Categoria: Glossario

  • Depressione

    Una percentuale molto alta di individui soffre di disturbi dell’umore sotto traccia, o sotto soglia, se preferite. Sono quei disturbi che si palesano di tanto in tanto in forma di stanchezza eccessiva e apparentemente immotivata, di problemi del sonno, o di eccessiva trasandatezza e scarso amor proprio. Ma soprattutto come un calo della voglia di fare, un sentimento di vuoto persistente, una preoccupazione eccessiva per ogni cosa. 

    Chiaramente bisogna fare una distinzione, la depressione reattiva ad un evento di vita, che può essere per esempio un lutto, una separazione, un trasloco, ecc…, non è un problema clinico.

    Nella vita capita a tutti di essere un po’ giù di corda per qualche giorno, specie se in seguito ad un brutto momento. Ma qui si tratta di qualcosa di più, qualcosa di apparentemente immotivato. La donna in carriera, il professionista, lo sportivo di grido, che sentono dentro un peso non meglio definito, una percezione di vuoto, di nulla, di inutilità.

    Molto spesso queste sensazioni rimangono, come dicevamo, sotto traccia, in quanto una bella serata in compagnia, magari con qualche bicchiere di vino, o un bel viaggio, possono allontanarle per un po’. Oppure la stessa routine quotidiana che per alcuni è davvero incalzante. Tuttavia se poi si presentano nello stesso identico grado, se non superiore, significa che non erano transitorie, e che pur se non sfociano in un vero disturbo dell’umore, possono ben ricalcarne le caratteristiche, e direi anzi in situazioni specifiche possono addirittura essere l’humus su cui un vero disturbo possa germogliare.

    A proposito del viaggio: c’è chi ne fa una dipendenza. Gli psicanalisti francesi dicono che la mobilità geografica è sempre anche mobilità psichica, e che quando viaggiare è confrontare se stessi e la propria cultura con quella di altri, il viaggio è un elemento fecondo della vita mentale di ciascuno. Sono ovviamente d’accordo, ma bisogna dire che alcune persone viaggiano in maniera compulsiva, facendone una dipendenza. Un viaggio riempie la vita, e i vuoti che abbiamo nella pancia, già dalle fasi della sua preparazione. Alcuni al rientro da un bel viaggio si sentono a terra, come svuotati, non si adattano alla vita quotidiana e continuano a pensare incessantemente al viaggio appena terminato. Attenzione che questo senso di ‘svuotamento’ non nasconda un problema dell’umore. Un bel viaggio deve dare la carica, del resto è una vacanza, non può far sentire peggio di quando si è partiti. Così queste persone si dicono amanti del mondo, pianificano un’altra partenza e nel frattempo gettano discredito su chi sta sempre chiuso in casa. In questo modo, però, il senso di vuoto cresce, non si riempie, perché è un vuoto esistenziale. Ricordo ancora le pagine di Winnicott, quando parlava della capacità di stare soli. Un io adulto deve saper stare da solo con se stesso, sapendo gestire le angosce che inevitabilmente ciascuno di noi ha. Ampliando il significato diciamo che deve saper stare fermo. Conosco una persona che non vede l’ora di partire, poi durante il viaggio non vede l’ora di rientrare, poi quando torna a casa nuovamente pianifica un’altra partenza. E’ certamente una persona molto depressa, che non sa stare con se stessa, e non sa ammettere a se stessa quanto grandi siano i buchi che ha nello stomaco. 

  • Disturbi alimentari

    Parlando di buchi nello stomaco, e più precisamente di vuoti affettivi, non possiamo non accennare ai disturbi alimentari. Il disordine della condotta alimentare è uno dei più diffusi (e infatti non tutti sono patologici) ma anche uno dei più dileggiati. Soprattutto se riguarda persone famose, attrici, cantanti, o anche un’amica particolarmente brava a scuola o nel lavoro.

    Io preferisco parlare di ‘condotta alimentare’ piuttosto che di disturbo, perché alcuni comportamenti di controllo del piano alimentare non sono necessariamente patologici: chi di noi non si è messo un po’ a dieta prima della prova costume? E chi non ha fatto il ‘pieno’ di dolci o di carboidrati quando sapeva che ne sarebbe rimasto senza per un po’?

    Anche la condotta alimentare, come le altre modalità stabili di comportamento, si situa su un continuum. Ad un lato del continuum si trova l’alimentazione per così dire accettabile, magari con una smorfia, anche dai nutrizionisti. Parlo della spaghettata dopo il bagno di mezzanotte, del secondo bombolone al rientro dalla discoteca, del rinforzo sulla pizza quattro stagioni. Ciascuno faccia gli esempi che meglio corrispondono alla propria vita. Il punto che interessa è la dinamica che si instaura con il cibo. Quel mix di amore/odio in un’atmosfera di controllo da un lato, quella ricerca di abbraccio degli zuccheri dall’altro, con la coda di sensi di colpa e odio per sé che in genere se consegue.

    Inutile dire come le condotte alimentari, così fortemente osteggiate in famiglia, siano fonte di accusa e ostracismo anche nel gruppo dei pari. Abbiamo già detto altre volte della superiorità intellettuale del soggetto che sviluppa un disturbo alimentare. Non è raro, per meglio dire, che il disturbo alimentare sia una persona di successo, almeno nel gruppo di appartenenza. Per questo dietro un’aura di commiserazione talvolta si cela una vera e propria ostilità, direi un biasimo che le altre problematiche non portano. Il soggetto viene fortemente accusato, magari alle spalle, dal suo gruppo di appartenenza, che lo isola, ne prende le distanza, e nei casi peggiori arriva a distruggerne la reputazione. Personalmente ricordo un articolo di giornale che raccontava il suicidio di una ragazza con un problema alimentare: i coetanei, intervistati dal giornalista, bollavano l’amica come una persona debole, senza spina dorsale, e che rifiutava persino il cibo che i genitori le davano.

  • Fobie

    Tutti conoscono qualcuno che non prende l’ascensore o detesta le gallerie. I problemi legati all’ansia sono molto diffusi, ma la cosa peggiore per chi ne è vittima è che gli altri tendono a svalutarli, persino talvolta dileggiarli. ‘E’ arrivato quello che non prende l’aereo’, ‘Andiamo in campagna, ma non diciamolo a … che ha paura dei ragni’.

    Sovente le reazioni altrui sono quelle di una battuta impropria, di un sorriso, di una svalutazione. Ma il soggetto vive una  tragedia. C’è una sorta di piacere sadico nel dileggiare qualcuno che abbia una fobia, perché ci si sente superiori, forti, si sente di avere del potere sull’altro. Inutile dire quanto questo sia scorretto, ma nel mondo c’è sempre chi fa scorrettezze, tanto più nelle compagnie di amici o nei team di lavoro. Questo discorso, poi, si amplifica quando si parla di una persona di successo. Questi individui certamente rispettati e ammirati, sono molto spesso anche invidiati: facile  trovare chi metta in risalto una piccola difficoltà, giri il coltello nella piaga, amplifichi un’insicurezza. Ricordo una famosa diretta tv in cui le componenti della staffetta femminile italiana alle olimpiadi incolpavano della sconfitta una di loro, l’unica che correva anche da sola, evidenziando certe sue difficoltà.

    Le persone con problemi di ansia vanno spesso incontro ad una condizione molto specifica: da una parte si ritirano dal punto di vista relazionale, aumentano le distanze, perdono la fiducia negli altri e nel poter avere delle relazioni significative. Dall’altra idealizzano delle relazioni come ‘salvifiche’, ad esempio con dei vecchi amici, o con dei luoghi, oppure ancora con gli ansiolitici, da cui poi faticano a staccarsi.

    Il soggetto con attacchi di panico o fobie tende così a non uscire di casa senza la ‘copertura’ del farmaco. Lo tasta nella tasca interna della borsa, controlla l’orologio per la prossima somministrazione, e soprattutto si guarda bene dal fare parola ad alcuno. Le conseguenze si possono immaginare.

    Ci sono persone che cominciano a vivere una frattura tra il pubblico e il privato, tra il loro essere in mezzo agli altri e il loro essere dentro casa.

    Dalla fobia si può passare al pudore, alla vergogna, e in alcuni casi anche al senso di colpa. Così quello che può sembrare un sintomo isolato, come la paura del tram affollato, del cinema o del concerto, diventa fonte di vergogna, perché tutti gli altri ci vanno senza problemi, e invece la persona in oggetto non lo può neppure dire.

  • Pandemia

    L’attuale condizione a cui tutti siamo sottoposti funge da potente detonatore. Ciascuno di noi ha un proprio particolare stile di personalità, e un proprio modo di reagire a situazioni stressanti. Ma i materiali più solidi sottoposti a condizioni particolari si logorano maggiormente, e se caricate su una bicicletta il peso di un’automobile il suo telaio si affloscerà.

    Intendo dire che le situazioni limite portano all’estremo le nostre capacità di farvi fronte, e possono fare emergere piccole difficoltà che nella vita di tutti i giorni in genere teniamo ben sotto controllo.

    Inoltre l’impossibilità di parlare con qualcuno, di dare rappresentazione mentale a certe forti emozioni, contribuisce a renderle sempre meno ‘pensabili’, e sempre più a scaricarle sul corpo, attraverso sintomi di vario genere.

    Le persone di successo, in carriera, ben adattate hanno più possibilità di altre di riprendersi in fretta da un periodo negativo.

    Ma devono credere in loro stesse, non si devono mentire, e soprattutto devono cambiare il modo con cui affrontano le cose.

  • Problemi di relazione

    Sempre più persone faticano a intrecciare relazioni sentimentali stabili e soddisfacenti. In genere si tende a dare la colpa all’altro, o agli altri, dicendo che sono stupidi, che non hanno capito la ricchezza di quello che si ha da dare, o che sono degli egoisti. Altre volte invece ci si addossa l’intera responsabilità, dicendo che si è sbagliato tutto, che non si ha ancora imparato ad orientarsi nel mondo, e che evidentemente si è destinati alla solitudine.

    Ciascuna di queste risposte, sia ben chiaro, può assolutamente essere vera, come ciascuna delle ‘posizioni’ che esse riflettono, e anzi in molti casi le motivazioni della fine delle relazioni possono essere proprio queste. Ma non tutte le volte la ‘colpa’ di un fallimento sta necessariamente negli altri o in noi stessi. A volte quello che si tende a sbagliare sono semplicemente i presupposti con i quali si sceglie una relazione, con i quali la si avvia, e di conseguenza, la si porta avanti.

    Molte persone tendono a mostrarsi nei primi approcci in un certo modo per fare colpo, sperando poi che man mano l’altro si renda conto di come effettivamente la persona sia, e di cosa effettivamente stia cercando da quella relazione. Mentre va da sé che se entro in un negozio per comprare l’insalata e al banco frigo vengo attratto dai gelati, sarà difficile che una volta arrivato a casa mi renda conto di aver sbagliato qualcosa. Anche se non ho preso quello che mi serviva, ho comunque comprato quello che diceva il cartello.

    Ovvero, il fallimento della relazione è già iscritto nel suo inizio, nessuno dei due ha fatto errori nel corso della relazione. L’errore era a monte.

    Veniamo alla parte del ragionamento che più ci riguarda, l’incidenza di queste problematiche nella vita di persone di successo. Come per gli altri esempi fatti, i continui fallimenti nelle relazioni affettive fa soffrire e isola chiunque. Ma queste difficoltà creano un’aura di scetticismo intorno alla persona che per altri aspetti è ben adattata, preparata, vincente. 

    Il mondo è pieno di detrattori. Figuriamoci per una persona molto stimata e invidiata che continua a circondarsi di persone sbagliate.

  • Psicosomatica

    Il corpo parla. A tutti è capitato di arrossire ad un appuntamento, di avere il battito accelerato durante un esame o di sentire le mani fredde davanti alla paletta di un posto di blocco. Il nostro corpo ci parla anche quando noi non lo sappiamo, direi, anzi, persino quando noi non vorremmo che lo facesse. Questi fenomeni corporei sono dei segni che indicano un stato d’animo interiore, lo sappiamo tutti. Vi sono tuttavia anche altre e più importanti manifestazioni corporee, a cui però diamo minor peso in ambito psicosomatico, forse perché ci parlano di un malessere più profondo, più esteso, e meno superabile di quelli che abbiamo citato. Se l’emozione per un primo appuntamento svanisce al termine della serata per lasciare posto ad un benessere diffuso, se l’ansia dell’esame è superata appena arrivati al bar, o se la paura per un controllo è passata non appena mettiamo la freccia per ripartire, ci sono altre situazioni che creano un disturbo meno evidente ma più persistente, che non superiamo nel giro di pochi minuti.

    Così certi problemi sul lavoro, o in famiglia, diventano condizioni stabili, e questo ci ferisce in maniera continua, per quanto sotto soglia, lasciando dentro una traccia, che il tempo scava sempre più profondamente. Quando la traccia diventa solco, anche il nostro corpo comincia a comunicare questo malessere, secondo il principio che alcune cose, come il rossore all’appuntamento, ecc, vengono espresse anche se noi non lo vorremmo. In questi casi ignorare, o concentrarsi troppo sul sintomo potrebbe essere fuorviante. Mi spiego con un esempio: poniamo che dietro al volante della mia auto si accenda la spia della benzina. Potrei scegliere cosa fare tra una piccola serie di alternative: ignorare la spia, svitare il rispettivo relè responsabile dell’accensione della spia stessa, andare al distributore e modificare le condizioni meccaniche che portano il sistema ad indicare che manca benzina. Chi legge sarà certamente d’accordo che la terza opzione è l’unica non soltanto dotata di senso, ma anche di visione prospettica. Infatti se non voglio trovarmi a piedi a metà del mio tragitto mi converrà assolutamente fare il pieno. Ecco, per la psicosomatica è un po’ la stessa cosa. Se fatti tutti gli accertamenti del caso i medici mi dicono che non c’è nessun problema organico e che il mio malessere è di natura psicosomatica, potrei fare come per la spia della benzina. Ignorarla, assumere ansiolitici, (svitare la lampadina) oppure capire che cosa crea dentro me il cortocircuito e cambiare le condizioni che ne sono all’origine. Nessuno ha mai detto che sia facile o veloce. Ma è l’unica soluzione cha abbia una visione prospettica

  • Psicologia del lavoro e del non lavoro

    La parte predominante della giornata di chi ha un’occupazione stabile è dedicata a questa occupazione. Va da sé che gli aspetti ‘psi’ del lavoro che facciamo siano gli azionisti di maggioranza della nostra esistenza. Il clima in azienda, le relazioni con i colleghi, il rapporto con il prodotto finito (servizio o industriale che sia) dell’attività svolta, la condivisone o meno di vision e mission dell’organizzazione, sono tutti aspetti che incidono moltissimo sul benessere e sulla motivazione di un lavoratore. Per non parlare del rapporto con il tempo libero, di un eventuale progetto di carriera, del salario e delle sue variazioni. Il post industriale ha portato un progressivo disinteresse verso le problematiche del lavoro, ma anche verso le diverse dinamiche psichiche che dal lavoro vengono smosse. E così le fusioni aziendali, le ristrutturazioni e i vari ricollocamenti vengono spiegati attraverso le opportunità di crescita che rappresentano per i dipendenti, ma  (quasi) mai attraverso le delusioni che portano, la decrescita infelice che determinano, e il senso di fallimento a cui l’entusiasmo di un tempo lascia il posto.

    Parlando del lavoro c’è poi quella che chiamo la psicologia del non lavoro. Chi non ha un lavoro apre una serie infinta di problemi al resto della società: cosa bisogna offrire a questi individui? Chi deve occuparsi di loro? Quali competenze è necessario che imparino a implementare e quali invece no? Se un’azienda in salute fa formazione perché vuole i suoi dipendenti sempre aggiornati, occuparsi di chi è senza occupazione, dal punto di vista della psicologia del lavoro, vuol dire fornire le capacità di fare domani un lavoro che oggi non si è in grado di fare, o le capacità per costruire un lavoro che oggi non si è in grado di costruire.

    Come si vede gli aspetti psicologici dell’attività lavorativa vanno ben oltre i noti ambiti di selezione del personale, formazione e di assessment center, per andare ad abbracciare in pieno la vita lavorativa di una persona. Se vogliamo fare un parallelo possiamo dire che se un paziente viene in terapia da me per un problema di attacchi di panico, poniamo, legato all’ascensore, il mio obiettivo come terapeuta non è solo quello di fargli superare il sintomo, ma deve essere quello di aiutarlo a sviluppare gli anticorpi per le ansie di qualunque tipo. Solo in questo modo sarò certo che fra tre, cinque, sette anni non svilupperà un problema di ansia legata ad un altro stimolo. Per il mondo del lavoro, fatte le debite proporzioni, valgono le stesse regole.

  • Psicologia dello sport e dello sportivo

    Il gioco è allegoria della vita. Quando giochiamo siamo più sciolti, limitiamo l’autocontrollo, e vengono fuori le nostre modalità comportamentali più specifiche. La parte negativa di questa condizione è che lo sportivo vede riflessi nella sua attività anche alcuni dei limiti che preferirebbe tenere nascosti. Tutti sappiamo, per esempio, di campioni che hanno ‘steccato’ nella gara più importante della loro vita, o di atleti che vanno in crisi al cospetto di rivali più bravi. Questo avviene perché le componenti personologiche individuali influiscono nella prestazione atletica più di quanto vorremmo. La buona preparazione atletica, quindi, dovrebbe comprendere anche una buona preparazione mentale, se si vogliono esprimere le abilità al cento per cento, limitando l’influenza di ansie e condizionamenti personali. 

    Faccio alcuni esempi, per mettere meglio a fuoco l’influenza degli aspetti mentali nella prestazione sportiva.

    1. Il quarto game del set.  Chi gioca a tennis conosce molto bene quel preciso istante in cui la partita ha una svolta: è sovente quando dal 3-1 si passa sul 4-1, anziché sul 3-2. Parliamo di un piccolo punto che a livello numerico vale come tutti gli altri, ma mentalmente è molto pesante, perché genera un calo complessivo della concentrazione. Va detto che a volte è una tattica di gara, per chiudere il set e ripartire dal successivo, ma molto spesso no. Vi è che non c’è un vero motivo per cui qualcuno sia giustificato a cedere in una fase particolare della partita: né nello sport, né del resto nella vita, di cui lo sport è allegoria, come abbiamo detto. Del resto non c’è solo il primo posto, anche arrivare secondi, terzi e così via può essere importante. Così ci rendiamo conto che chi è vittima del quarto game del set, come amo definirlo, è destinato a soccombere ogni volta che si troverà in situazioni di svantaggio, e nello sport sono, ovviamente, molto frequenti.
    2. Competizione. Stare in una situazione di contrasto sportivo non è facile, ma non è neppure per tutti. Alcuni individui per natura non sanno dare battaglia, non sono in grado di ‘strappare’ qualcosa ad altri, non sono portati al ‘conflitto’, che come dicevano gli antichi è origine di ogni cosa. Per questi individui arrivare alla fase finale di una competizione sportiva è già una vittoria, e abbassano irrimediabilmente il livello della disputa perché trovano difficile ‘competere’. Quando si parla di competizione si aprono mille spunti di riflessione dal punto di vista psicologico: pensiamo alla competizione sessuale. Vediamo ogni giorno cosa fanno uomini traditi o rifiutati alle loro donne. La sana competizione non può prevedere la distruzione dell’avversario, o chi ti fa un torto, ma un lavorio intelligente facendo leva sulle caratteristiche più favorevoli di una situazione. Quindi lo sportivo potrebbe domandarsi: quali sono i miei limiti in questa situazione? E puntare su quegli aspetti in cui è più forte. E dove invece ha delle difficoltà nell’approccio alla battaglia (sportiva) analizzare le ragioni di queste difficoltà e limarle per definire delle competenze mentali più consone agli obiettivi che egli ha come sportivo.

    Altri aspetti ‘psi’ che condizionano la prestazione sportiva sono la capacità di concentrazione, la motivazione alla riuscita, la gestione dello stress di gara, che è associata a quel filone di studi che oggi va sotto il nome di burnout sportivo, a altri ancora. Ma anche, allargando lo sguardo alle dinamiche di gruppo di uno sport di squadra, la gestione della leadership, o i rapporti nello spogliatoio, messi in crisi dalle differenze di compenso all’interno di un team. Per non parlare di eventuali dissidi, dissapori, incomprensioni personali, per esempio con lo staff tecnico, che oltre a creare malessere fanno perdere ‘valore di mercato’. Insomma, come si vede gli elementi psicologici presenti nello sport sono di diversa origine e natura, e se non ben affrontati possono portare anche al fallimento di un’esperienza sportiva, individuale o di gruppo che sia. 

  • Trauma

    Tutti abbiamo nel nostro passato un evento che definiamo come una ‘ferita’ o una ‘rottura’. Tuttavia non tutti abbiamo superato questa ‘rottura’ allo stesso modo. Molti l’hanno superata globalmente bene, ne portano un ricordo doloroso, ma malinconico, come se fosse una parte comunque cara della loro storia. Vi è invece chi è stato sconvolto da questo evento, e non lo ha mai veramente metabolizzato. La sua vita da quel momento ha preso una direzione diversa, imprevista prima, direzione che lo ha portato lontanissimo da dov’era inizialmente. E poi c’è anche chi non è mai riuscito a ripartire, ed è rimasto schiavo dei condizionamenti che quell’evento ha generato.

    La storia del trauma e di ciò che è stato traumatico è per larghi tratti la storia stessa della psicoanalisi. E a ben guardare per larghi tratti è anche la storia stessa della cultura di cui facciamo parte. La storia dell’umanità avanza per eventi traumatici, e anche nella storia dell’umanità vediamo culture che superano i traumi senza problemi, altre culture che pur se con difficoltà si adattano ai cambiamenti introdotti da un trauma, e altre culture ancora che invece si perdono irrimediabilmente proprio a causa della rottura che per l’appunto il trauma ha causato. 

    Non è facile definire che cosa sia traumatico e cosa no, o almeno non in termini assoluti. Come è stato ben definito da qualcuno, per esempio, l’11 settembre come evento collettivo è stato globalmente meno traumatico di alcuni eventi individuali. L’11 settembre è stato metabolizzato a livello collettivo con un serie di cambiamenti di abitudini in tutto il mondo, pensiamo alle regole sui voli, con nuovi progetti per lo skyline della città e non da ultimo con una serie di azioni militari che per alcuni sono state persino superiori rispetto all’offesa ricevuta. E per non citare quel senso di vilipendio collettivo che in occidente tutti hanno sentito come proprio, anche chi a New York non ha mai vissuto, e mai ci vivrà. In altri casi invece non siamo così fortunati. Ci sono eventi che per pudore, per vergogna, o semplicemente per disinteresse da parte degli altri, restano per lo più segreti, così come i loro connotati emotivi, che nessuno mai accoglierà. Può avvenire che questi eventi portino a cascata delle ricadute nel nostro comportamento, come ad esempio diventiamo pian piano diffidenti verso gli altri, o veniamo colpiti da attacchi di malinconia, o da un senso di disagio nelle relazioni affettive. In questi casi il trauma diventa ‘insuperabile’.

    Poi c’è il trauma cumulativo. E’ una definizione che amo particolarmente, perché rende conto di tutte quelle situazioni che di per sé non sono traumatiche, ma lo diventano in quanto condizioni esistenziali. Subire per qualche volta le angherie di una persona insoddisfatta non è traumatico, soprattutto se sappiamo avere pazienza, ma vivere per anni con un congiunto che si sente un fallito e scarica su di noi la sua rabbia, magari castrando ogni ambizione che esprimiamo, beh questo può diventare traumatico.

    Tenere d’occhio un fratellino per un pomeriggio non è traumatico, anzi può favorire la crescita sana e il senso di responsabilità, ma avere sulle spalle l’impegno di controllare un fratellino che ha un problema di salute e deve essere monitorato costantemente, può creare ansia e difficoltà a lasciarsi andare, insomma a suo modo può essere traumatico.

    Le modalità con cui abbiamo reagito a eventi traumatici passati condizionano sovente anche il nostro presente, e ad esserne pienamente consapevoli non è mai troppo tardi.