La cura dei disturbi alimentari

Anoressia, bulimia, e gli altri disturbi della condotta alimentare sono in genere collegati a vissuti profondi di angoscia, inadeguatezza, o instabilità della percezione di sé. 

Di conseguenza, nel loro trattamento, il rapporto con il cibo è soltanto il punto di partenza, mentre il lavoro vero riguarda proprio i sentimenti cronici di depressione e vuoto esistenziale che attanagliano queste persone. 

Intelligenza e negazione

Il disturbo alimentare si associa in genere a due aspetti che complicano (o allungano) il trattamento. L’intelligenza dei pazienti, in genere sopra la media, e la loro resistenza. 

Gli anoressici sono individui estremamente intelligenti. La capacità di architettare, e mantenere, una condotta alimentare, necessita di competenze cognitive superiori, così come di una determinazione fuori dall’ordinario. I bulimici, poi, sono persone che attuano bulimia in ogni loro comportamento, per esempio “divorano” libri, oppure “divorano” relazioni affettive o amicali, ecc… . 

La cura dei disturbi alimentari, pertanto, è anzitutto un rapporto di forza con individui molto intelligenti, fieri, che difendono le loro posizioni, e di conseguenza il loro sintomo, con tutta la determinazione di cui sono capaci. 

Il secondo aspetto, perciò, è la negazione. La forma di resistenza attuata da individui ben strutturati, e con grandi capacità cognitive, è quella di respingere ogni riferimento al loro problema. Se il paziente fobico soffre maledettamente quando ha un attacco di panico, e vorrebbe che non tornasse mai più, se il paziente depresso detesta con tutto se stesso quei periodi di buio, in cui deve disconnettessi dal resto del mondo, il paziente alimentare tende a negare sempre tutto, non c’è nessun problema, io sto benissimo. 

Cibo e Orgoglio

Senso di abbandono, solitudine, tristezza, sono sovente i compagni di viaggio di una vita del paziente con disturbo alimentare. Ma, come si vede, anche il suo orgoglio lo è. Non avere potuto esprimere le difficoltà, le sofferenze, i momenti di sconforto, ha portato questi individui a chiudersi nel loro silenzio, in una riservatezza in cui ha accesso soltanto il loro cibo. 

La cura del disturbo alimentare, quindi, soltanto in una prima fase ha per oggetto il cibo e la sua gestione. Perché ad un livello più profondo si occupa della solitudine atavica di questi pazienti, del vuoto interiore che cercano di riempire con il cibo, o di cui negano l’esistenza con il digiuno. Ossia, in via definitiva, si occupa dell’orgoglio dietro a cui essi hanno imparato a nascondersi, dopo essere stati troppo a lungo inascoltati. 

Separazione, divorzio, tradimento: come sopravvivere?

Il tradimento ferisce il nostro valore individuale. Essere traditi, abbandonati, sostituiti, soprattutto da chi amiamo, intacca la percezione di amabilità personale, ci espone alle domande più profonde riguardo chi siamo e se abbiamo valore per gli altri. 

Quanto valgo?

Tuttavia di fronte al tradimento è bene fare alcune considerazioni. Anzitutto il tradimento intacca il senso di valore personale, ma soltanto se ne abbiamo. Non veniamo tutti feriti in ugual misura dal tradimento. 

La reazione a come veniamo trattati dagli altri ha a che fare con le nostre aspettative, e se ci aspettiamo rispetto, amore, fedeltà, in genere è cosa positiva. Intendo dire che solo chi non ha grandi aspettative, soffre poco quando viene abbandonato, o anzi è egli stesso a lasciare, o tradire. 

Le aspettative nei confronti dell’altro nascono dalle prime relazioni, ossia dall’ambiente in cui siamo stati accuditi da bambini. Se siamo stati accuditi con cura, attenzioni, rispetto, molto probabilmente siamo predisposti a soffrire di più se abbandonati o traditi. 

Quanto vale l’altro?

Soffrire per l’abbandono è un atto egoistico. Vorremmo non essere lasciati, in ossequio al valore che sentiamo di avere, valore però, che non vorremmo riconoscere all’altro, a cui stiamo stretti. Se una persona ci chiede libertà, è perché ha bisogno di qualcosa di diverso. 

Nelle relazioni affettive, poi, tendiamo a essere possessivi a senso unico. Perché è cosi difficile lasciare andare? Anche questa è una matassa da dipanare: molte volte il tradimento non è un fulmine a ciel sereno, è stato preceduto da segnali che però abbiamo voluto ignorare. Per quale motivo? 

Quando le relazioni si incagliano, diventano una tortura per entrambi, per questo non dobbiamo temere di guardare il vero significato del tradimento o dell’abbandono

Il lavoro con le persone che hanno subito un tradimento, o hanno alle spalle una separazione, non è semplicemente quello di aiutarle ad adattarsi alla nuova situazione. L’adattamento, qui, sarebbe qualcosa di regressivo. 

L’analisi va spostata sui significati che attribuiamo, da un lato alla relazione di coppia,  dall’altro all’attaccamento, e alle sue implicazioni. 

Il punto, in altre parole, non è sopravvivere ad una separazione, ma come trasformarla in una rinascita. 

Il sogno dell’infanzia: è del bambino, o dell’adulto che se ne prende cura?

Tutti abbiamo avuto un sogno durante l’infanzia. C’è chi ha sognato di correre in Formula uno, chi di fare il cardiochirurgo, chi addirittura di diventare Vescovo, Papa o comunque un alto prelato. Poi siamo cresciuti, e per alcuni di noi quei sogni sono svaniti, come la foschia nelle mattine d’estate, o sono stati sostituiti da altri sogni. Viene così da chiedersi: di chi era quel sogno, e perché tutto ad un tratto è sparito?

Il desiderio altrui e il suo soddisfacimento

Molto spesso il sogno dell’infanzia non è del bambino, ma è ispirato dall’adulto. E’ una costruzione dell’adulto, potremmo dire un baco, un seme, che l’adulto mette nella mente ancora in formazione del bambino. Potrebbe trattarsi di una fantasia emozionale di un genitore, per esempio la madre è innamorata di un attore famoso, e insiste col piccolo affinché da grande diventi un divo del cinema. Oppure potrebbe essere un desiderio di riscatto sociale: fare un lavoro di rilievo in cui non si debba chiedere a nessuno, ma soltanto ricevere, o che sia molto remunerativo. Oppure ancora potrebbe essere la fantasia maniacale del superamento di un handicap, come una malattia. Un parente è molto malato, e i genitori istillano nel bambino il sogno di diventare un medico importante, che sappia trovare la cura per questa persona cara. 

In questi casi, come si vede, non è il bambino a sognare, ma l’adulto, che sogna attraverso il futuro ancora da scrivere del bambino. Il bambino è in divenire, malleabile, e soprattutto è alla ricerca di qualcosa per fare breccia nel cuore dell’adulto. E quale migliore occasione, se non quella di realizzarne un sogno?

Infanzia e spoliazione 

Introdurre nel bambino sogni, ambizioni, desideri è cosa comune, ma è una prevaricazione sulla sua individualità. Quando un sogno infantile viene abbandonato durante la crescita, può significare che non era un sogno autentico del bambino. Non solo, ci sono sogni che non vengono mai abbandonati, ma diventano inclinazioni, missioni, progetti di vita. E tutto questo senza mai rappresentare davvero una componente autentica delle fantasie, dei desideri, delle ambizioni di quell’individuo. 

Consiglio a tutti di fare un’analisi dei sogni che avevamo da bambini, potrebbe sorprendere. E soprattutto potrebbe sorprendere capire se e quanto quei sogni facciano ancora parte della nostra identità odierna.

Cosa non ha funzionato del femminismo? La risposta sbagliata ad una giusta domanda.

Oggi nel mondo la politica è un fatto sostanzialmente maschile, la religione è un fatto sostanzialmente maschile, i grandi gruppi economici sono gestiti sostanzialmente al maschile. Dovremmo concludere, senza troppa retorica, che il femminismo ha fallito? 

Da Simone de Beauvoir alle Pussy Riot

Il punto di partenza di ogni filosofia femminista è dimostrare che i generi non hanno un ordine di importanza, e non è dal genere che discende il peso che uno acquisisce nella società. 

Tuttavia i femminismi si declinano solitamente in azioni che paradossalmente negano la parità e sostengono la superiorità femminile. La conseguenza è un irrigidimento delle posizioni, ossia un aumento della conflittualità anziché una sua diminuzione. 

Il muro contro muro conduce la parte forte ad arroccarsi sui privilegi consolidati per spostare il focus dello scontro su altri livelli, diversi da quelli in questione. Trovo eccezionali a tale proposito le parole di Lorenza Foschini, grande giornalista Rai.  Dopo essere giunte, insieme ad altre grandi firme femminili, a condurre i TG della sera, alla metà degli anni Novanta si accorsero che i direttori di testata, di rete e i direttori generali erano tutti uomini. ‘A quel punto’ disse la Foschini ‘abbiamo capito di essere state giocate: il potere non stava nel leggere il Tg, come per anni ci avevano fatto capire.’

Così ai tempi di Chiara Ferragni, come a quelli di Simone de Beauvoir, ai grandi propositi, ai grandi discorsi, fanno seguito proposte spartane, urlate, non ragionate. Valga per tutte quella delle famose incursioni delle ‘Pussy Riot’, le ragazze che nude aggrediscono personaggi famosi. Le reazioni che scatenano queste proteste sono più estreme e rigide delle intenzioni che le hanno originate.

Femminismo da piazza e da salotto.

La contrapposizione muro contro muro cementa l’identità, ma è una forzatura nazional populista dei presupposti del femminismo. Non c’è una sola rima in Christine de Pizan, una sola pagina di Simone de Beauvoir, un solo accenno nell’intera opera di Julia Kristeva che ammicchi allo scontro, alla contrapposizione, all’invettiva di piazza. 

Dividere i femminismi in quelli da piazza e quelli da salotto è un modo per fare del male al femminismo, e per rafforzare, in sostanza, le posizioni dello status quo.

L’errore strategico del femminismo, perciò, è stato quello di volgarizzare lo scontro, di esacerbare le distanze, di chiedere riconoscimento di diritti sotto minaccia (sovente di stampo sessuale) dimenticando che nel rapporto tra generi uno sa ancora fare molto male, come  mostrano i dati sul femminicidio.  

E’ ancora tempo di femminismo?

Oggi nel mondo, come dicevo, la politica, le religioni, il potere economico sono gestiti sostanzialmente al maschile. La nostra cultura, se vuole davvero essere la più liberale, deve trovare il modo di garantire la pari dignità a tutti i cittadini, come peraltro va affermando nei suoi principi generali. 

Ritengo che il movimento femminista debba anzitutto liberarsi dai connotati ‘sessisti’, perché la libertà della donna non può essere un obiettivo delle donne, ma di tutta la società. Ripulire dal dibattito gli elementi di scontro significa eliminare per esempio termini come ‘maschilismo’, ‘patriarcato’, o lo stesso termine ‘femminismo’. Favorire l’incontro significa sfavorire lo scontro. 

Ancora una volta il ragionamento converge su Julia Kristeva, la sua opera, il suo sforzo di unire il buono che c’è nelle religioni, nelle filosofie, nella psicoanalisi: il ritorno all’umano. Nello scontro di società che sotto traccia serpeggia nel nostro tempo potrebbe essere proprio la questione del femminile a spostare l’ago della bilancia della storia. Qualcuno si sente pronto?

Padri assenti: ‘presenti nell’ombra’, ‘non pervenuti’, ‘evasi’.

Un padre può risultare assente per ragioni indipendenti dalla sua volontà. La mia intenzione qui non è quella di accusare, ma di analizzare serenamente, nel tentativo di comprendere; Aiutare i figli a capire come e perché hanno sentito un vuoto da quella parte, e aiutare i padri a prendere coscienza di come alcuni loro atteggiamenti potrebbero essere letti, contro la loro stessa intenzione, come disinteresse.

Fasi diverse, percezioni diverse 

Il peso del padre nella vita di un ragazzo o di una ragazza oscilla in maniera diversa a seconda della fase di crescita. Durante l’infanzia i bambini hanno bisogno di una presenza fisica, concreta, intendo anche a livello di affettuosità. Andare a scuola, agli allenamenti, o in vacanza non è la stessa cosa senza un padre, o senza la presenza tangibile di un padre. Durante l’adolescenza invece la presenza deve essere meno fisica e un po’ più psichica. I ragazzi vogliono sentirsi meno pressati, meno controllati, ma non per questo meno considerati, spronati, o anche ostacolati, nel caso facessero cose al limite del lecito. 

Metto in evidenza almeno tre casi in cui un padre possa essere percepito come assente. 

Padri ‘nell’ombra’

Il primo è quello degli uomini presenti, ma nell’ombra. In questi casi il padre c’è ma soltanto sullo sfondo: è una sagoma seduta sul divano, senza voce, e il cui sguardo non si posa mai sul figlio. La madre bada a tutte le esigenze del bambino, lo aiuta nei compiti, incontra gli insegnanti, ecc…, ma ogni tanto agita lo spettro paterno: ‘guarda che lo diciamo a tuo padre’, oppure ‘se lo scopre papà sono dolori’.

Questi padri non si vedono, sono muti, ma esistono, si percepisce che ci sono. A loro è sempre garantito un posto a tavola, per esempio, o un posto alla recita di fine anno; I figli faranno sempre loro una telefonata dall’aeroporto, poche parole formali, per dovere di cronaca. E’ poca roba, d’accordo, ma è pur sempre qualcosa. Il figlio ha verso il padre una specie di timore reverenziale, non di più; Del resto il padre non ha neppure mai niente da dirgli, nel bene come nel male. Così il figlio sente questo padre come assente, lo ricorderà a posteriori come assente, pur se di fatto era in casa, vivevano sotto lo stesso tetto. 

Padri ‘non pervenuti’

Ben diversa la situazione dei padri che potremmo definire ‘non pervenuti’. Il padre non pervenuto è un uomo che viaggia molto, o passa il suo tempo fuori casa: in cantina a fare le sue cose, come si usava un tempo, oppure al bar con gli amici, oppure in qualunque altro luogo o situazione che non sia a casa con il resto della famiglia. Il padre ‘non pervenuto’ manca tutti gli appuntamenti importanti della vita dei figli. Il saggio di danza, il primo concerto, l’esame per la patente. Questi padri hanno impegni inderogabili, e i figli passano la vita ad allungare il collo nella speranza di vederseli arrivare, di vederli presenti, ma invano. I figli di questi uomini non di rado covano dei risentimenti, perché hanno l’impressione di essere messi sempre al secondo posto.

Padri ‘evasi’

Infine c’è il padre ‘evaso’. E’ quello che ha vissuto una vita di coppia travagliata, conclusa con una separazione conflittuale. Secondo le sue intenzioni ha abbandonato i figli nelle grinfie della madre ed è scappato a rifarsi un’altra vita. Nella percezione del figlio, invece, il padre evaso è una specie di traditore, un codardo, che ha lasciato la nave in balia della tempesta anziché dare il suo contributo per aiutare i passeggeri. 

Il figlio del padre evaso non nutre disillusione o risentimento: può arrivare a sviluppare un rancore molto profondo per il genitore, anzi a generare man mano un astio verso tutto ciò che assume caratteristiche ‘paterne’, come per esempio gli insegnanti o le autorità. Se un figlio (o una figlia) percepisce il padre come un vile che lo ha abbandonato, può arrivare a detestare gli uomini, e in certi casi persino a rinunciare ad avere una famiglia propria, per non avere mai più a che fare con un ruolo come il suo.    

Generazione influencer: da anticonformisti a moltiplicatori di conformismo

Come detto in un precedente articolo siamo una generazione di (aspiranti) influencer

Non c’è niente di male sia chiaro, anzi è buon segno volersi rapportare agli altri in termini di guida, leader, following: significa che crediamo in noi stessi e pensiamo di poter aiutare il prossimo, consigliarlo, illuminarlo.   

Tuttavia c’è qualcosa che non mi torna nella dinamica ‘sé – altri’, specie se rapportata a quella in voga prima dei social networks

Anticonformismo

Prima del web distinguevi le persone eccentriche perché erano stravaganti. In tv si aggiravano personaggi che parlavano e vestivano in maniera stana, persino buffa, e coniavano termini che la gente ripeteva per darsi un tono o per ridere tra amici. E’ il caso del giornalista Giampiero Mughini, e del suo famoso ‘aborro’, o prima di lui del professor Gianluigi Marianini, reso noto dal programma ‘Lascia o raddoppia’ di Mike Bongiorno. O di altri che hanno avuto minor successo, come il cantante Adriano Celentano, meteora come presentatore del varietà televisivo. 

L’eccentrico era anzitutto anticonformista. C’era un conformismo di facciata, democristiano, potremmo dire: istituzionale, rassicurante, vestito grigio e cravatta. E poi c’era l’anticonformismo: farsi notare, rompere gli schemi.

Alla lunga, poi, questa cosa di rompere gli schemi si è un po’ arenata: bisognava capire anzitutto quali fossero gli schemi da rompere, ed era lì che il discorso si faceva più complicato. Ossia, tutti ammettevano l’esistenza di schemi dettati dalla società, ma era scarso il consenso su quali fossero, perché ciascuno intendeva i propri. 

Così ad un certo punto, (imperava il relativismo e il pensiero debole) ci si è resi conto  che ciascuno poteva essere anticonformista a modo proprio, e quindi, in sostanza, essere anticonformisti era diventata una nuova forma di conformismo. Insomma, non se ne usciva più. 

Molto più che leader: influencer

Oggi il web ha trasformato la voglia di protagonismo da eccentricità a esempio. L’influencer è un moltiplicatore di conformismo, un maître à penser che trasforma un sentire collettivo in espressione verbale: se vogliamo l’influencer è l’omologazione elevata a potenza, anzi a regola di vita. Quanti più followers riesco a convincere che si deve vivere come me, tanto più le regole del web (leggi: regole del mercato) mi sapranno premiare. 

Se l’anticonformista, l’anticonvenzionale, il ribelle protorivoluzionario, erano in fondo una sfida (per quanto conformista) alla società di massa, l’influencer è l’adeguamento all’irreversibile stato di cose. E’ accettare che se non è più possibile emergere come alternativi, tanto vale provare a emergere come super adattati. 

L’autosabotaggio

L’autosabotaggio seriale è la conferma di un’ipotesi su di sé. 

Alcuni individui attuano regolarmente comportamenti che fanno saltare piani ormai conclusi: sono i peggiori nemici di loro stessi. 

Questi individui sono scissi tra due o più idee che li riguardano: si tratta di teorie che si escludono a vicenda, e che pertanto sono fonte di travaglio e sofferenza.

(Preciso che sto parlando dell’autosabotaggio seriale perché un singolo evento di autosabotaggio potrebbe essere un fatto di autodifesa, come un lapsus o un atto mancato, ma è fatto più raro, e dal mio punto di vista non patologico, non patogeno, non degno di particolare attenzione.)  

‘Io non sono capace’

Una di queste teorie recita cose del tipo: ‘tu sei un buono a nulla’ oppure ‘chi ti credi di essere, non sei nessuno’ o ‘non sei mai stato capace di fare cose di questo tipo’ ecc… Si tratta di teorie che negano il valore individuale, sono svalutanti o denigranti. Questa narrazione interna convive, da qui arriva il disagio, con un’altra (o più d’una) che al contrario è positiva, che sottolinea la forza e la competenza dell’individuo, che afferma la sua bravura o abilità in qualche ambito. Queste due (o più) teorie, come si vede, non possono convivere. Se intendo, poniamo, scalare una montagna, ma dentro di me c’è un’idea fissa che dice ‘non ci riuscirai mai, chi ti credi di essere’, e al contempo ce n’è un’altra che dice ‘sei bravissimo, ce l’hanno fatta in molti, puoi farcela anche tu’, a chi devo dare ascolto? Se riuscirò nell’impresa dovrò sconfessare una delle due, se non ci riuscirò dovrò sconfessare l’altra. 

Identificazione inconsapevole

Gli autosabotatori hanno sovente avuto un genitore svalutante, violento/aggressivo o denigrante/infamante. (Dico genitore ma intendo caregiver o Altro significativo, non è necessariamente detto che si tratti di un genitore, anche se per lo più è così.) 

La deprivazione affettiva, la spoliazione, o l’intrusione parentale realizzata dal genitore (suo malgrado, molto probabilmente) ha condotto il figlio ad una sorta di identificazione inconsapevole. Il figlio prende le distanze dal genitore, talvolta in maniera netta, se non violenta, ma ne è invaso: la sua identità ne è costituita, la sua personalità ha fatto proprie le teorie del genitore svalutante

L’identificazione inconsapevole con il genitore deprivante, elemento costitutivo  degli spoilt children, è alla base dell’autosabotaggio. 

Il progetto di vita dell’autosabotatore deve essere cambiato anzitutto estraendo dalla sua personalità, dalla sua narrazione interna, la parte costituita da quel ‘tu non sei capace’ che non gli appartiene, e che è frutto del troppo amore che egli ha avuto per quel genitore inadeguato, ma col quale egli è così fortemente identificato. 

Il tossicodipendente e la madre disfunzionale

Vorrei mettere in evidenza una delle dinamiche tipiche della tossicodipendenza: il rapporto espulsivo/aggressivo del soggetto tossicodipendente con la madre disfunzionale. 

In alcuni casi il rapporto con la madre, soprattutto se depressa o instabile emotivamente, può assumere la caratteristica di una battaglia per la sopravvivenza, non soltanto psichica. Alcune donne possono diventare minacciose o pericolose per i loro figli, e mettere in atto anche comportamenti al limite della legalità.

Può avvenire che il figlio venga identificato, inconsapevolmente, come il responsabile di qualcosa di negativo per la coppia o per la madre stessa. Poniamo la fine di un periodo di stabilità, o la perdita dell’indipendenza. L’ambivalenza vissuta dalla donna è altamente distruttiva: ama il figlio, ma allo stesso tempo lo vive come un peso, sente che egli le ha tolto qualcosa. Il figlio di conseguenza soffre, e cerca disperatamente il modo per accontentare la madre, per renderla soddisfatta. Per esempio si adegua alle sue richieste, o si dedica alle cose che lei ama. Oppure, al contrario, entra nella dinamica aggressiva di rigetto reciproco e scatena contro la donna attacchi sempre più violenti.

Nel caso che vorrei descrivere, il figlio individua anche una terza strada: la tossicodipendenza.

L’uso smodato di droghe ha delle conseguenze molto significative. Da un lato spegne i dolori del giovane: egli ipersocializza con i coetanei, sentendosi (finalmente) amato e rispettato. In questo caso le droghe fungono letteralmente da farmaco auto somministrato, e il soggetto realmente sta meglio quando le assume. Perché al contempo seda le ansie e migliora la performance e la visibilità tra gli amici. Inoltre nel rapporto con il gruppo dei pari può comparire la dipendenza affettiva: le istanze di contenimento, che un individuo dovrebbe trovare nel nucleo famigliare, vengono trovate al suo esterno, creando così un precedente pericoloso: la separazione dai nuovi punti di riferimento potrebbe diventare problematica. 

Dall’altro lato l’uso di droghe ha un significato relazionale: il messaggio alla madre. L’attacco frontale alla madre, (sempre come reazione alla sua ambivalenza) è sia nei termini di una violenza cieca che il soggetto esprime su di sé, (iniettare droghe in vena è gesto furiosamente violento) ma anche nei termini di una (ennesima?) drammatica richiesta di attenzione che il figlio avanza. 

In questi casi l’obiettivo del trattamento è la cura della ferita narcisistica originaria. Ovvero quella sensazione di essere stati espulsi e successivamente aggrediti, mai abbastanza apprezzati, talvolta addirittura detestati.

Dico che questo è l’obiettivo della cura perché, e torno all’inizio di questo articolo, l’ambivalenza materna (il rapporto espulsivo/aggressivo) è originata dal fatto che la madre abbia visto nel figlio (magari molto inconsapevolmente) un ostacolo al proprio percorso di vita. Questa ipotesi, qualora risultasse vera, dovrebbe però passare attraverso un’analisi e una attribuzione di significati da parte del figlio. Perché la madre ha avuto quella sensazione in quel particolare momento della sua vita? È stata aiutata da qualcuno, oppure ha affrontato da sola quella fase critica? Qual è stato il ruolo del padre nella vicenda? 

Rispondere a queste domande, e ad altre di questo tipo, significa uscire da una sensazione vaga e pre consapevole di malessere, quella del bambino male accolto, per entrare in una fase di pensiero critico e adulto, quella della responsabilità: in cui l’individuo è in grado comprendere le ragioni della sofferenza altrui, di uscire dalla relazione di dipendenza e di entrare in una relazione di aiuto reciproco

Mamme sotto stress. Il sovraccarico mentale come fattore di rischio.

Il sovraccarico di molte mamme odierne è un fattore di rischio per il loro equilibrio mentale

La distribuzione degli impegni dei figli nell’arco dei sette giorni, diversamente da quanto avveniva un tempo, è parte integrante di questa condizione. Oggi il sistema famiglia deve adeguarsi in modo diverso, e non sempre purtroppo le mamme trovano l’adeguato sostegno. 

Le ricadute sulla salute mentale vanno dai problemi del sonno, in genere i primi a comparire, ad ansia generalizzata, a umore altalenante, fino alle caratteropatie. 

Le mamme sotto stress sentono di essere meno lucide, risolvono i problemi più lentamente di prima, e hanno la sensazione che senza il loro contributo tutto può fermarsi. E’ importante sottolineare che queste mamme non sono più stanche fisicamente, il loro sovraccarico è mentale. 

L’aiuto che dovrebbero sollecitare è nel funzionamento del sistema famiglia, del resto lo stesso che le ha condotte a questa condizione perché incapace di sostenerle adeguatamente. Se il sistema è assente, queste mamme devono trovare il modo di scegliere quali impegni dei figli continuare a gestire, e quali invece rimandare al futuro. 

Per la loro salute mentale, e naturalmente per quella dei loro figli.