L’autosabotaggio

L’autosabotaggio seriale è la conferma di un’ipotesi su di sé. 

Alcuni individui attuano regolarmente comportamenti che fanno saltare piani ormai conclusi: sono i peggiori nemici di loro stessi. 

Questi individui sono scissi tra due o più idee che li riguardano: si tratta di teorie che si escludono a vicenda, e che pertanto sono fonte di travaglio e sofferenza.

(Preciso che sto parlando dell’autosabotaggio seriale perché un singolo evento di autosabotaggio potrebbe essere un fatto di autodifesa, come un lapsus o un atto mancato, ma è fatto più raro, e dal mio punto di vista non patologico, non patogeno, non degno di particolare attenzione.)  

‘Io non sono capace’

Una di queste teorie recita cose del tipo: ‘tu sei un buono a nulla’ oppure ‘chi ti credi di essere, non sei nessuno’ o ‘non sei mai stato capace di fare cose di questo tipo’ ecc… Si tratta di teorie che negano il valore individuale, sono svalutanti o denigranti. Questa narrazione interna convive, da qui arriva il disagio, con un’altra (o più d’una) che al contrario è positiva, che sottolinea la forza e la competenza dell’individuo, che afferma la sua bravura o abilità in qualche ambito. Queste due (o più) teorie, come si vede, non possono convivere. Se intendo, poniamo, scalare una montagna, ma dentro di me c’è un’idea fissa che dice ‘non ci riuscirai mai, chi ti credi di essere’, e al contempo ce n’è un’altra che dice ‘sei bravissimo, ce l’hanno fatta in molti, puoi farcela anche tu’, a chi devo dare ascolto? Se riuscirò nell’impresa dovrò sconfessare una delle due, se non ci riuscirò dovrò sconfessare l’altra. 

Identificazione inconsapevole

Gli autosabotatori hanno sovente avuto un genitore svalutante, violento/aggressivo o denigrante/infamante. (Dico genitore ma intendo caregiver o Altro significativo, non è necessariamente detto che si tratti di un genitore, anche se per lo più è così.) 

La deprivazione affettiva, la spoliazione, o l’intrusione parentale realizzata dal genitore (suo malgrado, molto probabilmente) ha condotto il figlio ad una sorta di identificazione inconsapevole. Il figlio prende le distanze dal genitore, talvolta in maniera netta, se non violenta, ma ne è invaso: la sua identità ne è costituita, la sua personalità ha fatto proprie le teorie del genitore svalutante

L’identificazione inconsapevole con il genitore deprivante, elemento costitutivo  degli spoilt children, è alla base dell’autosabotaggio. 

Il progetto di vita dell’autosabotatore deve essere cambiato anzitutto estraendo dalla sua personalità, dalla sua narrazione interna, la parte costituita da quel ‘tu non sei capace’ che non gli appartiene, e che è frutto del troppo amore che egli ha avuto per quel genitore inadeguato, ma col quale egli è così fortemente identificato. 

La notte dell’Heysel: trauma e narrazione

La tragedia 

La sera del 29 maggio 1985 si consumò una delle più grandi tragedie del calcio italiano. Poco prima della finale di Coppa dei Campioni tra la Juventus e il Liverpool, un muro interno dello stadio Heysel crollò sotto il peso del pubblico, provocando 39 morti e almeno 600 feriti. 

Nella memoria collettiva di chi quel giorno era allo stadio, e di chi invece era solo lontano spettatore, quella vicenda venne registrata come un autentico trauma

Il trauma 

Migliaia di appassionati faticano ancora oggi ad avere un pensiero critico riguardo questa storia drammatica. Si dividono tra tifoserie scambiandosi critiche, accuse, veleni come se chi hanno davanti fosse in qualche modo responsabile dell’accaduto. 

Questo significa, evidentemente, che sono stati segnati da molto vicino: ossia che non sono ancora riusciti a elaborare la tragedia e sistemarla in qualche cassetto della mente. 

Il trauma dei presenti sopravvissuti sta tutto nelle immagini e nelle storie che abbiamo visto, sentito e risentito. Un tempo senza smartphones, in un paese straniero, con una lingua straniera. Nessuna organizzazione, tassisti arroganti, riconoscere i morti nelle tende di notte con l’aiuto di torce.  

E poi c’è il trauma di chi guardava in tv. Ritengo che l’aspetto che abbia favorito la registrazione traumatica sia stato da un lato l’esposizione non mediata all’evento. La tv quella sera ha fatto da finestra aperta sullo stadio. Se sotto casa c’è un incidente, per non vederlo devi chiudere la finestra: allo stesso modo quella sera gli spettatori avrebbero avuto come unica alternativa quella di spegnere gli apparecchi. Questo mi fa pensare, per esempio, a quei bambini che sono testimoni di atti violenti a casa, magari compiuti anche ai loro danni. Dover guardare impotenti senza poter fare o dire niente, perché non è previsto. Se ci pensate è la stessa cosa che è avvenuta la notte dell’Heysel: spettatori impotenti davanti ad una finestra.

Dall’altro lato, un secondo aspetto che ha favorito la registrazione traumatica, è stata la mancanza di preparazione della regia televisiva, che non è stata in grado di fornire una lettura ‘digerita’ al pubblico. 

Superamento del trauma e lettura narrativa 

Inserire un evento traumatico in una narrazione integrata della propria storia è la chiave per superarlo e non restarne vittima. 

Quello che è mancato a molti spettatori della notte dell’Heysel è la ricostruzione a posteriori: non tanto dell’evento in sé, quanto delle loro personali reazioni emotive e cognitive. Il sensazionalismo dei media, questo sì deprecabile, e molto, ha soffiato sul fuoco dell’evento mediatico, cavalcando la polemica tra le fazioni, e non accorgendosi che non sempre dire tutto quello che si può è meglio che dire quello che si deve.

Porre domande del tipo: ‘Cos’altro avrebbero potuto fare gli organizzatori?’ O ‘Cos’altro avrebbero potuto fare le società, i giocatori, gli spettatori sopravvissuti?’ Avrebbe certamente aiutato gli italiani a razionalizzare, ossia a trasformare una tempesta emotiva in pensieri, progetti, azioni. Ma non è stato fatto, e del resto non ci si può aspettare analisi, pensiero, restituzione da chi passa la vita a descrivere la polvere, senza mai chiedersi che cosa l’abbia provocata.

Non so se parlando della tragedia dell’Heysel sono riuscito a dire qualcosa che ancora non era stato detto. Sicuramente, però, sono riuscito a parlare del trauma, e di come anche un evento della vita quotidiana, se non correttamente elaborato, può diventare un insuperabile trauma personale e collettivo. 

Cancro del seno: il femminile e la sua immagine

Il femminile vilipeso

Il tumore del seno colpisce nel corpo e nella femminilità. Il tipo di imbarazzo che la donna vive nel suo rapporto con l’altro (altra) in seguito a questo tipo di malattia va ben oltre la menomazione fisica. Entra nel profondo del suo femminile, ha a che fare con la sua Femminilità. 

L’offesa del seno può diventare vilipendio all’intero essere donna: per questo non basta che la paziente sia preparata o sostenuta, è tutto il mondo che le gira intorno che deve essere pronto, che deve sapere come reagire. 

L’immagine del femminile 

Sappiamo che la costruzione del femminile è un processo evolutivo/individuativo che comincia ben prima dell’adolescenza, e termina (se mai termina) con l’età adulta.  

L’immagine che la donna si costruisce di sé è una difficile sintesi tra i rimandi avuti dalla famiglia di origine, i condizionamenti della società, le lotte di potere/consenso nel gruppo delle pari in adolescenza, le restituzioni avute nelle relazioni affettive e infine il negoziato che lei stessa è riuscita a compiere tra il suo sé ideale e il suo sé reale. Il cancro al seno può scardinare questo impianto. Abbatte l’immagine del femminile e la sostituisce con quella del peggiore degli incubi: sono brutta, non piaccio, non piaccio anzitutto a me stessa. 

Lo sguardo dell’altro

E poi arriva l’Altro. In genere siamo troppo abituati a non guardare le ferite, a distoglierne lo sguardo. Abbiamo la tendenza a evitare che il nostro occhio si fermi su ciò che è lacerato, lesionato, soprattutto se sappiamo ancora dolente.

Vale anche per le ferite psichiche. Cerchiamo di non parlarne, facciamo finta di niente. Ma così facendo peggioriamo le cose: perché ignorare una ferita non equivale a rimuoverla. Anzi continua a far soffrire, forse ancora di più. 

Così la donna ferita dal cancro al seno ha di fronte a sé qualcuno che fa finta di niente, che sorvola, che non commenta. Ed ella vede crollare anche un’altra immagine: quella che le arriva dagli occhi altrui. Perché lo sguardo dell’altro può ferire più della propria stessa coscienza. Il peggiore degli incubi si arricchisce così di una prova ulteriore: non piaccio a chi mi ama.

Ecco allora quale può essere il ruolo dell’Altro, ciò su cui deve essere educato: la donna che ha sconfitto la malattia deve sentire di avere vinto. E chi le sta vicino deve sapere amare ognuna delle sue ferite: perché esse faranno parte integrante, d’ora in poi, della sua nuova immagine. 

Bambini: comunicare la malattia di un genitore?

Infanzia e malattia

Due termini a tutta prima in contrapposizione, o che almeno fatichiamo a leggere associati. Tratterò altrove il tema della malattia del bambino, dell’angoscia di perderlo ancora prima di averlo trovato del tutto, e di vederlo sfiorire tra difficoltà e sofferenze. E di quel contesto ‘tra i due mondi’ che circonda le famiglie dei bambini malati, in cui si rincorre una parvenza di normalità, pur sapendo che è solo finzione. Vorrei ora parlare della malattia del genitore, ovvero di quando è il genitore a sapere di avere poco tempo, e che vorrebbe fare con il bambino più cose di quelle che alla fine, giocoforza, riuscirà a fare. E a dire. Ma le condizioni di salute non lo permetteranno. 

Il bambino davanti al dolore

Molti adulti cercano di lasciare il dolore fuori dal mondo del bambino. E’ una forma di protezione, non c’è dubbio, fatta con le migliori intenzioni. Ma tenere il bambino all’oscuro delle condizioni di salute di un genitore non è una buona idea. ‘Non diciamo questa cosa perché potrebbe spaventarsi’. ‘Non facciamo quest’altra cosa perché potrebbe preoccuparsi’. Eccetera. 

Questa premura può avere almeno due tipi di conseguenze. 

Una conseguenza fattuale, concreta, ma direi alla fine dei conti relazionale, è che se il genitore non dovesse superare la malattia, l’incidente, ecc… l’evento resterebbe fuori dall’esperienza e quindi dal ricordo del bambino. Un paziente mi raccontò una volta: ‘La notte in cui morì mia madre andai a letto come tutte le sere, al mattino mi dissero che la mamma non sarebbe più tornata a casa.’ Un altro ricorda così la perdita del padre: ‘Mi dicevano di stare tranquillo, che papà sarebbe tornato. Poi un giorno mi portarono in una chiesa, ricordo solo che tutti piangevano.’ Questi sono casi di bambini a cui non è stata comunicata la realtà delle cose, e non hanno memoria degli eventi. Come si vede, però, la memoria del trauma resta, eccome. Soltanto che il trauma non riguarda la perdita del genitore, l’evento della scomparsa in sé, ma eventi accaduti nei giorni successivi. 

‘Il bambino non deve preoccuparsi, spaventarsi, o essere terrorizzato’. Ma se la mamma, poniamo, è stata investita da un autobus, o ha una grave malattia, e non farà ritorno a casa, il terrore, l’angoscia, la preoccupazione sono più che legittimi. 

Ritengo che in alcuni casi il bambino possa e debba essere esposto alla preoccupazione, possa e debba essere posto davanti al dolore.

La seconda conseguenza, più clinica, diciamo così, o personologica, è il narcisismo

Abituare un bambino a non essere scosso neppure davanti alla possibile morte di un genitore, è molto pericoloso. Lo si allena a questo tipo di equivalenza: ‘io sono importante, il mio equilibrio è importante. Perciò non mi angosciate, non mi spaventate, perché altrimenti potrei soffrire’. Insegnare ad un bambino che le cose del mondo, anche le più gravi, non devono disturbare la sua quotidianità, perché le sue esigenze sono prioritarie, può essere controproducente. La protezione può favorire il narcisismo, ossia venire fraintesa. 

Allegorie

Per queste ragioni credo che la malattia, il dolore, la sofferenza debbano entrare nel mondo del bambino: con tutte le cautele possibili, non c’è dubbio, ma ci debbano entrare. Un’alternativa può essere grazie ad una storia, o con l’utilizzo di un’allegoria. 

E’ giusto che i bambini abbiano memoria dell’ultima volta in cui videro un genitore, delle ultime parole che ci scambiarono, dell’ultima cosa che pensarono a suo riguardo. 

Pink Floyd: Rock o esistenzialismo?

Se una parte considerevole dell’opera dei Beatles è condizionata dalla presenza di Yoko Ono, una parte altrettanto considerevole dell’opera dei Pink Floyd ruota intorno all’assenza di Syd Barrett. 

Mi riferisco alla fase degli anni Settanta che va da ‘The dark side of the moon’ a ‘The wall’, non a caso quella che ha costruito le basi per il taglio finale

Esistenzialismo

Tra i mille temi toccati dai Pink Floyd nella loro enorme produzione, (e qui vanno considerate anche le carriere individuali) l’esistenzialismo ha certamente un ruolo considerevole. L’esistenzialismo dei Pink Floyd è di tipo umanista, direi anzi relazionale. Nell’arte dei Pink Floyd sembra che ci sia un’ombra, una presenza silenziosa, quella di Syd Barrett. Va tenuta in conto se si vogliono ben comprendere i loro brani straordinari. 

I Pink Floyd riflettono sul denaro, sulla politica internazionale, sulle eclissi lunari: ma queste riflessioni muovono da un’unica grande, malinconica, considerazione. Un bisbiglio, ma che vale quanto un intero progetto artistico: ‘How I wish, how I wish you were here.’ (‘Come vorrei, come vorrei che fossi qui.’)

Una considerazione esistenzialista, che è anche psicoanalitica: apre al riscatto dalla disperazione del nulla, sì, dal nichilismo, che in quegli anni tanto andava di moda. I Pink Floyd (senza volerlo?) abbracciano Sartre, Lacan e Julia Kristeva, in un progetto di promozione e rifondazione dell’Umanesimo. Perché se dopo Lacan posso dire: cosa sono io senza l’altro? Allora posso anche dire: cosa sono i Pink Floyd senza l’Altro? 

The Trial, il processo

Uno dei momenti più densi di significato, ma anche di sofferenza, della storia dei Pink Floyd è il processo di ‘The wall’. Dopo una vita di rovello interiore, di disagio, di incomprensioni da parte di chi lo circonda, Pink, il protagonista della storia, attraversa una grande crisi esistenziale. Gli autori del brano per salvarlo inscenano un processo, drammatico e caricaturale allo stesso tempo. L’imputato è stato colto in flagrante a mostrare sentimenti quasi umani, e questo non è previsto dal modello sociale. 

Il processo è un condensato dell’esistenzialismo dei Pink Floyd: dalla sua esecuzione, alla sua paradossale conclusione. 

Guardiamolo da vicino. Vengono chiamati a testimoniare in sequenza il maestro elementare,  la moglie, e la madre dell’imputato. 

Il maestro copre Pink di improperi, e attacca il sistema: ‘se fosse stato per me, signor giudice, l’avrei raddrizzato sin da piccolo: ma si sono messi in mezzo artisti e cuori teneri. Permettetemi un’ultima martellata, almeno oggi.’ 

A udire queste parole Pink rasenta la follia: possibile che nessuno capisca il suo dolore, che nessuno si renda conto? 

Arriva a testimoniare la moglie. Nella più classica tradizione di incomunicabilità matrimoniale, la moglie fa a pezzi Pink davanti a tutti: ‘con me non hai mai parlato, sei un rovina famiglie, spero gettino via la chiave.’ 

Infine arriva la madre. La donna urla il suo strazio, ma anche lei accusa il figlio: ‘se non mi avessi mai lasciata non ti saresti messo in pericolo.’

I Pink Floyd letteralmente qui aprono il baratro sotto i piedi del processato, che ormai preda della disperazione delira e crede di essere in carcere. 

Abbattere il muro

Ad un tratto, ecco la svolta esistenziale, anti nichilista, relazionale, diciamo pure rivoluzionaria, dei Pink Floyd: viene espressa per bocca del giudice. Egli è talmente disgustato dalle parole dei testimoni che dichiara: ‘qui non c’è nessun dubbio, la pena deve essere massima’. Con gran sorpresa, però, la pena inflitta dal giudice è l’abbattimento del muro. 

Abbattere il muro: quel muro difensivo che Pink si è costruito giorno dopo giorno, (‘Another brick in the wall’) durante tutta la sua adolescenza, significa uscire, tornare alla relazione, cercare l’altro. (O l’Altro? – Syd Barrett – Questo non lo sapremo mai.)

E uscire per tornare alla relazione è l’unica vera alternativa alla follia, e oggi lo sappiamo molto bene. Per questo ‘The Trial’ è la riscossa dalla dannazione, il rifiuto della relazione malata, tossica. Uno scatto della vita, prima della vera malattia mentale: la morte interiore.  

Inoltre in quegli anni il mondo era diviso da un muro: per questo la lezione esistenzialista dei Pink Floyd, quel ‘Tear down the wall’ ha una portata che va ben oltre i confini di un album musicale.

Ma in questo sta la grandezza dell’arte: che ogni volta sa stupire e dire cose diverse. 

L’abbandono e le sue implicazioni

Quando l’abbandono descrive la ripetizione di un trauma passato è certamente più doloroso e difficile da superare. Quelle che chiamiamo le separazioni premature, o perdite precoci (early losses) scavano nell’individuo una solitudine carica di ansie, angosce e sensi di colpa.

All’inizio, come diceva Freud, un bambino sceglie una figura di riferimento e la investe di energie vitali, per orientarsi nella crescita e identificarsi in un modello vincente. Quando la perdita riguarda questa figura fondamentale il bambino si trova davanti al baratro dell’ignoto. A questi bambini può servire molto tempo per definire la propria identità senza una figura simile, ma la cosa peggiore è che quando nella loro vita vivranno un altro abbandono (non fatevi illusioni, ci passiamo tutti) la ripetizione potrà scatenare i fantasmi di un tempo. O se preferite la metafora neurologica, l’attivazione di quelle aree sottocorticali potrà fare emergere le stesse sensazioni della separazione originaria.

Una seconda implicazione è quella della teoria su di sé. Quando l’abbandono viene letto attraverso la lente della colpa, ovvero ‘Sono stato abbandonato perché non sono abbastanza buono, ho fatto qualcosa di sbagliato’ o simili, la ripetizione dell’abbandono riattualizza la teoria su di sé. Una teoria su di sé è talvolta una narrazione interna silente e preconsapevole, un insieme di sensazioni non del tutto esplicitate che conducono però a conclusioni rigide e definitive del tipo ‘Se anche questa volta sono stato abbandonato, allora è proprio vero che non valgo, non sono degno di amore’ e simili. Questo tipo di narrazione interna basata sulla colpa può condurre l’individuo a percorrere strade diverse: da quelle riparatorie, (ad es. volontariato) a quelle che mirano a colmare o spegnere il vuoto (shopping compulsivo, dipendenze, e simili).

Ripetizione della perdita precoce e riattivazione di una certa teoria su di sé sono pertanto due delle principali implicazioni dell’abbandono.

Ce ne sono altre, ma le metterò a fuoco in un secondo momento.

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