Alfredino Rampi: l’Italia nel pozzo di Vermicino

Chi c’era, se lo ricorda. Il 10 giugno del 1981 un bambino di sei anni, Alfredo Rampi, venne inghiottito da un pozzo artesiano a Vermicino, una località vicino Roma. 

Seguirono giorni di grande passione popolare, se ne parlò ovunque, e ci fu anche una lunga diretta tv, che a quei tempi era tutt’altro che scontata. 

L’evento si chiuse il 13 giugno con una tragedia, e quel che rimane di quei giorni è una specie di lutto collettivo, un dispiacere sordo. Credo che molti abbiano pensato che sarebbe potuto capitare a loro, e soprattutto tutti abbiamo immaginato che, con un po’ di fortuna (o di organizzazione) in più, quel bambino si sarebbe potuto salvare. 

La cosa che ci ha commosso di quella vicenda, e che ce la fa ricordare ancora oggi, è la stessa che ci ha fatto amare i grandi romanzi e i colossal senza lieto fine: l’ineluttabilità del destino. Abbiamo grande ammirazione per James Bond, e per la sua grande fortuna, ma amiamo molto di più Scarlett O’Hara, quando di fronte al tramonto trattiene le lacrime, perché domani è un altro giorno. Allo stesso modo rileggiamo Guerra e Pace, pur sapendo che Napoleone non prenderà mai Mosca, perché il destino non è dalla sua parte. Lo stesso vale per Titanic, Edipo re, l’opera dei Beatles, e le altre storie con un finale che non vorresti. Tutti siamo stati vittime di un destino avverso, almeno una volta, ed è proprio per questo che le storie tragiche ci toccano direttamente. Se dopo tanti anni ricordiamo ancora nitidamente la vicenda di Alfredino Rampi, dove eravamo in quei giorni, con chi ne abbiamo parlato, è perché nel pregare per lui, nel sognare di vederlo tornare dai suoi genitori, abbiamo visto il riflesso della nostra vita, delle nostre battaglie, delle nostre speranze. Un bambino a caso, senz’alcuna colpa, preso nelle maglie di una sorte avversa. Sapevamo che il destino non guarda in faccia a nessuno, ma ci abbiamo sperato ugualmente. Per questo Alfredino ci commuove ancora oggi: perché ci ricorda che il lieto fine, in una storia, non dipende da noi. 

Perché la bella della classe non sceglie mai il compagno di banco?

Alcune coppie nascono sulla base di condizionamenti esterni. La bella della classe, per esempio, non guarda mai al suo vicino di banco, che la ama segretamente, ma punta istintivamente al bello dell’altra classe, desiderato da tutte le ragazze della scuola. Le implicazioni di questa tendenza sono fortissime: viene stilata una gerarchia basata sul potere della seduzione, ossia sulla competizione sessuale. 

La coppia male assortita e le affinità elettive

Darwin sarebbe soddisfatto, non c’è dubbio, ma una coppia che nasce sull’esigenza di un riconoscimento esterno, è una coppia male assortita. Per natura avrà vita incerta, travagliata, solitamente breve, e amo distinguerla da un altro tipo di coppia, quella che Goethe definiva delle affinità elettive. Il più delle volte il vicino di banco è proprio il ragazzo di cui la bella della classe si fida di più: è bravo a scuola, è rispettoso, e sa dare buoni consigli. È l’amico perfetto, tanto che, molti anni dopo, è ancora tra i contatti sui social network. Quindi, se il ragazzo appariscente è sparito dagli orizzonti, mentre il vicino di banco, in quegli orizzonti, c’è sempre rimasto, verrebbe da chiedersi: per quale motivo la bella della classe non ha scelto il vicino di banco? 

La questione non è banale, perché un po’ tutti abbiamo fatto una scelta di questo tipo. E c’è di più, è una scelta che, con il passare del tempo, tendiamo a ripetere. Tra gli amici delle vacanze, nei gruppi studio dell’università, e più tardi tra i colleghi di lavoro. C’è sempre una persona di cui istintivamente ci fidiamo, ma con cui mai e poi mai andremmo a cena, e poi c’è la persona con cui andremmo a cena, e non solo, ma che poi perdiamo di vista nel giro di pochi mesi. 

Quanto è importante sedurre?

La cocciutaggine con cui inseguiamo una coppia male assortita, e rifiutiamo una coppia che invece potrebbe funzionare, è la cifra della nostra difficoltà di ignorare l’effetto sociale delle nostre scelte, ossia le ricadute che determinano nell’ambiente in cui ci muoviamo. 

Così ci stiamo avvicinando ad alcuni scomodi interrogativi: preferiamo avere un ruolo sociale di dominio, in cui tutti apprezzano le nostre doti di seduttori, piuttosto che una felice vita di coppia? E se sì, quanto tempo deve passare, prima che decidiamo di prenderne atto? 

Generazione Ultimo. Perché la lotta al narcisismo è la nostra guerra civile.

Fanno discutere le dichiarazioni del cantautore Ultimo, che ha affermato di non avere amici che votino o vadano in chiesa. La cosa non stupisce per nulla, anzi, ad essere precisi, la considerazione può essere estesa anche alle altre generazioni di Italiani, ormai irrimediabilmente risucchiati dal loro egocentrismo. 

Il vuoto di fede, di passione politica, (e aggiungerei anche di interesse per l’arte), tradisce una tendenza inarrestabile al narcisismo individualista, o individualismo narcisista, fate voi. Ci sentiamo sempre più in credito verso tutto e tutti, a cominciare dallo Stato (“non voto perché di quelli non mi fido più”), per finire alla chiesa e alla religiosità (“dopo quello che mi è successo, in chiesa non ci vado”).

Tuttavia la sensazione di averne ingoiate troppe, a ben guardare, è un pretesto per chiuderci in noi stessi. Chiediamo allo Stato di fare di più, di darci di più, di organizzare meglio le nostre vite. Ma non avevamo deciso noi, a suo tempo, di avere un Paese laico e liberale? Il mantra del capitalismo liberale è “meno Stato”, possibile che oggi, che il liberalismo taglia servizi, scuola e sanità pubblica, chiediamo, invece, di averne di più? Oppure i servizi essenziali ci sono, ma cerchiamo una scusa per affermare che per noi, che siamo importanti, gli altri dovrebbero fare di più?

Il rapporto con Dio va più o meno nello stesso modo. Dove origina il vuoto di credibilità, cosa ci aspettiamo che faccia per noi, questo Dio, dove ci ha traditi, al punto che ci siamo offesi? Ovviamente ciascun lettore avrà le proprie ragioni, ma talvolta ho l’impressione che alla base della nostra reazione avversa ci sia un risentimento narcisista, perché “io sono io, e a me certe cose non le si fanno”.

Tra i lettori, chi sentirebbe, in buona coscienza, di poter dare la propria vita per un ideale? O meglio, per cosa daremmo la nostra vita? La mia esperienza quotidiana, e credo sia sovrapponibile a quella di Ultimo, è che nessuno darebbe la propria vita per difendere diritti che non lo riguardino. Cioè, rischierebbe qualcosa soltanto per difendere i propri privilegi (veri o presunti). 

Il narcisismo individualista è il vero nemico del nostro tempo. Dobbiamo combattere una battaglia identitaria e culturale, direi persino ideologica, contro il narcisismo. Come se fosse una guerra civile. Il narcisista inquina i rapporti umani, corrode il senso di appartenenza ad una famiglia, ad un gruppo di amici, ad una comunità. Il narcisista è perennemente in credito verso tutti, che dovrebbero fare di più, perché “io valgo”. 

Ha ragione Ultimo, molti hanno smesso di votare e andare in chiesa. Ma la ragione per cui non lo fanno è talvolta pericolosa, perché muove da una sensazione di lesa maestà. Se individualismo e narcisismo si incontrano, e strutturano un nuovo tipo di soggetto contemporaneo, avremo una collettività di insoddisfatti. Che inoltre denigrano tutto quello che li circonda perché non sufficientemente a loro misura. 

“Sono io, quindi ho ragione”. Una risposta ad Aldo Cazzullo.

Alcuni giorni fa, nella sua rubrica “Lo dico al Corriere”, Aldo Cazzullo rispondeva ad un lettore circa il degrado dei rapporti umani, in un bellissimo articolo intitolato “Sono io, quindi ho ragione.”. Non riassumo l’articolo, perché non possiedo il copyright, ma vorrei commentare con un approfondimento. 

L’imbarbarimento delle relazioni umane, evidente agli occhi di tutti, dipende dalla frustrazione e dall’impotenza. Da alcuni lustri a questa parte ci sentiamo in declino, sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista politico. Percepiamo la nostra voce largamente inascoltata, e anzi molti hanno perso la speranza che mai lo potrà essere. 

La storia del trauma ci insegna che l’impossibilità di comunicare una condizione di sofferenza, o peggio sentire che essa sia tollerata, se non addirittura giustificata, crea fratture dentro di sé, e risentimenti verso l’altro. Le condizioni psicopatologiche che ne derivano, poi, possono andare dalla grave scissione mentale, a varie forme di aggressività (più o meno passiva) agita in maniera scriteriata. 

Ora, io credo che nell’analizzare l’imbarbarimento delle relazioni umane, sia necessario anche definire la cornice del quadro entro cui tale imbarbarimento prende corpo, che è, per l’appunto, di progressiva e ineluttabile perdita di potere sul nostro presente, e di fiducia riguardo il nostro futuro. 

Così, oltre a segnalare con un certo disprezzo e superiorità questa situazione, dovremmo anche cominciare a fare qualcosa prima che diventi endemica. Ossia, prima che si perda la fiducia nella politica, prima che si smetta di cercare lavoro, perché “tanto non c’è”, prima che si prenda a vomitare odio per strada, al lavoro, sui social network, perché davanti c’è soltanto qualcuno che non può difendersi. 

Rileggendo l’ultima frase penso che forse queste cose stiano già avvenendo. Se è così, allora, è tardi anche solo per lamentarsi. 

Torino e il Salone del Libro.

Eccolo, è arrivato anche quest’anno. Il Salone del Libro è la spunta blu della torinesità, il party da cui passare tutti almeno una volta, l’evento meno attesto, ma proprio per questo, il più partecipato. Nato alla fine degli anni Ottanta, sul crepuscolo della vicenda industriale, il Salone del Libro è, insieme al Torino Film Festival, il vero è proprio “We will meet again” dei tornesi. 

Ogni volta mi stupisco a vedere tanto contenuto entusiasmo, tanta abnegata adesione, tanto intellettuale understatement. E non è un caso, se, per capirlo, lo devo associare al TFF. Sì, perché la torinesità è sostanza senza fronzoli, è fare l’arrosto senza troppo fumo. Altre città sono più brave col fumo, e senza dubbio ci vuole anche quello, ma sotto la Mole lo consideriamo pacchiano: è un fatto di pudore, di modestia. 

Leggere un libro, come guardare un film, si fa nel silenzio, tra sé e sé. E poi lascia una scia luminosissima, che anche quella si tiene per sé. Ecco perché andiamo al Salone del Libro, per gli stessi motivi per cui amiamo il TFF, perché leggere ci dà tantissimo, ma possiamo non dirlo a nessuno.

Così Torino è ripartita, e riparte ogni anno, dal Salone del Libro. Un libro che si apre, del resto, fa più rumore di un cannone che spara. Non mi ricordo, ma forse anche di questo, aveva già detto Mozart. 

Diego Maradona, Ayrton Senna, Valentino Mazzola. Mito, destino e consolazione.

Nei giorni scorsi abbiamo celebrato l’anniversario della morte di Ayrton Senna e della scomparsa del Grande Torino. La loro vicenda è simile a quella di un altro grande mito dello sport mondiale, Diego Armando Maradona. È simile perché tutti e tre questi pezzi di storia dello sport, condividono un fato avverso e terribile, che li ha piegati proprio nel momento di massimo splendore.

Amati in vita, compianti dopo, la ragione del mito che li circonda, tuttavia, non sta nella loro popolarità. Questi eroi del nostro tempo sono stati, come molte persone che conosciamo, battuti dal destino. Non è un caso se il motto che accompagna i tifosi del Grande Torino, sulla faccia oscura del colle di Superga, è “solo il fato li vinse”. 

Abbiamo bisogno di fissare nella nostra coscienza, individuale e collettiva, alcuni punti cardinali, alcune lezioni, che ci guidino quando siamo nel buio. Una di queste riguarda il lutto e il suo superamento. Il campione dello sport nel fiore della sua carriera, e che sarebbe stata ancora lunghissima, è il migliore emblema di una fine inaspettata e inspiegabile. 

Ayrton Senna è morto nel momento del suo massimo splendore, quando, si dice, avesse nel cassetto un contratto con la Ferrari. Diego Armando Maradona è stato fermato dal suo demone quando il mondo del calcio aveva più bisogno di lui. L’aereo del Grande Torino è caduto proprio alla fine degli anni Quaranta, quando l’Italia stava per prendere il volo. 

Il mito è saggezza popolare, è cristallizzare una lezione affinché non venga dimenticata. Se c’è un insegnamento dietro al mito di Valentino Mazzola, di Ayrton Senna e di Diego Maradona, è che la vita non guarda in faccia a nessuno. È la consolazione che l’inevitabilità del destino non riguarda solo noi persone comuni, ma anche loro, gli dei dell’olimpo dello sport. È questa loro umanità che ce li fa amare così tanto, proprio loro che tanto umani, in fondo, davvero non sembravano. 

Elogio del cretino

Il cretino ha una funzione psicosociale, ci rassicura. Molto spesso ci sentiamo circondati da imbecilli e imprechiamo la nostra sorte. Ma impropriamente, perché essi non sono poi così numerosi. Inoltre, sono molto più utili di quel che crediamo.

Le funzioni del cretino

Anzitutto, il cretino è un collante straordinario con il nostro amico più prossimo: diamo di gomito, e insieme lo commiseriamo. Questo aspetto è importante, perché crea legami tra persone che si stimano più di quanto ne stimino altre. Dividerci in sottogruppi determina un’identità. Prendiamo gli iscritti a un partito politico, i membri di un fan club, o i tifosi delle squadre di calcio. Creare una categoria di persone in cui identificarsi, con caratteristiche diverse da un’altra categoria, avversa, crea e rafforza un senso indentitario. Così, irridere qualcuno perché fa cose che riteniamo stupide, crea aggregazione con individui che sentiamo più simili a noi, ossia insieme ai quali ci consideriamo meno stupidi. 

E poi, il più delle volte, il cretino suscita riso, ilarità. Anche bonaria, ma più spesso sarcastica. Quindi quando alla presenza di qualcuno un po’ bizzarro scambiamo occhiate con altri, lo commiseriamo per errori che noi non faremmo, e ne ridiamo, gli stiamo assegnando il ruolo dell’imbecille. Ecco, queste due funzioni non sono per niente negative. Se una persona con il suo comportamento ci fa avvicinare a qualcuno che in fondo stimiamo, e per giunta ci strappa qualche sorriso, piuttosto che deriderla, dovremmo ringraziarla.

Non superiori, ma fortunati

In ultimo, ma non per ultimo, il cretino ci fa sentire fortunati. Di tutte le forme di discriminazione, questa è la meno vigliacca, anzi direi persino la più funzionale. Discriminare persone svantaggiate sotto qualche aspetto, perché ad esempio hanno un handicap fisico o mentale, o fanno parte di una minoranza, come può essere un ceto sociale più basso o più alto, è atteggiamento razzista, o quantomeno classista. 

Discriminare definisce una superiorità, e sentirci superiori a chi ha uno svantaggio non è cosa tanto nobile. Ma discriminare un imbecille è questione di lana caprina, perché in fondo ciò che uno reputa stupido, un altro lo può ritenere furbo. Così il punto vero non è la superiorità, ma quel senso di benessere, di sollievo, che ci prende quando diciamo “per fortuna, noi non siamo come lui!”. 

Ecco alcune considerazioni che dovrebbero farci gioire, e non imprecare, quando incontriamo un cretino. Che in fondo va difeso, tutelato, forse persino incoraggiato, a fare ancora nuove cretinate. 

La coppia infantile.

Il percorso di crescita è in genere una corsa verso l’età adulta, una sua anticipazione, talvolta persino uno scimmiottamento. Vi sono individui, invece, che in coppia rifiutano il ruolo di adulti, e giocano a fare i bambini. 

“Io sono grande”

Sappiamo tutti di quanto i bambini tengano a sottolineare il loro grado di sviluppo, e quanto vengano rafforzati in questo dagli adulti che si occupano di loro. A scuola, per esempio, amano aiutare dei compagni più piccoli, per senso di responsabilità, oppure a casa assicurano di poter assumere certe iniziative, perché “io sono grande”. 

Il mondo che li circonda, del resto, tende a premiare questo atteggiamento, per insegnare loro l’autonomia, e renderli consapevoli delle loro azioni.

Questa dinamica non si perde con la prima infanzia, anzi continua ad essere presente in ogni fase di crescita. L’adolescente e il giovane rincorrono l’adultità come se fosse uno status sociale. I ragazzi sognano di guidare l’auto, di uscire da soli con gli amici, di firmare i libretti scolastici. I giovani adulti sognano cose diverse, ma pur sempre cose “da grandi”: tutti abbiamo sentito la frase: “Oggi compi 18 anni, finalmente potrai…”. Al bambino e al giovane, sovente, la loro condizione sta stretta. 

Responsabilità

Vediamo coppie, invece, in cui la situazione si ribalta, e invece di fare gli adulti, i loro componenti giocano a fare i bambini. Anche questo è un caso di coppia sul viale del tramonto, ma in maniera diversa dalle altre. La cosa che sorprende di più non è la difficoltà di prendere atto della crisi, piuttosto la fuga (immaginata) dal ruolo di adulto e dalle responsabilità che esso prevede. E ovviamente tra le responsabilità c’è anche quella di fare parte di un progetto di vita condiviso. 

Supponiamo per un istante di entrare in una sala operatoria durante un intervento, e di imbatterci in una equipe che si comporta come una classe di bambini. L’anestesista che rincorre l’infermiere, disordine ovunque, e tra urla e schiamazzi il paziente abbandonato in un angolo. E poi supponiamo ancora di entrare in un parlamento e trovare una situazione analoga: aeroplanini di carta, sbadigli, chiacchiere a mezza voce. Che impressione ne avremmo? Penseremmo senza dubbio che le persone che vediamo vorrebbero essere altrove, che non hanno nessuna voglia di fare quello che stanno facendo, e che trovano più divertimento nei comportamenti infantili, che soddisfazione professionale dal loro impegno. 

Questa è la stessa impressione che si può avere dalle coppie infantili. Quando due persone si divertono di più a fare giochi, sketch, battute infantili, piuttosto che vivere il presente o progettare cose da fare insieme, molto spesso è perché queste ultime non darebbero maggiore soddisfazione, o più semplicemente queste persone vorrebbero essere altrove. 

Quindi la riflessione si sposta dal fatto stesso che la coppia sia in crisi, al peso della responsabilità di doverlo ammettere. E come abbiamo detto, è proprio la responsabilità una differenza importante tra l’infanzia e l’età adulta.  

Jannik Sinner: la cultura della fatica.

Il training psicologico nello sport riguarda competenze che, come le abilità tecniche, possono essere potenziate. Il caso Jannik Sinner, giovane orgoglio del tennis italiano, mette in evidenza una capacità sottostimata, nello sport professionistico: la resilienza alla fatica e al sacrificio. 

Competenze allenabili, e non allenabili

Nello sport si contano almeno tre categorie di aspetti mentali. Quelli donati dalla natura, come la capacità di gestire lo stress di gara, o la concentrazione. Quelli condizionati dall’inconscio, o da eventi del passato dell’atleta, come la paura di infortunarsi nei contrasti, la fiducia in sé stessi, o la tendenza a serbare rancore. E poi vi sono gli aspetti più dipendenti dalla volontà, o quantomeno dalla motivazione interna, come seguire una dieta alimentare, avere una vita regolare, ecc… . L’attitudine al sacrificio, al lavoro duro, e più in generale la resilienza alla fatica, appartengono al terzo tipo. 

Ciascuna di queste tre categorie prevede percorsi diversi di preparazione mentale, ma quella che abbiamo citata per ultima risulta la meno “allenabile”, almeno per gli atleti maturi. Essa è infatti più legata alla personalità dell’individuo, alle sue disposizioni interiori. Diego Maradona, in Italia, amava molto frequentare gli amici, mentre Cristiano Ronaldo faceva una vita ritirata, mettendo al primo posto il suo lavoro. E potrei fare altri esempi. Gli sportivi affermati hanno già strutturato una loro modalità di integrare vita privata e attività agonistica, ma gli emergenti possono fare ancora molto per aggiungere questo aspetto nel loro bagaglio professionale. 

La cultura della fatica è un asset strategico dell’atleta

Jannik Sinner ci mostra che la resilienza alla fatica e al sacrificio non è una competenza secondaria. La motivazione interiore, diremmo intrinseca, nell’affrontare qualunque attività della vita, ma soprattutto nello sport professionistico, codifica per una maggiore tendenza al costante miglioramento, o al mantenimento dei livelli raggiunti. 

Esistono diversi espedienti per migliorare la motivazione intrinseca, uno di questi è fare leva sull’orgoglio, un altro sugli obiettivi personali, e così via. La cosa importante è che il giovane atleta, il suo staff tecnico, e tutte le persone che lo circondano, non sottovalutino la portata di questo che è a tutti gli effetti un asset della sua vita professionale. 

La cultura della fatica, in altre parole, non è un valore da proporre soltanto agli atleti meno dotati, quelli che devono sopperire con il duro lavoro alle lacune tecniche, ma può fare la fortuna anche dei più bravi. E la parabola di Jannik Sinner lo testimonia chiaramente.  

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