piuttosto di una forma di disincanto, una disposizione mentale, che nel riconoscere la complessità del mondo, faceva della Verità la meta di un viaggio, più che il prodotto di una pubblicità. 

    In questo senso, il pensiero debole si è rivelato strumento prezioso per approcciare l’altro, il diverso da noi. Ci ha insegnato a guardarlo con dubbio, curiosità, piuttosto che paura. In un’epoca di globalizzazione turbolenta, ha aiutato a costruire ponti piuttosto che muri. 

    La fragilità di fronte al ritorno dei dogmi

    Tuttavia, il post modernismo ha avuto anche i suoi limiti, e con lui il pensiero debole. Ci siamo convinti che la storia fosse finita, che tutti volessero vivere all’occidentale, che la nostra scettica, ma serafica, apertura verso gli altri fosse la stessa che altri avevano verso di noi. L’11 settembre 2001 è stata la campanella che ha segnato la fine della lezione, ma l’illusione ci piaceva, e siamo andati avanti. Siamo così arrivati agli attentati di Parigi, per scoprire che no, gli altri non ridono della religione come facciamo noi. 

    La rinuncia alle grandi narrazioni e la critica alle verità precostituite, hanno lasciato spazio, in breve, a nuove forme di dogmatismo. Oggi vediamo come i populismi sfruttino proprio la necessità dell’uomo di avere certezze, per potersi muoversi nel suo quotidiano. La cultura debolista degli anni Novanta bollava questo fenomeno come regressivo, ma aveva torto. In una lezione universitaria divenuta celebre, qualcuno domandò al Prof. Girard, collega e amico di Gianni Vattimo, per quale motivo la gente avesse bisogno di verità, se il pensiero debole affermava il contrario. Il docente rispose stizzito, nel brusio degli studenti, che quella era una domanda epidermica. Ecco, quella domanda epidermica oggi è diventata la nuova pelle della società, e il pensiero debole sembra sbiadire come un ricordo di gioventù.

    Inoltre, la sfiducia nei confronti dei sistemi forti ha spesso portato a un indebolimento delle istituzioni democratiche. Se tutto è relativo, se ogni discorso è solo un punto di vista, allora diventa più difficile difendere principi fondamentali come i diritti umani, la libertà di espressione, la giustizia sociale,ecc… . In quegli anni andava di gran moda un’espressione, oggi sparita dalle locuzioni popolari: “Chi l’ha detto che si fa così? Dove sta scritto?” Paradossalmente, il pensiero debole ha aperto ad una maggiore tolleranza, ma ha anche lasciato spazio a narrazioni semplificate e autoritarie. Oggi, qualunque meme di Instagram afferma, qualsiasi influencer offre verità indubitabili, ogni politico sa come andrà a finire.  

    Quale futuro per il pensiero debole?

    Cosa può offrire, oggi, il pensiero debole? Io direi: la capacità di dubitare, senza paralizzarci, di accettare la complessità, senza cedere alla paura, di riconoscere il valore del dialogo, anche quando sarebbe più facile rifugiarsi nelle certezze assolute.

    Amo ricordare la lezione di un illuminato uomo di Chiesa, che consigliò di fidarsi dei pensatori deboli, proprio perché portati, per natura, a non chiudersi a priori. Ecco, direi che questa sia la lezione migliore che si possa trarre dalla filosofia debolista. Cercare il confronto con chi la pensa diversamente da noi, piuttosto che restare nella cerchia ristretta delle nostre – rassicuranti – conoscenze.

    Se il pensiero debole ci insegna a dubitare, possiamo cominciare anzitutto a dubitare delle nostre scelte strategiche. Chissà che non ci venga in mente qualche risposta davvero alternativa. 

  • Fine della modernità, caos globale, Intelligenza Artificiale

    Fine della modernità, caos globale, Intelligenza Artificiale

    È più facile definire le epoche storiche a posteriori, durante il loro svolgimento, infatti, non riusciamo a coglierle nel loro insieme. Questo vale anche per le epoche individuali: arriva un giorno in cui possiamo dire con certezza che gli anni trascorsi dal tale evento della nostra vita, al talaltro, possono appartenere ad una certa fase, distinta da quella successiva. 

    La fine della modernità 

    Negli ultimi decenni, tuttavia, si sono susseguiti i tentativi di cogliere con definizioni il presente narrativo, con l’intento di definirne i contorni, e possibilmente di prevederne le evoluzioni. Tutte le espressioni usate, a partire dagli anni Sessanta, hanno avuto come suffisso protagonista la “modernità”. C’è stato il post moderno, all’incirca da quando Umberto Eco fondava il Gruppo 63, fino a quando Gianni Vattimo ci parla di pensiero debole. E poi c’è stato l’iper moderno, grosso modo da quando Zygmunt Bauman ha coniato la sua definizione di società liquida (idealmente possiamo pensare all’11 settembre 2001), fino alla pandemia da Covid-19. I riferimenti storici non ingannano, in quanto il possibilismo relativista del soggetto post moderno, debole, e orfano di storia, cominciò ad andare in crisi proprio in quel giorno di settembre, e non smise di farlo fino agli attentati del Bataclan, quando il populismo semplicista e generalizzante aveva ormai conquistato tutti i campi del pensare in pubblico. 

    Modernità”, quindi scompariva man mano da tutti i discorsi sul nostro presente, e soprattutto da tutte le definizioni del soggetto contemporaneo. Se “moderno” era un’allusione al positivismo scientista, e l’uomo che lo abitava era certamente tecnocentrico, ma indubbiamente razionale e ottimista, il presente che stiamo cominciando a vivere è la negazione di ogni forma di modernità. E infatti non è più l’ordine, ma il caos, a imporsi in ogni campo, non è più la ragione, ma l’istinto di sopravvivenza, a dominare il dibattito pubblico, non è più la mente umana, ma la mente delle macchine (meraviglioso paradosso linguistico) a guidare la nostra azione. 

    Il tempo del caos, della frammentazione, dell’identità sfocata, coincide con l’epoca dell’Intelligenza Artificiale

    Finalmente la guerra: nostra vecchia passione

    L’Intelligenza Artificiale (mai definizione fu più fuorviante, l’IA, o AI dall’acronimo inglese, non crea – per il momento – ma assembla), è la protagonista di questo stralcio di secolo, e definisce in maniera plastica la nostra resa nei confronti della storia. Se possiamo demandare alle macchine i ragionamenti, i calcoli, persino le diagnosi mediche, possiamo finalmente dedicarci a quanto di più umano esista al mondo: l’odio, la divisione, la guerra.  

    La frammentazione psichica del soggetto occidentale, causata dall’involuzione economica, dalla crisi (per l’appunto) dei modelli culturali (arte, politica, religione), dalla perdita dell’egemonia sul resto del mondo, determina lo scivolamento verso condotte difensive arcaiche. Identificare l’identità individuale con il territorio, cosa fuorviante per definizione, regredire a forme di difesa/attacco primordiali, la paura di tutte quelle diversità che invece prima ci stimolavano e incuriosivano, definiscono l’atomizzazione della nostra psiche profonda. Ossia, ci traghettano dalla fase dell’identità liquida, in cui si poteva intuire una pur vaga parvenza di forma, ad una fase senza forma, e lo stato caotico della mente non può che essere quello psicotico

    Nello stato psicotico la confusione tra interno ed esterno è totale, e di conseguenza lo è anche la confusione tra nemico interno e nemico esterno. Il paziente psicotico è quello che sente la voce del suo persecutore seguirlo ovunque, anche quando è a chilometri di distanza, è quello che vede un pericolo in tutte le persone che incontra, perché non ha imparato la differenza tra le paure che si porta dietro, e i veri pericoli del mondo, è quello che crede stiano parlando di lui, anche quando ognuno è intento a pensare alle proprie cose. 

    Ancora tu: l’Umanesimo

    Questa condizione esistenziale, come si vede, è quella che meglio predispone all’odio, al conflitto, alla divisione. Tutte cose in cui, noi umani, eccelliamo in massimo grado. Come uscirne? Ecco, allora, che si apre una risposta, che per ragioni di spazio qui non possiamo che accennare. L’uomo occidentale ha approfondito l’arte della guerra, e ne è maestro. Ma ha anche approfondito gli studi umanistici, e anche in questo è (stato) maestro. Questi studi umanistici, però, ad oggi, risultano un po’ datati, e sono inadatti, per dare risposte adeguate in questo caos. 

    La rifondazione dell’Umanesimo è un’idea che Julia Kristeva, linguista e psicoanalista, propose a Joseph Ratzinger, nella giornata di dialogo interreligioso, appuntamento voluto da Giovanni Paolo II

    Nelle due righe qui sopra c’è un progetto, vi invito a rileggerle. Umanesimo, Julia Kristeva, dialogo, Ratzinger, Giovanni Paolo II. 

    La coppia, il lavoro, ma anche l’arte, la politica, e non solo, devono esser riviste, ridefinite, anzi rifondate. Questo è l’unico vero antidoto alla frammentazione del sé, alla psicosi collettiva, in definitiva, alla guerra totale. 

    Ma non c’è molto tempo, il precipizio è già sotto di noi.  

  • I grandi della Nazionale di calcio. Roberto Baggio: Divin Codino.

    I grandi della Nazionale di calcio. Roberto Baggio: Divin Codino.

    Roberto Baggio è nato a Caldogno (VC) il 18 febbraio 1967. Relativamente alla sua carriera in Nazionale, oggetto di questo scritto, si potrebbe affermare che sia stato uno dei più grandi, anzi forse proprio il più grande, dei giocatori azzurri. Roberto Baggio merita questa valutazione sia a partire dalla qualità delle giocate espresse in azzurro, sia relativamente ai traguardi raggiunti. Un terzo posto a Italia 90 e un secondo posto a Usa 94, risultati che, a guardare bene, potevano essere ben altri, questione di centimetri. Infatti fu ai rigori che quelle squadre dovettero arrendersi, e quando si perde ai rigore si può ben dire che alla vittoria ci si sia andati davvero molto vicini. 

    Temperamento in campo

    Il Divin Codino, appellativo valsogli dall’abitudine di tenere i capelli lunghi legati con un elastico, è stato un giocatore più amato dai compagni che dagli allenatori, e, per la sua sportività, molto apprezzato anche dai tifosi avversari. In campo è stato anzitutto un leader nel compito, e ha espresso un temperamento a volte arrendevole di fronte all’aggressività altrui. La sua indole pacifica ne ha fatto un signore, come abbiamo detto, di sportività, ma anche di altruismo. Qualità, quest’ultima, ben riassunta dall’immagine di Italia 90, che lo vide lasciare a Salvatore Schillaci il rigore di Bari, rigore che permise all’attaccante siciliano di confermarsi capocannoniere del torneo. 

    Roberto Baggio fece parlare molto di sé, ma soprattutto fece sognare gli appassionati italiani, e per questo ricevette una lunga serie di soprannomi e appellativi: senza dubbio frutto più dell’amore che l’ambiente riversava su di lui, che dell’invidia di pochi detrattori, di cui, si sa, il mondo del calcio è sempre stato pieno. Raffaello, Bagg10, Coniglio Bagnato, ma anche, più dispregiativamente, Filosofo, (infatti era, ed è tutt’ora, Buddista). Nessuno di questi, però, definisce meglio il suo temperamento in campo di Nove e Mezzo, affibbiatogli, con grade perfidia, da Michel Platini.

    Nove e Mezzo richiamerebbe qualcosa di non compiuto totalmente, un ruolo a metà strada tra il centrocampista e il centravanti. Anche su questo, però, ci sarebbe da discutere, perché oggi, come in tutte le attività che facciamo, i classici ruoli del Novecento sono saltati, e non esistono più giocatori che si muovono soltanto in una zona del campo, o a cui sia richiesta soltanto una fase di gioco. E forse proprio per questo la storiografia calcistica dovrebbe recuperare la figura di Roberto Baggio, Nove e Mezzo, come un precursore dei tempi, più che come una via di mezzo tra il regista e l’attaccante.  

    Nove e mezzo, in ogni caso, determinava oltre alla posizione, anche il suo rapporto con i compagni, con le dinamiche di gioco, e più in generale con quello che qui abbiamo chiamato il temperamento in campo. Perché questo stare un po’ qui e un po’ li, questo andare una volta con il dribbling verso il centro per cercare il tiro, e un’altra verso il fondo per fare il cross, non poteva che avere un impatto determinante, sulla squadra, sui compagni e ovviamente sugli avversari, che non avevano la benché minima idea di come fermarlo.  

    Purtroppo ci pensò la fragilità del suo fisico, a fermarlo. In un’epoca in cui gli allenamenti non erano ancora pensati ad personam, e l’intera rosa faceva gli stessi esercizi, con lo stesso numero di ripetizioni. 

    L’immagine presso il pubblico

    Roberto Baggio è stato, come detto, amatissimo dal pubblico della Nazionale di calcio. Il gol preferito dai tifosi è stato probabilmente quello contro la Cecoslovacchia, a Italia 90, ma gli appassionati conservano del Codino un ricordo che va al di là dei gol e dei premi. 

    La serenità con cui scendeva in campo, la correttezza, la dignità con cui ha attraversato i momenti bui della carriera, uniti alla determinazione e alla professionalità, hanno fatto di lui non solo una bandiera della Nazionale, ma anche un campione fuori dal campo. 

    Baggio ha cambiato molte volte casacca, per questo non può essere identificato con nessuna delle grandi squadre del nostro campionato. Ma può essere identificato con la Nazionale, per la quale ha pianto e gioito. Se il pubblico ama sognare a occhi aperti, Baggio è l’uomo dei sogni del calcio italiano. 

    Nella moderna, e sterile, diatriba tra tecnici, su chi sia (stato) più bravo tra Maradona e Messi, spesso si dimentica di segnalare che Maradona faceva sognare le masse. E non solo perché a quel tempo non c’erano i social media, su cui guardare e riguardare i video, ma proprio perché il suo calcio era allegria, follia geniale, gioia fanciullesca. Ecco, Roberto Baggio è stato, pur con tutt’altro carattere, il nostro Maradona: l’uomo che faceva sognare il pubblico. 

    Si può aggiungere un’ultima considerazione. Umberto Eco ha sostenuto, e sono d’accordo con lui, che i romanzi, e i film, più amati sono quelli senza lieto fine. Il lieto fine è banale, scontato, non ha niente a che vedere con la vita reale. Quando l’eroe muore in battaglia, e il pubblico piange per lui, ecco che lì arriva l’effetto catartico dell’arte. Perché è lì che il pubblico sente di non essere solo. Quando l’eroe vive le sventure dell’uomo qualunque, l’uomo qualunque viene riscattato. Io penso che il rigore sbagliato a Pasadena sia l’evento che ha proiettato Baggio nella nostra memora collettiva. L’evento che ha detto agli italiani: se la vostra vita è pesante, c’è qualcuno che porta un peso ancora superiore, e questi è lui, il genio fragile del calcio. La sua sfortuna, da quel pomeriggio, ricalcando la nostra, ci consola un po’. E ci fa sentire meno soli. 

  • Friend zone: cosa fare per non finirci.

    Friend zone: cosa fare per non finirci.

    Friend zone, o (friendzone), zona dell’amico, è la situazione in cui, in una coppia di amici, uno dei due è segretamente innamorato dell’altro, o comunque fortemente attratto, ma non può esprimere i priori sentimenti, perché sente di essere visto, per l’appunto, “soltanto” come un amico. 

    Friendzonare qualcuno, quindi, significa inserirlo in quella lista di persone che non ci sentiamo di definire in altro modo che come dei buoni amici. 

    Errata comunicazione

    Nel film Yesterday di Danny Boyle (2019), Jack Malik è un cantautore di scarsa fortuna, che suona nei pub e ai festival di terza categoria, che si tengono nella sua città natale. Nessuno crede in lui come artista, per lo meno fino a quando non trova il modo di riproporre i classici dei Beatles, che nel frattempo il resto del mondo ha dimenticato. Nessuno, dicevo, crede in Jack, tranne la sua manager, autista, amica e confidente Ellie Appleton. Alla festa di addio, con amici e parenti, prima della partenza di Jack per Hollywood, Danny Boyle piazza una scena cruciale: Ellie, in lacrime, confessa di essere da sempre innamorata di Jack, e gli chiede come sia stato possibile che l’abbia inserita nella “colonna sbagliata”, ossia nella colonna “amica”, anziché nella colonna “fidanzata”. Jack trasecola, e scopre di avere friendzonato Ellie, ma il guaio peggiore è che non si è mai accorto di averlo fatto.

    Osservando la coppia di questi due ragazzi, possiamo chiederci se la relazione che culmina con la friend zone non abbia delle caratteristiche tipiche, ricorrenti, che possono essere osservate in anticipo.  

    Anzitutto direi di distinguere la friend zone in due macro categorie: quella in cui si viene friendzonati, e quella in cui, invece, si finisce per friendzonare qualcun altro.  

    Ora, dobbiamo ammettere che la prima motivazione in assoluto per cui si viene visti come semplici amici sia lo scarso interesse. Se non suscitiamo attrazione, se l’altra persona non si sente attratta da noi, sarà molto più facile che ci veda come amico, e difficilmente riusciremo a conquistarla. 

    Una seconda motivazione per cui si finisce in una friend zone, però, riguarda la comunicazione. Se nella vita affettiva ci capita questo spiacevole imprevisto, e soprattutto se ci capita più di una volta, dovremmo chiederci: quale messaggio stiamo inviando? L’errore di comunicazione è più diffuso di quanto si creda, ed è sovente collegato all’insicurezza, o alla paura di essere respinti. In questi casi, talvolta, si tende a mantenere un profilo più basso e distaccato di quanto si vorrebbe, per paura che l’altro capisca il nostro interesse e ci allontani. Il caso di Ellie e Jack, nel film Yesterday, può rientrare in questa seconda casistica. E infatti il ragazzo si innamora immediatamente della sua ex manager, non appena scopre i veri sentimenti di lei. 

    L’assioma di Miss Liceo

    L’altra grande categoria è quella in cui si mette qualcuno nella friend zone, salvo poi pentirsene amaramente. Potremmo definire questa sventurata eventualità come l’assioma di Miss Liceo. Sappiamo tutti che l’alunna, o l’alunno, più in vista della scuola, raramente si fidanza con il compagno di banco, il ragazzino affidabile e premuroso, sempre gentile, disponibile ad aiutare nei compiti. Questa situazione, che certamente può essere indotta da opportunismo, non raramente nasconde, invece, qualcosa di più profondo. Miss Liceo (Mr Liceo) ha un potere enorme su tutti i compagni della scuola. È popolare, fa tendenza, ma soprattutto non ha veri nemici, nessuno contraddice le sue mosse. 

    Immaginiamo Miss Liceo innamorata del compagno di banco: cosa resterebbe della sua popolarità? Dovendo scegliere tra il potere e l’amore, sarebbe indotta a friendzonare l’amico? L’assioma di Miss Liceo, che per la verità si ripete anche in ufficio, in palestra, in spiaggia, e via dicendo, ci suggerisce una riflessione molto importante su noi stessi. Quando siamo noi a friendzonare qualcuno, potremmo chiederci: per quale motivo questa ragazza/ragazzo, non ci piace abbastanza? Siamo davvero sicuri che non sarebbe un successo accettare le sue avance? E ancora, ma qui ci vuole davvero tanta elasticità mentale: quale tipo di immagine interiore di noi stessi metterebbe in crisi, allacciare una relazione con questa persona? 

  • I grandi della Nazionale di calcio. Dino Zoff: capitano gentiluomo.

    I grandi della Nazionale di calcio. Dino Zoff: capitano gentiluomo.

    Dino Zoff, capitano gentiluomo, è nato a Mariano del Friuli il 28 febbraio 1942. Come giocatore ha ricoperto il ruolo di portiere, ma è stato anche un grande allenatore e dirigente. Tra i successi raggiunti in carriera si ricordano il Campionato Mondiale FIFA del 1982, in cui era il capitano, e il Campionato Europeo del 1968, (riserva di Albertosi e Vieri). Ha poi conseguito il secondo posto, come Commissario Tecnico, al Campionato Europeo del 2000, e una lunga serie di successi con squadre di club. 

    Temperamento in campo

    Dino Zoff è sempre stato un uomo riflessivo e moderato. Ha vestito la fascia da capitano in un ruolo insolito, quello di portiere, quando si diceva che il capitano dovesse stare vicino all’azione. Ma per lui l’autorevolezza era un fatto di carisma, non di aggressività. Raramente lasciava la porta per andare a discutere con l’arbitro, perché, il capitano, nel suo modo di concepirlo, è un punto di riferimento per i compagni, più che il portavoce dei malumori della squadra.  

    Leader silente in campo, era sovente una coperta di Linus fuori dal campo. Sono molti i compagni che lo ricordano come capace di dare serenità e infondere fiducia. Dobbiamo pensare che, al tempo, i ritiri pre partita erano diversi da oggi. Non c’erano smartphone e social network, e in alcuni alberghi, specie all’estero, un telefono nella hall era già gran lusso. Così, nelle lunghe ore prima della partita, i giovani (Marco Tardelli, ad esempio) anelavano avvicinare il Capitano, stare un po’ con lui, respirare la sua tranquillità. 

    Dino Zoff vacillò una sola volta, in quella che fu la parata più epica, della partita più epica, della sua epica carriera. Dopo il colpo di testa di Oscar, in Italia-Brasile del 1982. Chi c’era se lo ricorda, ma gli appassionati di calcio più giovani, dovrebbero conoscere quella partita, come gli studiosi di filosofia conoscono gli autori classici, anche se vissuti secoli prima di loro.  

    Al tiro di Oscar, Dino Zoff afferrò con un guizzo la palla, la schiacciò a terra, e se la portò al petto. Ma alcuni brasiliani alzarono le braccia, in segno di giubilo. Per un istante leggemmo il terrore negli occhi del portiere, che non vedeva l’arbitro, e non sapeva se avesse fischiato il gol oppure no. Tutti gli italiani sanno come finì, quindi altri dettagli esulano da questo scritto. Ciò che conta qui, è la personalità pacata, ma sicura di sé e mai remissiva del grande Zoff. Leader nel compito, ma senza dubbio anche leader nel gruppo, personaggio straordinario di un calcio fatto da quelle “bandiere”, che oggi non esistono più. 

    Immagine presso il pubblico

    Bandiera, dicevamo. Ma cosa significa, questo, nel caso di Dino Zoff? Un altro frame iconico di quell’estate 1982, ritrae una partita a carte. In quegli anni così difficili per il Paese, non si può immaginare qualcosa di più familiare: un gruppo di amici e una partita a scopone. Siamo sul volo che riporta in Italia la nazionale, e il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, gioca, e gesticola animatamente, con il CT, Enzo Bearzot, Franco Causio, e il capitano, Dino Zoff. 

    L’immagine che il pubblico conserva del capitano, è la seguente. Nel cuore della partita, ad un tratto, parte una polemica: accesa, come solo noi italiani sappiamo fare. Hai sbagliato tu, dovevi buttare la tale carta! Io?, Avrai sbagliato tu, che dovevi fare un’altra mossa! E via dicendo. Ebbene, davanti alle telecamere il Presidente Pertini, prima lascia passare un sette, e poi accusa il nostro di averlo fatto perdere. Soltanto i quattro al tavolo conoscono la verità: l’errore è chiaramente di Pertini. Allora Dino Zoff, dopo aver sfoderato per settimane, la sua classe come portiere, sfodera la classe del gentiluomo: “Per rispetto al Presidente”, disse in seguito “mi presi la colpa.”. Cosa aggiungere? 

    Ci sarà un seguito, una lettera del Presidente al capitano, l’anno seguente. Ma questo non cambia l’immagine che il pubblico si porterà di questo personaggio cristallino, immagine che non appartiene soltanto al nostro calcio, ma senza dubbio anche alla nostra cultura popolare. 

  • Come affrontare i colleghi arroganti?

    Come affrontare i colleghi arroganti?

    Recentemente ho pubblicato su alcuni social network un sondaggio, nella cui domanda chiedevo: “Come affrontare i colleghi arroganti o presuntuosi?”. I risultati, che riporto di seguito, non sono stati sorprendenti, ma vanno analizzati.

    Trattarli con ironia: 51 per cento 

    Ignorarli: 30 per cento 

    Avere un dialogo rispettoso: 16 per cento. 

    Altre opzioni: 3 per cento. 

    Escludendo i contatti che consigliano di ignorare queste persone, cosa evidentemente non sempre possibile, la grande maggioranza consiglia di utilizzare l’ironia, mentre una discreta percentuale pensa sia meglio trattare comunque queste persone con una certa rispettosa distanza.

    Il collega timido/insicuro

    Ora, queste due modalità di approccio vanno esaminate attentamente, perché non sono applicabili a tutti nello stesso modo. Possiamo riscontrare, infatti, almeno due tipi diversi di colleghi arroganti, presuntuosi, o egocentrici. Il tipo più comune è quello timido/insicuro: si tratta di quel collega che sa cosa fare, ma non sa come imporsi all’attenzione del team. 

    Quesi individui possono risultare un po’ altezzosi, svalutanti, talvolta anche permalosi, ma sono complessivamente agganciabili nelle dinamiche organizzative. In questi casi l’ironia potrebbe essere un’ottima arma, perché smorza la tensione, e allo stesso tempo fa sentire l’individuo come percepito, ascoltato, preso in considerazione.  

    L’ironia è molto potente nelle relazioni, saperla dominare apre tante porte. Mette chi la usa sullo stesso piano di chi ne è oggetto, contro la volontà di questi, ma lo fa bonariamente (il sarcasmo, invece, è sempre distruttivo), senza svalutare. Usare l’ironia è come dire: “Non darti tante arie, chi ti credi di essere? Anche io potrei fare di più, ma mi tocca lavorare con te. Quindi collaboriamo.” È una implicita richiesta di  alleanza. 

    Il collega incompetente/in palese difficoltà  

    Un altro tipo di collega arrogante è quello palesemente in difficoltà sul compito. Questi può essere manifestamente incompetente, perché privo di qualifiche o di esperienze, oppure incapace di entrare nelle logiche del team. Quando questo personaggio svaluta o è presuntuoso, non deve essere approcciato con ironia. L’ironia è ottima per sgonfiare il “pallone gonfiato”, ma è deleteria con chi è in difficoltà, perché lo fa sentire deriso. L’incompetente approcciato con ironia trova conferme alla tesi che sono tutti buoni a nulla, nonostante le loro competenze, tranne lui, che potrebbe dare lezioni soltanto attraverso il suo buon senso. 

    In questi casi vale molto di più cercare un dialogo rispettoso, magari freddo e distante, privo di connotati emotivi, che possono essere sempre fraintesi. Se siamo di fronte ad un collega a cui mancano delle competenze, ricordiamo che ha pur sempre una testa pensante, e un buon pensatore può valere più di un tecnico cocciuto. 

    Così trattare in maniera rispettosa un collega che (apparentemente) non ci rispetta, può avere dei risvolti inattesi. Se si sente comunque coinvolto, può abbassare le sue difese, e cominciare ad essere meno aggressivo e può socievole.   

    Ci sono certamente altri tipi di colleghi arroganti, li prenderemo in considerazione in un secondo momento. Ed esamineremo in quella sede le modalità più adatte per poterli approcciare. Perché non è sempre possibile ignorarli, né tantomeno escluderli dalle dinamiche lavorative. 

  • L’individualismo narcisista

    L’individualismo narcisista

    Nel nostro tempo è sempre più diffuso un tipo di individualismo che non ha a che vedere con la brama di potere, o con la volontà di primeggiare sugli altri, ma con una chiara pretesa di superiorità. Possiamo definire questo modo di vedere sé stessi in mezzo agli altri come “individualismo narcisista”, (o meglio, narcisistico). 

    L’individualismo competitivo 

    Il narcisismo è una modalità relazionale patologica, dal momento in cui la struttura di personalità di cui definisce i caratteri è considerata una formazione non adattativa. Nel linguaggio comune, non raramente si usano formule che alludono ad atteggiamenti narcisistici tutto sommato accettabili, quali ad esempio “avere un sano narcisismo”, o simili. Queste formule sono usate anche da noi “psi”, ma sappiamo bene che sono delle forzature semantiche: il narcisismo è, nella sua sostanza, qualcosa patologico, proprio perché determina l’incapacità di sintonizzarsi sulle frequenze dell’altro. 

    L’individualismo sempre più estremo su cui abbiamo costruito il vivere tra i nostri simili, è cambiato nel corso del tempo. Negli anni in cui andavano ancora di moda termini come “comunismo”, “socialismo”, “collettivo”, e simili,  l’individualismo era la modalità di stare al mondo del soggetto occidentale, caratterizzato dal modello economico capitalista o competitivo. L’individualismo competitivo era intendere sé stessi come l’unica cosa importante al mondo, nonché l’unica cosa per cui valesse la pena scatenare competizioni feroci. 

    Nei termini dell’individualismo competitivo possiamo certamente descrivere molti personaggi di spicco delle epoche precedenti alla nostra: i grandi imprenditori, per esempio, o i grandi leader politici dalla fama di uomini, o donne rudi, di ferro, o cose del genere. 

    L’individualismo narcisista

    Oggi vediamo mutuare la cifra genetica dell’individualismo, che diventa sempre più a carattere narcisistico. Il narcisismo, forma patologica molto diffusa, anche nelle sue varianti meno gravi, entra sempre più nelle nostre modalità relazionali, al punto di fondersi nell’individualismo.  

    La pretesa individualista di svalutare le esigenze degli altri, in nome delle proprie, aveva una valenza economicista quando associata alla competizione capitalista, ma associata al narcisismo, determina a cascata effetti disastrosi. Il soggetto contemporaneo, come si vede ogni giorno, ha smesso di identificarsi nelle collettività o nei gruppi, e vede unicamente sé stesso come il terminale delle logiche del mondo. (Il funzionamento degli algoritmi, come abbiamo già spiegato, è uno dei fattori che rafforza questa percezione, in quanto l’algoritmo mette l’utente al centro dell’universo, ma senza dirglielo.)

    Per uscire dal teorico, l’uomo di oggi ha smesso di andare a votare, pur continuando a lamentare la distanza della politica dalla propria vita. Atteggiamento massimamente narcisistico: la politica dovrebbe sapere quali siano i bisogni dei cittadini, senza che essi li segnalino tramite il voto. Questo è solo un esempio, ma po’ in tutte le attività umane vediamo diffondersi questo atteggiamento. 

    La pretesa è quella di una superiorità a priori: io merito questa cosa a prescindere, non c’è neppure il bisogno di conquistarla con la competizione. Lo scivolamento dell’individualismo verso il narcisismo sta portando, per esempio, a numerose difficoltà relazionali, la cui massima esemplificazione può essere quella del rapporto con i social network, e con l’algoritmo, come abbiamo spiegato poco sopra. 

    Il mio algoritmo mi abitua ogni giorno a non comunicare a nessuno le mie esigenze, perché le sa indovinare da solo. Se abbiamo un rapporto costante con il nostro smartphone, ne discende che la relazione con l’algoritmo è una delle più pervasive che intratteniamo. Ma non ne siamo totalmente consapevoli. Da qualche parte, però, è sempre attivo un confronto: nel mio rapporto con la politica, con i familiari, gli amici ecc… , chi non mi capisce come l’algoritmo, non merita la mia attenzione. 

    Se l’individualismo competitivo ci aveva trasformati in tanti piccoli squali da contrattazioni di borsa, l’individualismo narcisistico ci sta trasformando in pigri egoisti, indolenti e un po’ viziati. Possiamo dire che questa sia l’unica forma di evoluzione che ci rende meno adatti ai mutamenti che stanno per arrivare.  

  • Liguria: vademecum per foresti

    Liguria: vademecum per foresti

    Riconosci un foresto in Liguria da come si muove, perché pare un babbano a Hogwarts. “Dove sono capitato?” sembra chiedersi ad ogni angolo. Lo vedi che si sforza di mostrare disinvoltura, ma è profondamente a disagio. “Sono tutti matti, o mi sfugge qualcosa?”. Il foresto (forestiero, in dialetto ligure) arriva in Liguria con delle aspettative irrealistiche, che logicamente finiranno illuse. L’aspetto paradossale di questo suo atteggiamento, è che raramente farebbe gli stessi errori visitando, poniamo, Venezia, Otranto o Erice. Il turista milanese, o torinese, ad esempio, in patria è abituato a parcheggiare lontano dallo stadio, dall’università o dal ristorante. Anzi, ha imparato a usare la mobilità dolce, i mezzi pubblici, persino a muoversi a piedi. Quando arriva in Liguria, invece, dà in escandescenze perché non trova parcheggio davanti alla spiaggia. O per altre cose di questo tipo. 

    Ho pensato, così, a questo piccolo vademecum per foresti: per dire che anche in Liguria è necessario entrare in punta di piedi, con garbo e meraviglia. E non perché sia casa di altri, cosa che già basterebbe, ma perché è un territorio profondamente diverso da quello da cui proveniamo.

    In Liguria non c’è solo il mare

    La prima cosa ostica da imparare, per il foresto, è che in Liguria non c’è solo il mare. Chi arriva dalla città, sia chiaro, sogna la spiaggia. Ma soffermarsi sul mare, in Liguria, è come salire su una Ferrari e fissare il volante. Prendiamo un babbano che arrivasse a Hogwarts. Appena giunto vedrebbe anzitutto il castello, imponente e misterioso, e un sacco di gente strana aggirarsi nei suoi paraggi. Ma se non sapesse nulla del Mondo Magico, del Lago Nero, o non avesse mai sentito nominare Harry Potter, ne avrebbe certamente un’esperienza parziale, vuota, se non del tutto deludente. Allo stesso modo, vivere la Liguria non è unicamente frequentare le sue spiagge: il rapporto con il mare è solo una parte della cultura ligure. Direi di più, è una parte dell’identità profonda dei suoi abitanti. Che infatti continuiamo a non capire, se confondiamo per il tutto, cioè che è solamente uno dei loro confini. 

    Il cosiddetto entroterra è ricco di sorprese di ogni tipo, soprattutto dal punto di vista culturale, artistico ed enogastronomico. Dalle grotte carsiche ai musei paleontologici, dai campi da golf a borghi infestati dalle streghe, per non dire dell’antica cultura dell’ulivo e dell’olio. Tutti questi sono aspetti che determinano la personalità, l’identità della Liguria, e di conseguenza anche dei suoi abitanti. 

    E poi c’è la grande storia delle invasioni saracene, su cui torneremo fra poco. Ignorare questa pagina drammatica della storia, è il peggior delitto che possa compiere il foresto verso questa regione.  

    I liguri detestano il caos

    Il foresto milanese, o torinese, è per sua natura abituato a muoversi nel traffico, nella ressa, nel caos. Noi viviamo in circoscrizioni di 150 mila abitanti: ci spintoniamo per entrare in metropolitana, arriviamo alle mani per un parcheggio, facciamo la fila alla domenica per entrare in pasticceria. Tutto questo è sconosciuto a chi vive in miti cittadine di tre/quattromila abitanti. In alcuni paesi di Liguria ci si conosce tutti, per le strade non c’è mai nessuno, e quando vedi un’auto bianca laggiù, svoltare in una certa direzione, hai già capito che si tratta di Tizio che va a trovare Caio. 

    Non è corretto dire che i liguri non siano accoglienti: piuttosto, detestano il caos. Immaginate la vostra città gonfiarsi di dieci volte (queste le proporzioni del turismo secondo le autorità) per due mesi all’anno: diciamo una Milano con trenta milioni di persone. La Liguria viene invasa in un periodo in cui fa caldo, e a tutti darebbe fastidio avere addosso gente sconosciuta, per giunta piena di pretese. 

    Una di queste pretese, direi incredibile, è quella del parcheggio. Perché anche questa è una bella discrasia psicologica. Il turista pretende di arrivare in una città di poche migliaia di anime, e trovare parcheggi multipiano in riva al mare, adibiti per migliaia di automobili. E non solo una volta la giorno. Al mattino, per andare in spiaggia. Al pomeriggio, per l’aperitivo. E anche alla sera, per il gelato sul dondolo vista mare, come se anche tutti gli altri non avessero lo stesso desiderio. 

    Per tornare all’esempio di Hogwarts, pensiamo al babbano, che abituato allo stadio si trovi, suo malgrado, ad una partita di Quiddich. Nel comprendere le situazioni, la cornice mentale è estremamente importante. Se qualcosa avviene in una cornice diversa dalla nostra, stentiamo a comprenderla. Come il babbano non ci capirebbe niente, non ci si raccapezzerebbe, allo stesso modo il foresto in Liguria stenta a comprendere il rapporto con gli spazi, che per lui è molto diverso.   

    Inoltre c’è un aspetto culturale profondo, che nessuno tiene in debito conto. Alcuni borghi di Liguria sono stati vittime, nella storia, di svariate invasioni da parte dei corsari turchi e saraceni. Arrivavano di notte dal mare, mettevano a ferro e fuoco la città, rapivano gli uomini valorosi e le ragazze più giovani. Qualcuno può immaginare il terrore in cui vivevano le popolazioni colpite da simili episodi? I racconti, le leggende, che questi eventi hanno originato? I rapporti difficili con Genova, che avrebbe dovuto difenderli e non l’ha fatto, e tutta la coda di odio che possiamo soltanto supporre. Avere nella propria storia traumi di questo tipo, deve rendere piuttosto sensibili alle invasioni, per quanto benevole possano essere. 

    I paguri non sono d’allevamento

    Generazioni di bambini foresti sono cresciute con la pesca sportiva nelle acque liguri. 

    Orate, cernie, scorfani, ma anche granchi, polpi, stelle di mare, e, naturalmente, paguri. Ora, avete mai visto un babbano a Hogwarts staccare un ritratto parlante per portarselo a casa? Ecco, la sensazione è un po’ la stessa. I quadri parlanti della saga Harry Potter non sono appesi ai muri della scuola per compiacere i visitatori, ma hanno una precisa ragione. Inoltre, nessuno ha mai lontanamente pensato di potarseli via. Allo stesso modo, la fauna marina della Liguria non è d’allevamento, non serve per aiutare il turista a fare colpo sulle ragazze. 

    La pesca sportiva non è proibita, sia chiaro, l’hanno praticata un po’ tutti. Ma anche questo elemento del turismo andrebbe modulato ai volumi di afflusso. Perché la pesca massiva può portare a sbilanciamenti nelle popolazioni ittiche. Oggi siamo più consapevoli in tutte le cose che facciamo, dai trasporti all’alimentazione, dall’uso delle plastiche al consumo dell’acqua. Così anche il turismo può diventare più “responsabile”, basta provare a riflettere su comportamenti che un tempo non avevano nessuna ragione di essere messi in dubbio.  

    Ecco, questo può essere un breve vademecum per affrontare la Liguria in maniera più ragionevole. E uscire da quella goffaggine tipica che prende il babbano, quando scende dall’omonimo Espresso, e raggiunge il grande castello di Hogwarts.