Ne ho parlato a DF Talk, Associazione Difendiamo il Futuro, con Benedetto Bonfatti.
Psichiatria
La droga come mezzo marinaio. Il bambino infelice all’inseguimento della persona amata.
La droga è sballo, socialità, prestazione. Ma la storia di alcuni ragazzi con Disturbo da Uso di Sostanze ci insegna che la droga è qualcosa di più. Può diventare un aiuto per raggiungere la persona amata, un modo per essere finalmente visti, accettati, apprezzati. In questi casi il rapporto con la droga si trasforma in progetto di vita: non esiste più un “io” senza lei, ma soltanto un “noi”. La narrazione personale diventa, infatti, “io e la sostanza”.
Infanzia infelice
Il primo tassello della vita di questi pazienti è la disperata ricerca di un modo per essere “visti” da qualcuno. La necessità di captare l’affetto dell’adulto, può portare un bambino a sperimentare diverse alternative. Ad esempio diventare uno studente modello, oppure un piccolo saggio che fa da genitore ai suoi genitori, oppure ancora colpevolizzarsi, per assumere su di sé le responsabilità delle sventure familiari.
Nei casi di cui stiamo trattando si è visto che alcuni bambini, una volta cresciuti, imparano a colmare la distanza tra loro e gli adulti con l’aiuto della droga.
Raggiungere l’adulto da cui non si è stati raggiunti è operazione devastante dal punto di vista emotivo, che necessita di un supporto esterno. Vedere la luce di quello sguardo, sentire che finalmente l’Altro è contento, non ha prezzo, e se questo risultato viene ottenuto con l’aiuto di una droga, (o dell’alcol, o di psicofarmaci), le conseguenze sono straordinariamente distruttive.
Il padre malato ha finalmente sorriso, ma ci sono riuscito grazie a quella sostanza che mi ha calmato l’angoscia. La madre depressa ha detto bravo, perché ho fatto tutto senza dimenticare niente, ma l’ho fatto grazie ad un bicchiere di alcol, perché altrimenti sarei andato su tutte le furie. Ecc… In queste situazioni, non sono più io a fare qualcosa, ma noi, io la mia fidata compagna/compagno.
Cortocircuito: le maschere
In questo modello, come si vede, c’è un cortocircuito. Fare qualcosa con l’aiuto di una droga non è privo di effetti collaterali. Se da un lato la droga aumenta certe prestazioni, alza le soglie della fatica, e per questo garantisce la visibilità tra i pari, dall’altro crea una dipendenza che può essere anche fisica.
Inoltre, e soprattutto, quando la narrazione è “a due”, una parte difficile del trattamento è quella delle cosiddette maschere. Nel momento in cui un individuo raggiunge l’Altro con l’aiuto della droga, e impara a raggiungere tutti gli Altri significativi con l’aiuto di una droga, imparerà giocoforza a fare sempre di più tutto quanto in questo binomio. Fino a quando sarà legittimo chiedersi: quando parlo con te, con chi sto parlando? Con te, o con voi due?
Ecco perché quando per un adulto che è stato un bambino infelice, conquistare la persona amata diventa un progetto disperato, da raggiungere a qualunque costo, la droga può rappresentare una risorsa, un alleato, un’amica. Ed è proprio in casi come questo che il Disturbo da Uso di Sostanze si incastra nell’identità profonda, nella personalità di un individuo. Con le conseguenze che si possono immaginare.
La psicosi da algoritmo
Si deve a Fabio Mellano, psicologo clinico e neuropsicologo, l’introduzione del concetto di psicosi da algoritmo. Egli definisce in questo modo la condizione di quei pazienti con deliri di riferimento, che trovano nei social network delle conferme alle loro convinzioni patologiche. Il concetto psicosi da algoritmo, però, può essere esteso a gran parte della nostra attività social.
Delirio di riferimento e algoritmo
Il delirio di riferimento è la condizione in cui una persona ritiene che un evento comune, il testo di una canzone, la pagina di un quotidiano ecc, contengano dei riferimenti diretti a lei. Il funzionamento dei social network, come vediamo tutti i giorni, si presta in maniera elettiva a questa distorsione percettiva, e ciò grazie al funzionamento dell’algoritmo.
Un social network pubblica ogni giorno miliardi di post. L’algoritmo è quel meccanismo che ci consente, una volta entrati in bacheca, di visualizzare soltanto i post che ci interessano maggiormente. Va da sé che, chi soffre di un disturbo psicotico, è particolarmente esposto a fraintendere la logica di tale funzionamento.
Nel caso rilevato dal dott. Mellano, un paziente con delirio di riferimento si era invaghito dell’attrice americana Jenna Ortega. L’ossessione per questa artista, aveva portato il ragazzo a visualizzarne in maniera compulsiva immagini e video sui social network. Il risultato era stato un delirio di riferimento, disturbo di cui, però, il giovane, non aveva mai sofferto in precedenza. L’algoritmo, infatti, aveva determinato un’esclusiva presenza dell’attrice tra i contenuti, fino al punto in cui il paziente aveva perso il contatto con la realtà. Nella fattispecie egli aveva cominciato a ritenere che, con la sua presenza, Jenna Ortega volesse comunicargli alcune cose, tra cui ad esempio il suo amore per lui, oppure dargli delle indicazioni pratiche per la sua vita quotidiana.
Fabio Mellano diede, per l’appunto, all’insorgenza di questo disturbo, il nome di psicosi da algoritmo.
Il senso del luogo
Grazie all’algoritmo, dunque, lo spazio virtuale è un contesto cucito ad hoc su di noi. La principale conseguenza è che talvolta nel social network siamo più a nostro agio che nel mondo reale.
Quando entriamo in rete, infatti, immediatamente veniamo riconosciuti, e in qualche modo il mondo si apre al nostro passaggio. Molte persone, di questi tempi, tendono a innervosirsi quando guidano nel traffico, o quando entrano in banca, o al supermercato, anche perché nessuno li riconosce, nessuno li lascia passare. Questo è certamente idiosincratico e in qualche modo spiazzante rispetto alla realtà quotidiana del web, che al contrario quando ci vede arrivare, ci abbraccia, ci capisce al volo.
Il narcisismo, se vogliamo, funziona proprio in questo modo: il narcisista non sa di essere adulato, ma si accorge quando non lo è. Così nel corso della nostra giornata passiamo più volte dal cyberspazio, fatto a nostra guisa grazie all’algoritmo, al mondo reale, in cui dobbiamo fare la coda, chiedere per favore, ecc… . Di conseguenza, non stupisce se da un lato la realtà quotidiana ci irrita, ci delude, ci deprime, mentre e dall’altro il narcisismo è condizione sempre più diffusa.
In breve, credo si possa estendere il concetto di psicosi da algoritmo coniato da Mellano, per dire che gran parte della nostra attività sui social network, in quanto determinata (segretamente) da tale funzionamento, sia caratterizzata da una forma di dissociazione e di distacco (per quanto assai transitorio) dalla realtà. In qualche modo tutta la mole di pensieri, riflessioni, convinzioni, maturati, o suscitati, dal web, e in particolare dai social network, potrebbe andare sotto la definizione di “psicosi da algoritmo”. Cosa da tenere in gran conto, quando si utilizzano i social per farsi opinioni o prendere decisioni.
TSO: il trattamento psichiatrico che difende la società, ma non aiuta i pazienti
Nessun trattamento lascia i pazienti insoddisfatti quanto il TSO. La prospettiva che mette il malato al centro delle logiche sanitarie sembra rovesciarsi in psichiatria, dove il focus è più il benessere o la sicurezza del contesto, che il malessere del soggetto sofferente.
Pazienti insoddisfatti
Per capire quanto dico basta valutare il grado di soddisfazione nei trattamenti sanitari di emergenza. A parte alcune eccezioni, si intende, la maggior parte dei pazienti che accedono al Pronto Soccorso per patologie cardiache, traumatologiche, o, come è successo durante la pandemia, gravi problematiche respiratorie, valuta molto positivamente le cure ricevute. Pazienti e loro familiari sono soliti fare regali ai medici, scrivere biglietti di ringraziamenti, mandare mail di elogi alle direzioni sanitarie. La riconoscenza per il trattamento, a parte alcuni casi di malasanità, è di solito altissima.
In psichiatria le cose vanno molto diversamente. Il paziente psichiatrico vive il TSO con un senso di fallimento individuale, e soprattutto in seguito ne conserva un ricordo negativo. Per alcuni è addirittura un’esperienza da dimenticare, di cui vergognarsi, perché si è persa la dignità. Altri invece vi hanno soltanto trovato nuove diagnosi, da curare con sempre nuovi farmaci, che i protocolli giurano essere miracolosi.
Basaglia, e poi?
Lo stigma sociale sulla patologia mentale continua ad essere forte, anche nel dopo Basaglia, al punto che la società sembra anzitutto difendere sé stessa, più che aiutare i pazienti. Prova di ciò è un caso gravissimo di cronaca in cui un paziente psichiatrico è stato inseguito nei boschi per giorni, come nei film americani dei reduci del Vietnam, accusato di aver ucciso il padre e un amico di famiglia. È stata scatenata una caccia all’uomo, al grido “state attenti, è pericoloso”, fino a quando è stato catturato. Lo stesso trattamento non viene di solito assicurato per i rei di femminicidio, per i quali, invece, valgono mille cautele, perché si sa, uno è innocente fino a prova contraria.
Il Trattamento Sanitario Obbligatorio ha una connotazione fisica, medica, come se valesse per la mente quello che vale per le ossa, il cuore o i polmoni. Il malessere mentale viene identificato con il malfunzionamento di una parte del corpo, la testa. La psichiatria contiene, rallenta, spegne, ma non resetta, perché alla fine del TSO il malessere non è stato cancellato.
Il supporto psicologico in psichiatria è considerato un accessorio, un abbellimento, ma non il cuore della cura, che, per l’appunto, è esclusivamente contenitiva. Ecco allora quale dovrebbe essere la vera svolta del post Basaglia, l’innovazione che i protocolli dovrebbero prevedere per approcciare casi resistenti a qualunque farmaco.
Certo, la psichiatria dovrebbe perdere il primato, dovrebbe condividere con altri, gli psicologi, scelte, approcci, modalità di intervento. E sopratutto dovrebbe allontanarsi un po’ dal suo totem per eccellenza, da quella coperta di Linus rappresentata dallo psicofarmaco. Allora ci possiamo chiedere: la psichiatria è pronta per questa svolta?
Come aiutare il paziente psichiatrico? Il contenimento generativo
Nel trattamento del paziente psichiatrico, in psicoterapia individuale, o in una struttura psichiatrica residenziale, si tende a fare un uso improprio del rimando di realtà. Questa è una delle ragioni per cui alcuni risultati vengono raggiunti in maniera parziale e momentanea, ossia perché il paziente trova il modo corretto di rispondere alle richieste, ma senza avere interiorizzato una nuova struttura di pensiero.
Esame di realtà
Rimandare costantemente dati di realtà al paziente psichiatrico è fuorviante e controproducente. La sua struttura mentale, (almeno in un primo momento), non è in grado di sostenerla, anzi possiamo dire che la sua sintomatologia è proprio una costruzione reattiva alle minacce che sente provenire dal mondo esterno.
Poiché dal punto di vista emotivo il paziente è sensibile a chi si occupa di lui, può avvenire che nello sforzo di evitare l’abbandono da parte del curante egli cominci a mostrare dei miglioramenti. Tuttavia si nota che le reazioni del paziente ai rimandi di realtà continuano a essere di due categorie. Da un lato può offendersi perché si percepisce come “preso in giro”, dall’altro si sente svilito in quanto “non capito”.
La conseguenza è che al primo colpo di vento il castello di carte crolli in un istante. In questo caso alla frustrazione del paziente, che torna a farsi del male o a ripensare alla morte ecc… , si aggiunge la frustrazione dei curanti, talvolta affrontata con difese narcisistiche molto rigide, del tipo “con questi pazienti il lavoro è sempre inutile”, oppure “ecco i danni che fanno servizi territoriali inadeguati”, ecc…
Contenimento
Il fallimento dell’integrazione degli sforzi terapeutici con la struttura interna del paziente riflette il fallimento di un’altra integrazione, quella con le prime cure parentali. Il paziente psichiatrico è molto spesso perseguitato dal fantasma del rigetto, come se avesse sentito da sempre intorno a sé un ambiente insufficientemente adeguato alle sue necessità.
Molti pazienti hanno una storia di tentativi di adeguamento alle aspettative ambientali, tentativi sempre puntualmente naufragati, per le ragioni più diverse. Di conseguenza ne possiamo ricavare che l’esame di realtà non è in grado di aiutare i pazienti, se ad esso non si associa una forma di contenimento generativo. Ossia se non si aiuta il paziente a pensare il mondo in modo diverso da come ha sempre fatto.
Se l’ambiente originario ha rigettato il paziente in quanto bambino non desiderato, o non conforme alle aspettative, diventa proprio questo l’obiettivo del percorso di cura.
Fornire una nuova esperienza emozionale e mentale, in grado di preparare (da capo) il paziente ad affrontare il mondo, a partire dalle sue dotazioni di base e dalle sue caratteristiche personolgiche.
Questo è evidentemente un lavoro più lungo e travagliato di quello con pazienti il cui l’esame di realtà è integro, ed è giocoforza un lavoro fortemente esposto ad errori e regressioni. Ma è senza dubbio un approccio più maturo al trattamento di pazienti psichiatrici o a “doppia diagnosi”, ossia quei pazienti che fino a qualche anno fa non venivano neppure approcciati nella cura, perché ritenuti troppo gravi.
Società di massa borderline
Odio, rabbia, aggressività, sono sempre di più la cifra della società in cui ci muoviamo. L’insoddisfazione ci circonda, ma diversamente dal passato, ed è confermato da tutte le statistiche, invece di reagire in maniera propositiva, costruttiva, reagiamo distruggendo. Anzitutto a parole, ma non solo.
Frammentazione
La frammentazione dello spazio politico, sociale, economico ha determinato una frammentazione dell’identità. Non tanto e non solo nei termini in cui Ferenczi definiva la frammentazione interna (e inconscia) di parti scisse, sovente di origine traumatica; ma una frammentazione in parti distanti e difficilmente riconducibili a unica identità.
Prendiamo la politica, per esempio. Un tempo gli schieramenti erano netti e definitivi, ed esserne parte garantiva anche un sostegno all’identità. C’erano le sezioni sul territorio, i giornali, le reti tv con programmi dedicati, ecc…tutto questo aiutava anche a definire la propria identità. Oggi la politica è ultra frammentata, ed è molto più difficile identificare un progetto di appartenenza. Anzi, il partito del non voto ci dice che sono sempre meno quelli che si identificano in un progetto politico.
Lo stesso vale per la religione e il rapporto con il sacro. Le chiese si svuotano, ma non c’è un travaso altrove. Le nuove generazioni praticano un blando ambientalismo, ma è ancora troppo poco, e poi ammetterete che l’impatto sull’identità individuale dato da un’appartenenza religiosa, non lo possa dare (almeno ad oggi) una filosofia ambientalista, per radicale che sia.
Potrei fare altri esempi, come il clima impazzito, l’ascensore sociale, o il rapporto con i poveri del mondo, ma direi che ci siamo capiti. La frammentazione, lo spezzettamento, del contesto in cui ci muoviamo slabbra, di conseguenza, la nostra stessa identità: ci sfugge lo sguardo d’insieme, fatichiamo ad avere il controllo sulle variabili, aumenta il senso di impotenza.
Professione hater: verso un mondo borderline?
Così prendono il sopravvento l’irritabilità, il livore, la rabbia. Si è persino diffusa una figura che un tempo non esisteva: lo hater, l’odiatore. Vomitare perenne insoddisfazione, e poi odio che diventa scoppio d’ira, quando meno te lo aspetti. Ai semafori, in assemblea di condominio, a scuola. Affrontare la frustrazione distruggendo, anzitutto a parole, ma non solo, però, rasenta la forma patologica che conosciamo nei nostri reparti, il disturbo borderline di personalità.
La coesione del sé, negli anni dello sviluppo, va di pari passo con l’aumento delle competenze intellettive superiori, quelle che ci aiutano a generare strategie vincenti.
Ecco una grande differenza rispetto al paziente con sindrome borderline. Il borderline ha un sé frammentato, ma non ha sviluppato la capacità di individuare modalità costruttive, evolutive, di risposta al suo malessere. Infatti sovente è incappato nella tossicodipendenza, nella farmacofilia, oppure in comportamenti a rischio, ecc.
L’individuo con identità frammentata, ma che non ha ancora una personalità borderline, ha invece la capacità di individuare strade alternative. Ecco la direzione che dobbiamo seguire. La collettività sta scivolando verso la condizione borderline. Ma ritengo che ci sia ancora spazio per recuperare il senso di smarrimento dato dalla frammentazione sociale, e invertire la rotta dell’odio per l’odio, per tornare ad una prospettiva evolutiva. Ossia trasformare la rabbia in proposta, in azione costruttiva. Nessuno dice che sia facile, ma l’alternativa potrebbe essere il baratro.
Web e psichiatria: la patologia mentale ai tempi di Internet.
Il web ha cambiato molto anche la patologia psichiatrica. Se in un precedete contributo ho segnalato una progressiva ‘frammentazione’ del sé dell’uomo contemporaneo, in parte anche a seguito della diffusione di Internet, evidenze cliniche mi portano a ritenere che nella sofferenza mentale stia avvenendo l’esatto opposto: le opportunità del web aiutano i nostri pazienti a compattare il loro psichismo.
Su Internet i pazienti trovano conferme alle loro tesi e incontrano persone con interessi simili: questo certamente significa un irrigidimento delle strutture mentali, ossia (in teoria) l’opposto della guarigione, ma essi hanno l’illusione di essere più padroni di loro stessi, più protagonisti del loro tempo, in definitiva più integrati nella società (che biasimano).
L’utilità paradossale del delirio
Personalmente sono convinto che il sintomo abbia un significato, e il trattamento non debba ridursi alla cura del sintomo, ma comprendere e cambiare le ragioni che hanno portato alla formazione di quel sintomo. Facciamo un esempio: una persona vicina al matrimonio sviluppa un disturbo da attacchi di panico. Grazie al contributo dei farmaci (molto importanti) migliora, ma se non si chiede per quale motivo ha sviluppato la sintomatologia proprio in prossimità delle nozze, potrebbe superare il problema solo parzialmente.
In ambito psichiatrico le cose stanno all’incirca nello stesso modo: la sintomatologia ha (il più delle volte) un senso nella storia del paziente. O comunque ha un senso l’attaccamento che quel paziente ha a quel particolare disturbo, il perché egli non riesca a superarlo. La sintomatologia garantisce un equilibrio, patologico, sofferente, ma pur sempre un equilibrio, che in altro modo potrebbe venire meno.
Un altro esempio potrebbe essere questo. Un giovane insiste nel ritenere che da bambino veniva ripetutamente rapito dagli alieni, e che durante questi rapimenti, condotto su una navicella spaziale, gli alieni facevano esperimenti sul suo corpo. In seguito, crescendo, egli si è sentito investito di una tale o talaltra responsabilità, per cui, poniamo, sia a conoscenza della presenza aliena tra noi, ma che debba tollerarla o favorirla per il bene comune, o per una qualche altra motivazione. Supponiamo ora che nel corso del trattamento emergano ricordi traumatici che fanno pensare ad abusi sessuali infantili da parte di alcuni vicini di casa. E supponiamo ancora che si scopra che fu in seguito alla visione di un cartone animato che il bambino cominciò a costruire una verità alternativa. Ecco, secondo voi era più bella o no la storia degli alieni?
Quindi attenzione ad aggredire il sintomo psichiatrico, perché la sua utilità potrebbe essere paradossale. Mentre nel caso degli attacchi di panico prima del matrimonio è auspicabile una forte alleanza tra terapeuta e paziente contro la sintomatologia, perché interesse di entrambi è che il paziente la superi al più presto, le cose stanno in maniera molto diversa in ambito psichiatrico.
Il paziente psichiatrico è talvolta affezionato, legato, al suo quadro. Lo difende a spada tratta, non è disposto a riconoscerlo come patologico. In questi casi non è funzionale tentare in ogni modo di smuovere questa posizione, perché è difensiva. Può darsi che un paziente non si senta ancora pronto per prendere coscienza di certe cose, e potrebbe essere deleterio insistere.
Internet: tutte le risposte
Il web è la democrazia delle idee. In rete tutte le idee hanno pari dignità, pari visibilità, e soprattutto possono venire reperite in ugual modo. Tutte, non importa che siano giuste o sbagliate, pertinenti o no, realistiche, verosimili, fantasiose ecc… . I pazienti navigano in rete, e come leggono le nostre pubblicazioni, leggono anche i contributi di chi conferma le loro teorie, quali che siano. Questo aspetto è fondamentale per farli sentire cittadini di serie A. Perché, questo è un tema enorme nel mondo psichiatrico, troppo spesso il paziente si vive come un cittadino di serie B, un diverso. Ed è proprio la società a farlo sentire diverso, e non solo perché a volte lo mette sotto tutela. E’ incredibile, ma il paziente cardiopatico, o diabetico, ecc … non è così avulso dal contesto sociale come quello psichiatrico.
Questa dunque la mia tesi: rispetto a quelli del passato, i nostri pazienti, grazie ad Internet, sono un po’ più coesi al loro interno, più integrati in un ingroup di amicizie e conoscenze, e nel complesso, di conseguenza, si sentono meno ghettizzati. Proprio perché facendo rete, costruendo un ‘noi’ contro di ‘loro’ si danno man forte a vicenda. La conseguenza, sia chiaro, come ho già detto, è l’irrigidimento delle loro difese, ovvero un allontanarsi dalla guarigione, come verrebbe immaginata dai curanti. Ma credo che non sia un’eresia affermare che nell’epoca di Internet i pazienti psichiatrici siano più felici di quando nei manicomi erano confinati al pianterreno, e l’unico contatto con l’esterno erano le visite dei parenti al sabato. Basaglia docet.
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