Perché gli italiani non votano? Non chiamatela depressione

Un autorevole editorialista ha sentenziato che la causa del recente astensionismo alle regionali di Lazio e Lombardia sarebbe la depressione. E ha pure insistito: i partiti politici non si chiedano se è meglio candidare questo o quel personaggio, ma si dedichino allo studio dei depressi e della depressione. 

Ora, è evidente che se questo editorialista ha dei dati epidemiologici che definiscono il 60 per cento degli abitanti di Lazio e Lombardia come depressi debba comunicarli al ministero competente. Sarà certamente lesto ad analizzarli e trarne le debite considerazioni. In caso contrario, però, credo sia bene puntualizzare almeno due aspetti. 

La depressione è una malattia che può essere molto grave

Il primo è che la depressione – nelle sue varie forme – è una malattia altamente invalidante: trasforma la vita delle persone che ne soffrono, nonché quella delle persone che esse hanno intorno. 

Se non curata la depressione incide fortemente sulla vita di un individuo, distorce le traiettorie della sua esistenza. Non soltanto quell’individuo potrebbe essere felice mentre non lo è, potrebbe anche fare e dire molte cose che invece non riuscirà mai a fare o dire: esprimere i suoi sentimenti, aiutare gli altri, avere degli hobby ecc… . 

La fatica, il travaglio, la disperazione con cui molti depressi guardano alla vita possono contagiare figli, fratelli, famigliari, nelle modalità più diverse. Per non dire che molti sviluppano rapporti morbosi con psicofarmaci o con droghe, nel tentativo di autoregolare il loro umore, ma incappando in un fai da te farmacofilico e inefficace. 

Per questo chiedo agli analisti politici di avere più rispetto della depressione: un cliente davvero molto brutto, che fa ironizzare soltanto chi ha avuto la fortuna di non vederlo mai da vicino.

L’errore non è mio, siete voi…

Il secondo aspetto è che, come ho già detto altre volte, è fuorviante porre fuori da noi la causa di un problema che ci riguarda. Dire che gli astensionisti siano depressi è riduttivo e semplicistico. Da psicoterapeuta non posso che fare notare il pericolo dietro al dire: la tale cosa non va perché tizio caio sempronio non vuole capire sentire ammettere adeguarsi interessarsi informarsi (in ultima analisi adattarsi.) 

Porre fuori da noi la spiegazione di qualcosa che ci riguarda e non funziona è una forma di difesa comprensibile, ma che non migliora le cose. Se quello che faccio non va anzitutto devo fare autocritica. 

La costruzione di un senso del mondo che separa nettamente me uguale buono da altro da me uguale cattivo è una costruzione che consente l’adattamento, non c’è dubbio. Ma un adattamento che si basa sull’incomunicabilità. E’ come tornare mentalmente ai tempi del muro di Berlino. Chi è di qua, con me, ha ragione. Chi è di là, con te, ha torto. Se la storia insegna qualcosa, dovemmo provare a superarlo.   

Baby alcol: il falso sé social alla prova del gruppo

Le spaventose rivelazioni di Espad sui baby alcolisti confermano dati già nell’aria da alcuni anni. ‘Un milione di italiani tra i 10 e i 14 anni già si sbronza. E il 66 per cento lo ha fatto tra i 15 e i 17 anni’ (fonte La Stampa-Instagram). 

Generazione Influencer

Il modello base dei rapporti tra adolescenti è giocoforza il social network. Non è un giudizio di valore, sia chiaro, ma una constatazione di fatto. Quasi tutti i ragazzi hanno almeno un account social, che costituisce un’estensione, se non un completamento, della loro personalità. Di conseguenza le relazioni tra coetanei, amicizie, rivalità, amori ecc… se non nascono direttamente in rete, certamente vengono aiutate, puntellate, riempite, dalla componente virtuale della loro personalità. 

Fin qui niente di male. Il social networking, però, porta una conseguenza. L’immagine di me che tenderò a dare sul profilo sarà sempre un po’ più cool, un po’ più trendy, un po’ più performante della realtà. Non significa che il mio profilo sarà un fake, ma che le informazioni (e soprattutto le foto di quello che faccio) baderanno un po’ più all’aspetto piacevolezza, strizzeranno l’occhio al mio follower, per il quale, c’è da scommetterci, vorrei avere il ruolo di ‘influencer’ .

Anche fino a qui, se vogliamo, niente di male. E’ del tutto legittimo voler dare di sé un’immagine di persona piacevole, che fa cose divertenti, che ha una vita piena e felice. Fa parte del gioco, anzi sarebbe strano il contrario. Le relazioni però, ad un certo punto, si devono vivere in presenza, di persona, ed è qui che le cose si complicano.  

Quanti likes hai?

Prima dei social network andavi a scuola e soltanto lì incontravi i compagni di classe. Se nascevano simpatie ci si vedeva fuori dal contesto. Prima solo per un caffè, poi un’altra volta si andava al cinema, così con alcuni si arrivava alla pizza, e a lungo andare con altri alle vacanze estive di gruppo. Era un conoscere sempre meglio persone che già frequentavi, e che a vari livelli sentivi affini. Il gruppo dello stadio, il gruppo dei concerti, quello del calcetto. Una volta raggiunti gli amici in birreria tutti sapevano già chi eri, non dovevi ricoprire un ruolo, se non marginalmente. 

La generazione social ha una difficoltà in più nelle relazioni: si porta dietro i followers e i likes del social network. Quando oggi un adolescente incontra gli amici sente il peso dei suoi followers e dei suoi likes: non può tradire la propria reputazione. Così ad una festa di coetanei ci sono ragazzi che cercano anzitutto di confermare l’immagine che gli altri si sono fatti attraverso il suo profilo social, e come abbiamo detto è cosa ardua, se il profilo strizza l’occhio al follower.

Baby alcol

Il consumo smodato di alcol tra giovani e giovanissimi è certamente correlato anche alla necessità di apparire spigliati, simpatici, sicuri di sé. In altre parole al sostegno di un falso sé, un sé idealizzato, unicamente piacevole e ‘social’. 

La riflessione torna così sulla difficoltà di aprirsi e lasciarsi incontrare in maniera autentica da altre persone, ma che è anche difficoltà di voler incontrare, di voler conoscere. In questo modo la responsabilità non ricade più sulle reti o sull’uso che ne facciamo, ma unicamente sulla reale disposizione, disponibilità, con la quale ci rapportiamo agli altri. 

Come si vede queste riflessioni valgono per tutti non solo per i più giovani. Essi talvolta non hanno alternative: non hanno mai conosciuto o frequentato gli altri in un’epoca senza social networks.

Goblin Mode: il diritto alla sciatteria

Il Goblin Mode è vivere il diritto di essere impresentabili, sciatti, di stare in pubblico come se si fosse in casa propria. Il Goblin Mode configge con gli stereotipi del bello e delle apparenze, ma può venire frainteso come forma di scortesia o disprezzo verso gli altri. E’ molto interessante che si sia diffuso in questo nostro tempo, e non per esempio negli anni Ottanta. 

Frammentazione 

Frammentazione è la parola chiave per capire il nostro presente. 

C’è stata un’epoca liquida, non c’è dubbio, in cui l’informazione ‘running water’ ha accompagnato il progressivo fluidificarsi della società e di conseguenza della nostra identità. O per essere più chiari del nostro modo di vedere le cose, di pensare e di relazionarci agli altri. Dopo le diverse crisi economiche, la pandemia da Covid-19 e la guerra nel cuore d’Europa, invece, siamo precipitati in un’epoca di frammentazione

Il quadro economico e politico che ci circonda è stato per molti anni più o meno stabile. Oggi invece tra nuove professioni in ascesa e vecchie professioni in declino, e tra vecchi partiti al collasso e nuovi partiti che cercano di sostituirli, vediamo una situazione altamente polverizzata. 

Di conseguenza la frammentazione si è impadronita di noi: facciamo cose frammentate, pensiamo cose frammentate, abbiamo contratti di lavoro, condizioni economiche, relazioni affettive, interi pezzi di identità frammentati. Siamo schegge di un muro, tessere di puzzle che si agganciano a immagini diversi, ma che non riusciamo a trovare: per fortuna abbiamo lo smartphone, piccolo stick di colla vinilica che riduce ad unità tutti i nostri frammenti. E del resto avete provato a stare un giorno senza telefonino? 

Goblin Mode 

Di conseguenza la frammentazione ha indotto nuove forme di disagio e nuove forme di reazione al disagio. Prendiamo il Goblin Mode: vestire in pubblico come se si fosse in casa propria, vantare il diritto di essere impresentabili rispetto ad un determinato contesto.

Rifiutare gli stereotipi di massa del bello, del pulito, del ben presentabile, lodabile da un punto di vista anticonvenzionale, mi da l’idea di sconfitta rispetto ad una competizione globale (di cui ho già detto altrove).  

Il confronto impietoso, offerto dai social networks, con tutto il resto del mondo, è un confronto che giocoforza si conclude con la sconfitta. La pianista francese che posta video in minigonna mentre esegue Schubert si espone alla risposta di un’altra pianista, dal Brasile, che suona in bichini Rachmaninov. Capite che se nella partita cominciano a entrare pianiste dagli Usa, dalla Cina dal Sudafrica e dall’Italia, come se ne esce? 

Se la competizione globale è fallimento certo, il Goblin Mode è sfuggire anche alla competizione locale: rinunciare ad ogni forma di apparenza per ammettere a priori la sconfitta. La frammentazione del contesto (psico)sociale si trasforma, con il Goblin Mode, in frammentazione della strategia di risposta. Che è anzi talmente atomizzata da non essere più visibile, da nascondere le vere intenzioni comunicative.  

Un atteggiamento di lodevole rifiuto degli stereotipi, partorisce un comportamento che può venire frainteso come disprezzo o maleducazione: non mi sembra un gran successo. 

Anoressia e donne in carriera

Alcune donne di potere soffrono di solitudine. Conformemente al ruolo che ricoprono, però, e all’immagine che devono dare all’esterno, questa sofferenza non può e non deve essere espressa: a loro non sono consentite fragilità. 

Disturbi alimentari e solitudine

Il disturbo alimentare è sostanzialmente storia di solitudine. E’ da soli che ci si forza a digiunare, è in solitudine che si fanno abbuffate notturne, è nel silenzio della propria intimità che si espelle il cibo, magari dopo aver mangiato in compagnia. 

Non stupisce quindi che molte donne in carriera, o comunque donne forti, tutte d’un pezzo, abituate a essere seguite piuttosto che a seguire, possano soffrire di disturbi alimentari: perché il potere fa rima con solitudine, e l’angoscia che può derivare dal comando necessita di strategie primordiali per essere affrontata. 

Le modalità legate all’assunzione/rifiuto del cibo sono tra le prime ad essere acquisite, come ben sanno le mamme che allattano: da neonati infatti impariamo a comunicare il bisogno di cibo, o a esprimere il senso di sazietà. E da neonati impariamo che quel ‘buco nello stomaco’ può essere riempito se chi ci sta davanti sa capire le nostre richieste. Ma se da adulti ricopriamo un ruolo in cui non possiamo fare richieste, perché non sono previsti attimi di fragilità, ecco che quel ‘buco nello stomaco’ dobbiamo riempirlo da soli, ossia ognuno come riesce. 

Vuoto e pieno

L’ingestione compulsiva di cibo assomiglia allo riempimento forzato di un contenitore. Spingere qualcosa giù, come i vestiti in una valigia. Riempire forzosamente il vuoto primordiale, negare l’utilità del prossimo, dell’Altro, e bastare a se stessi, o almeno provarci. Immaginate se un neonato stanco di aspettare il biberon che non arriva potesse alzarsi, e con rabbiosa voracità ingoiarne l’intero contenuto, mandando al contempo tutti al diavolo. Negare l’importanza del soccorso, proprio quel soccorso che non è arrivato quando ne avevamo più bisogno: fare da sé, a costo di sbagliare, a costo di farci male. Alla donna in carriera, non possiamo negarlo,  non sono consentite fragilità, e il corto circuito è servito. 

Colpa 

Ogni pranzo che si rispetti prevede un’ultima portata, e per il comportamento alimentare l’ultima portata sono rabbia, colpa, senso di abbandono. La colpa e le altre emozione negative del disturbo alimentare sono i diademi della solitudine,  di chi non ha altro giudice se non la propria coscienza. Ed eccoci, così, tornati alla solitudine, da cui siamo partiti. La donna in carriera, o comunque la donna forte, tutta d’un pezzo, abituata non a seguire, ma ad essere seguita, è donna sostanzialmente sola. E da sola, infatti, deve affrontare, oltre alle sue paure di leader, anche il senso di colpa per non essere riuscita, proprio lei, a riempire quel vuoto primordiale: quel ‘buco allo stomaco’ che con tanta rabbiosa voracità ha provato a riempire, mandando al contempo tutti gli altri al diavolo.    

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