Fine della verità e frammentazione psichica

Come già osservato a più riprese, attraversiamo una fase di decostruzione della verità e del senso dell’essere. La cosa investe anche psicologicamente il soggetto contemporaneo, e non solo nella sua azione pubblica, ma anche nella sua dimensione privata. La conseguenza di questa polverizzazione del vero e del riconoscibile, è una frammentazione della nostra soggettualità. Registriamo quotidianamente da un lato una diffusione esponenziale della patologia mentale, anche grave, da un altro il ricorso smisurato a sostanze stupefacenti o alcolici, da un altro ancora alla disperata ricerca di punti fermi su cui costruire, o ridefinire, la nostra identità, come ad esempio quello della squadra di calcio o del luogo di nascita. Proprio quest’ultimo punto diventa, oltrepassata una certa “normale tollerabilità”, addirittura paradossale, se è vero che lo stesso Dante Alighieri affermava di avere per patria il mondo. 

Thruth!

Il presidente americano Donal J. Trump ha fondato, nel 2022, un proprio social network, a cui ha dato nome Truth, verità. Posto che un presidente degli Stati Uniti sia di per sé una voce autorevole, e per alcuni dovrebbe comunque dire sempre la verità, il fatto che abbia chiamato “Verità” un social network, la dice lunga sul rapporto che abbiamo sviluppato con questo concetto, già di per sé indefinibile. Perché se un presidente afferma di dire la verità sul suo social, verrebbe da chiedergli: quante verità pensi che esistano? Nel mondo le verità sono tante, siamo d’accordo, ma dovrebbe andare da sé che per ciascuno di noi ce ne sia una sola, ed evidentemente non è così. 

La mia generazione ha studiato sui libri di Gianni Vattimo e Umberto Eco, ai tempi del pensiero debole, del post modernismo, e del crepuscolo della verità. Ora, dobbiamo ammettere che il crepuscolo è stato superato da un pezzo, e ai giorni nostri sulla verità è calata ampiamente la notte. Più della formula di Bauman “società liquida”, quindi, credo dovremmo dotarci del concetto di “frammentazione”. Il mondo è in via di frammentazione, e con lui lo è anche la nostra identità, sulla scorta di quel meccanismo che la psicoanalisi ha individuato come reazione al trauma e al traumatico. 

Se pensiamo alla politica internazionale, siamo praticamente privi di punti di riferimento, diversamente, ad esempio, dagli anni della Guerra Fredda. All’epoca stavi con gli Stati Uniti o con l’Unione Sovietica, le due cose si escludevano a vicenda, generando conseguenze. Soprattutto, questa dicotomia ti aiutava a definirti, a fissare la tua identità. Poi è crollato il Comunismo, e in Italia, ad esempio, è arrivato Berlusconi. Non ci siamo più divisi più tra capitalisti e socialisti, ma eravamo comunque divisi tra pro e contro il Cavaliere, e insomma, anche lì la politica ci aiutava a fare una “scelta di campo”, a compattare la nostra identità. 

Oggi la politica si è frammentata, a livello internazionale come locale, ed è difficile prendere una posizione netta e definitiva. Anzi, è diventato molto facile cambiare partito, o anche schieramento. La frammentazione ha investito la Policy, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.  Anche l’economia si è fortemente frammentata. Le classi sociali non esistono più nei termini di qualche anno fa, economicamente gli italiani sembrano essere scivolati in un incubo alla Stephen King, da cui nessuno riesce a svegliarli. E così, a ruota, la frammentazione ha colpito ogni settore della nostra vita, fino al lavoro e allo sport, dove non esistono più posizioni e mansioni di una volta, siamo chiamati a ricoprire diversi ruoli, con le conseguenze che ciascuno di noi conosce benissimo. 

Frammentazione psichica 

Secondo lo psicoanalista ungherese Sandor Ferenczi, la frammentazione può essere la reazione ad un trauma, o ad un evento impensabile. In termini pop, siamo frammentati quando a tutta prima prendiamo una posizione, ma poi ci pensiamo sù, ci vengono in mente altre argomentazioni, e la nostra idea vacilla. 

Un esempio straordinario di quanto siamo frammentati, è la guerra fra Russia e Ucraina. Se torniamo ai primi tempi di questa guerra, ricordiamo che l’opinione pubblica, a parte poche eccezioni, prese posizione immediata per Kiev. Su ogni organo di stampa, sui social network e davanti ai caffè, gli italiani avevano una posizione netta, chiara e incrollabile. Durò alcuni mesi, poi emerse la frammentazione, e le posizioni si polverizzarono in miriadi di atteggiamenti differenti: chi continuava a sostenere l’Ucraina, chi attribuiva le colpe della guerra alla Nato, chi appoggiava direttamente le istanze russe, sostenendo che, in fondo, fossero legittime. La difficoltà di prendere una posizione in merito a questa, come ad altre questioni, (femminicidio/patriarcato, svolta green, istruzione pubblica, e potrei continuare) denota un problema identitario, una frammentazione della nostra identità. 

Seguendo il modello psicoanalitico di Ferenczi, come dicevo, potremmo sostenere che questa frammentazione sia la conseguenza di un macro trauma, o una serie di traumi, a cui non siamo riusciti a trovare un buon adattamento. Il mio mestiere non è quello storico, se non dello storico delle persone, ma posso indicare in almeno un paio di grandi cambiamenti sociali, i traumi a cui fatichiamo a fare fronte: la rivoluzione digitale e la fine del mondo a guida occidentale

La moltiplicazione delle opportunità comunicative avvenuta in questi venticinque/trent’anni, in cui siamo passati dal primo personal computer casalingo con masterizzatore (era il non plus ultra), ai social network, definisce la perdita del rapporto con la verità, come accennavo più sopra, e lo scivolamento delle certezze identitarie. 

La rivoluzione digitale è certamente traumatica per gli umani. Comporta, tanto per cominciare, l’indebolimento del rapporto con i media, e infatti siamo noi per primi ad essere coinvolti nel processo di decriptazione delle informazioni. Il web ci offre contenuti sulla base dell’algoritmo, non sulla base della veridicità, che lui per primo non è stato progettato a riconoscere. Così abbiamo sulla stessa schermata i post del Corriere della Sera e di opinionisti impreparati: la Home Page dei social network è una dichiarazione di guerra alla nostra stabilità mentale. Per non parlare, inoltre, dei cambiamenti legati alle relazioni affettive o amicali. C’è stato un tempo in cui i giochi di sguardi si facevano nel buio delle discoteche. Oggi i like sono pubblici, e se il mio amico ne avrà più di me, potrei uscirne molto male.

Il secondo punto coinvolge in maniera particolarmente profonda il nostro processo di strutturazione. Nel mondo contadino, o cittadino, del medioevo, del Settecento, e così via, non avevamo molti stimoli a metterci in dubbio. Le persone strane venivano bollate di stregoneria e relegate ai margini, i matti venivano chiusi nei manicomi, e la vita era meno complessa. All’epoca del boom americano, in cui tutti sognavamo a stelle e strisce, non eravamo (molto) frammentati. Fatta la scelta est/ovest, collocavamo noi dalla parte del bene, del giusto e del trendy, e gli altri dall’altra parte. 

Al tempo attuale scopriamo che la stragrande maggioranza dell’umanità ci considera dei viziati, degli scrocconi, quando non degli approfittatori, e non vede l’ora di prendere le distanze da noi, e dal nostro modo di vivere. Anche questo è un trauma che mina le basi della nostra identità, che frantuma il nostro Sé in pezzi ignoti fra loro. E infatti sentiamo colpa per la fame nel mondo, pur sprecando molto cibo, per il cambiamento climatico, pur facendo post sui social che bruciano energia, e via di questo passo. 

Quale identità? L’inganno del territorio

Come affrontare, dunque, questa frammentazione? Quale identità perseguire, a quale Sé dover dare conferma? È qui che la cosa si complica, infatti siamo portati a ricercare risposte semplici, rapide, anche per dare soluzione a problemi complessi, ma questo non è assolutamente verosimile. Un inganno molto comune è quello dell’idealizzazione del territorio di provenienza, artificio cognitivo che comporta la confusione tra il normale senso di appartenenza e la struttura dell’identità

Il mondo dell’enogastronomia conosce molto bene la differenza tra prodotti simili provenienti da territori diversi. Un vino toscano è profondamente diverso da un vino siciliano, per profumo, gusto, corposità, ecc… ma lo è anche un vino toscano del chianti, rispetto, poniamo, ad un vino di Grosseto. Nel caso dei prodotti enogastronomici, quella terra, quel clima, quel tipo di umidità, ne determinano l’identità profonda. Per gli esseri umani le cose non possono essere assimilabili, eppure molti continuano a identificare loro stessi con il luogo di nascita. Ricordiamo tutti quei brexiters che orgogliosamente gridavano: “Io sono inglese, non britannico”, per buona pace dei fans delle Spice Girls o dei Queen, che si sentivano simili ai loro eroi, pur se italiani, francesi o tedeschi. 

Gli umani nascono in un territorio, ma non da un territorio, poggiano i piedi sulla terra, ma non vi sono ancorati all’interno. Il nutrimento che prendiamo dal luogo natale, è un nutrimento anzitutto psichico, spirituale, molto più che fattuale. L’appartenenza, più che ad una regione fisica, è ad una famiglia, una rete di affetti, un complesso di dinamiche relazionali che ci hanno visto crescere. 

Dante Alighieri, artista, e italiano, che dovremmo conoscere meglio, diceva: “Io che ho il mondo per patria, come i pesci hanno il mare, benché abbia bevuto all’Arno prima di mettere i denti…”. Perché Dante riteneva che la sua patria fosse il mondo? Era un grande intellettuale, non c’è dubbio, ma evidentemente sapeva, o quantomeno sentiva, che l’unità del Sé non si può fondare sugli aspetti idealizzati di un territorio di provenienza, che, per quanto magnifico, avrà anche dei difetti. 

Se in seguito ai traumi che il nostro tempo ci fa attraversare, abbiamo visto frammentare la nostra identità, insieme alle certezze che da sempre ci portiamo dietro, il processo di ricostruzione deve partire da dentro di noi, da ciò che siamo, da quello che in cuor nostro avremmo voluto essere. Considerando che la traiettoria di crescita, raramente sarebbe stata diversa se fossimo nati in un’altro luogo. 

Psicoterapia in comorbilità psichiatrica: conflitti genitoriali, angoscia psicotica, tossicodipendenza

Nei pazienti con comorbilità psichiatrica, di cui mi occupo da oltre un ventennio, ho visto sovente storie di vita simili, con momenti cardine che si ripetono o rassomigliano, e non soltanto per quanto riguarda l’abuso di alcolici o droghe. 

Il disagio (esistenziale o psichiatrico) che questi ragazzi esprimono nel corso della loro crescita, attraversa fasi largamente, e inquietantemente, sovrapponibili. Uno degli aspetti che li lega fortemente tra loro riguarda i conflitti genitoriali a cui sono stati esposti sin da bambini, e a cui non hanno saputo adattarsi, se non sviluppando i sintomi e le caratteristiche di personalità che gli sono proprie. 

Il tossicodipendente tiene unita la famiglia

Inizialmente non veniva data una grande importanza agli aspetti familiari e ambientali del paziente tossicodipendente. La sua posizione, anzi, era sovente dipinta come quella di un perfido manipolatore, una scheggia impazzita nella placida tranquillità di una famiglia, per il resto, normale. La tossicodipendenza veniva fatta risalire alle cattive compagnie, da cui questo manipolatore era stato a sua volta manipolato, plagiato, e in questa lettura si perdeva il senso profondo, non tanto dell’utilizzo occasionale delle droghe, quanto della deriva tossicomanica dei più sfortunati.  

Ad un certo punto si cominciò a ritenere che il tossicodipendente tenesse legata una famiglia allo sfascio. L’alta conflittualità a cui era stato abituato, dovuta a dissidi non superati, a gravidanze inattese, o indesiderate, e cose di questo tipo, aveva segnato il paziente più di quanto egli stesso volesse ammettere, al punto da indurlo a diventare il cemento mancante nella coppia genitoriale. Una delle conseguenze della dipendenza, in altre parole, era che la preoccupazione che i genitori riversavano sul giovane, diventava l’unico punto di convergenza di una coppia ormai divisa su tutto. Si trattava di una svolta epocale, sia chiaro, da ché in precedenza, come dicevo, il tossicodipendente era visto alla stregua di Franti, il cattivo del libro Cuore.

Gli atteggiamenti vittimistici tipici di alcuni ragazzi, le loro pretese, i loro alibi, acquistavano senso quando letti nella dinamica familiare, in cui diventavano il tramite per fare superare ai genitori i conflitti, o quantomeno a toglierli momentaneamente dal loro orizzonte. Se ubi maior, minor cessat, di fronte alla salute di un figlio, tutto passerà in secondo piano. 

Potremmo definire questa fase storica del nostro lavoro come quella della “ricerca di attenzioni”, ossia del tossicodipendente come un esperto nel mettere sé stesso al centro della scena. La conseguenza implicita di questo schema era che, se la coppia genitoriale si lasciava trascinare in questa dinamica, o nei ricatti che talvolta ne derivavano, lo faceva anche perché ne traeva un vantaggio: restava unita, rimandando a data da destinarsi i veri nodi della sua coesistenza.  

Con il passare del tempo, tuttavia, si è visto che questa lettura, per quanto a volte corretta, non bastava, da sola, a spiegare tutti i casi di grave tossicodipendenza. Il conflitto familiare continuava ad essere presente in una serie sterminata di casi, ma la dipendenza non era sempre un sacrificio per perseguire un bene superiore. A volte era uno sfregio ad un genitore insensibile, o distratto, a volte un ricatto, oppure ancora il sostituto di un Altro (o un’Altra, come nel caso dell’eroina). 

Comorbilità psichiatrica: un intreccio traumatico 

La tossicodipendenza (almeno in certa parte) acquisiva un senso differente se letta nella complessità della comorbilità psichiatrica. Nella compresenza e nell’intreccio delle diagnosi (da cui il termine comorbilità), si rende impossibile stabilire con chiarezza se sia nato prima il disturbo psichico o l’abuso di droghe. Tanto è vero che i casi di spostamento delle dipendenze, sempre più numerosi con il passare degli anni, facevano pensare, più che ad una forma di adattamento al clima familiare, ad una appresa modalità standardizzata di reazione alle frustrazioni. 

Nel corso del tempo, in altre parole, vedevamo pazienti dapprima schiavi dell’eroina, passati ad abusare di alcolici, forse perché la moda era cambiata, (qui pesava non tanto il ruolo delle compagnie, ma il ruolo nelle compagnie), e successivamente approdare alla cocaina. Con una dinamica incomprensibile, se vogliamo, perché chi ricerca sostanze psicotrope, non dovrebbe passare agli stimolanti. In quegli anni era facile sentirsi dire dai pazienti frasi di questo tipo: “Ho trovato nell’eroina una sostanza benefica che interagisce positivamente con il mio metabolismo. Mi calma, mi dà serenità. È il mio corpo ad averne bisogno, mi fa stare bene.” Ammetterete che lascia sgomenti scoprire che, poniamo, quindici anni dopo, chi ti ha detto queste parole pensa la stessa cosa della cocaina o del crack. Sarebbe come dire che se da studente usavo la camomilla come ipnoinducente, oggi uso il caffè: senza altra spiegazione a margine, non se ne vede il senso.   

Anzi, all’osservazione, il percorso di spostamento non si arrestava: dopo la cocaina il paziente iniziava a giocare al gratta e vinci, al Superenalotto, al videopoker. Dimostrando, ancora una volta, di essere in cerca di una dipendenza, più che di una sostanza. 

Veniamo al tempo presente, e alla comorbilità psichiatrica come lettura clinica e approccio terapeutico. Ancora oggi la maggior parte dei pazienti condivide una storia familiare di litigi, incomprensioni, frustrazioni. Molto spesso si tratta di coppie genitoriali sull’orlo della crisi, di divorzi litigiosi o violenti, oppure di cespugli genealogici, come nel caso, e ne abbiamo parlato molto, dei bambini adottati, affidati ecc. Storie in cui non solo sono mancati i punti di riferimento, ma i riferimenti, per quanto deboli, problematici o inaffidabili, hanno addirittura operato per delegittimarsi a vicenda. 

La visione attraverso la lente della comorbilità ci porta a considerare, di conseguenza, anche l’origine ambientale e l’eredità generazionale, o trans generazionale, del disturbo, oltre ché, naturalmente, quella più prettamente psichiatrica. Ed è così che la depressione, l’angoscia esistenziale o la colpa persecutoria, (ecc…) e inevitabilmente anche la tossicodipendenza, si legano ad una storia familiare di difficoltà e sintomi non curati. La dipendenza, quindi, non appare più come lo sforzo di un bambino saggio (o egoista) che tenta di legare ciò che è ormai disunito, ma come il terminale di una storia (pluri generazionale?) di rotture traumatiche mal digerite, o non elaborate, che sono cadute in qualche modo sulle spalle (o sulla mente) del paziente.

Egli ha ammortizzato per come ha potuto le vicende distruttive, o di rigetto, che lo hanno accompagnato, o che lo hanno visto protagonista. Ha inserito la sua propensione alla dipendenza (che infatti in molti casi è anzitutto una dipendenza affettiva) in maniera stabile nelle sue relazioni significative. Ha imparato a non chiedere più di essere amato, se non a qualcosa o qualcuno che non può fare altro che deluderlo. 

Nella lettura comorbile, il tossicodipendente è un ragazzo disperato troppo orgoglioso per chiedere aiuto, ma anche troppo fragile per accettare quell’aiuto, se non proveniente da chi lo ha ferito. Ma chi lo ha ferito non sa di averlo fatto, perché gravato, a sua volta, da un peso che, già in passato, non è riuscito a sostenere. Questa visione della dipendenza è, ad oggi, l’unica in grado di farci vedere davvero la commistione tra angoscia psicotica e manipolazione, tra paura dell’abbandono e autoregolazione emotiva, tra maniacalità e mancanza di autostima. 

Forse non è ancora sufficiente per elaborare una strategia di approccio efficace e definitiva, ma certamente è un buon inizio. Se non altro, per cominciare a restituire a questi ragazzi la dignità di individui, dignità che la vita gli ha strappato molto prima, di quanto abbia fatto la tossicodipendenza.        

Nuovi problemi sessuali: paura del corpo, della competizione e del politicamente scorretto.

Nella mia pratica quotidiana incontro sempre più frequentemente problemi sessuali, anche di forme diverse rispetto a quelle, per così dire, tradizionali. Disfunzioni erettili occasionali o episodi di eiaculazione precoce per gli uomini, difficoltà legate all’orgasmo o perdita dell’interesse sessuale per le donne, ecc… . 

La paura del corpo e il politicamente corretto

Una delle ragioni di quella che possiamo definire un’involuzione delle dinamiche relazionali, è certamente l’ondata di terrore per il corpo che si è propagata nel post pandemia da Covid-19. Le tecnologie oggi consentono relazioni asettiche, con scambio istantaneo di immagini e video privati, che alla lunga creano una bolla di comfort informatico. Da un lato, questi scambi mettono al riparo da rischi di contagio che inevitabilmente la prossimità umana comporta. Dall’altro, vediamo che il contatto in presenza non è più necessariamente l’inizio di una relazione, ma talvolta il passo successivo a scambi di messaggi, foto o video andati a buon fine. Così avviene che per alcuni il passaggio al corpo, e al corporeo, è una prova dei fatti (declamati,  millantati?) non facile da sostenere.  

E poi c’è la concomitante esplosione (sacrosanta) del politicamente corretto. Se da un lato, finalmente, tutti si sentono meno autorizzati a fare quelle odiose battute a doppio senso, quelle allusioni viscide, che da sempre mettono in imbarazzo non solo chi ne è il bersaglio, il rovescio della medaglia è un raffreddamento generale della self confidence. I più timidi (di ogni genere) possono sentirsi sotto esame ogni volta che fanno qualche approccio, e più in generale possono percepire su di sé giudizi o aspettative che un tempo non si pensava di avere. 

Fuga dalla competizione

Ad un livello più profondo, i nuovi problemi legati alla relazione, e che si manifestano soprattutto nell’attività sessuale, sono associati ad una sempre maggiore difficoltà di entrare in competizione. Vediamo comunemente, ormai, condotte di evitamento attivo della competizione, in ogni ambito della vita del nostro Paese. I politici in crisi di consensi cambiano partito, anziché impegnarsi a recuperare voti con quello a cui sono iscritti. Sportivi professionisti chiedono ai procuratori di cambiare società o campionato, quando sentono di non avere fiducia da parte dell’ambiente, anziché mettersi di impegno per mostrare il loro valore. E via di questo passo. 

La tendenza a pretendere a priori un certo tipo di riconoscimento, prima ancora di aver dimostrato di meritarlo, è parte di molti atteggiamenti che a vario titolo abbiamo definito egocentrici, egoistici, individualistici, narcisistici ecc… . Ossia atteggiamenti di chi non è disposto a conquistare qualcosa, perché ritiene gli sia dovuta. 

Se nella coppia in una crisi questo può portare, nei casi più gravi, a scontri violenti, nella coppia in divenire può definire difficoltà sul piano sessuale. Perché devo impegnarmi a fare qualcosa che mi è dovuta? Perché devo raggiungere, conquistare, sedurre? L’intimità necessita di un certo impegno, ma probabilmente non tutti lo sanno. Anche di questo si parla sempre troppo poco, e, malauguratamente, anche sempre troppo a vanvera. 

Generazione Ultimo. Perché la lotta al narcisismo è la nostra guerra civile.

Fanno discutere le dichiarazioni del cantautore Ultimo, che ha affermato di non avere amici che votino o vadano in chiesa. La cosa non stupisce per nulla, anzi, ad essere precisi, la considerazione può essere estesa anche alle altre generazioni di Italiani, ormai irrimediabilmente risucchiati dal loro egocentrismo. 

Il vuoto di fede, di passione politica, (e aggiungerei anche di interesse per l’arte), tradisce una tendenza inarrestabile al narcisismo individualista, o individualismo narcisista, fate voi. Ci sentiamo sempre più in credito verso tutto e tutti, a cominciare dallo Stato (“non voto perché di quelli non mi fido più”), per finire alla chiesa e alla religiosità (“dopo quello che mi è successo, in chiesa non ci vado”).

Tuttavia la sensazione di averne ingoiate troppe, a ben guardare, è un pretesto per chiuderci in noi stessi. Chiediamo allo Stato di fare di più, di darci di più, di organizzare meglio le nostre vite. Ma non avevamo deciso noi, a suo tempo, di avere un Paese laico e liberale? Il mantra del capitalismo liberale è “meno Stato”, possibile che oggi, che il liberalismo taglia servizi, scuola e sanità pubblica, chiediamo, invece, di averne di più? Oppure i servizi essenziali ci sono, ma cerchiamo una scusa per affermare che per noi, che siamo importanti, gli altri dovrebbero fare di più?

Il rapporto con Dio va più o meno nello stesso modo. Dove origina il vuoto di credibilità, cosa ci aspettiamo che faccia per noi, questo Dio, dove ci ha traditi, al punto che ci siamo offesi? Ovviamente ciascun lettore avrà le proprie ragioni, ma talvolta ho l’impressione che alla base della nostra reazione avversa ci sia un risentimento narcisista, perché “io sono io, e a me certe cose non le si fanno”.

Tra i lettori, chi sentirebbe, in buona coscienza, di poter dare la propria vita per un ideale? O meglio, per cosa daremmo la nostra vita? La mia esperienza quotidiana, e credo sia sovrapponibile a quella di Ultimo, è che nessuno darebbe la propria vita per difendere diritti che non lo riguardino. Cioè, rischierebbe qualcosa soltanto per difendere i propri privilegi (veri o presunti). 

Il narcisismo individualista è il vero nemico del nostro tempo. Dobbiamo combattere una battaglia identitaria e culturale, direi persino ideologica, contro il narcisismo. Come se fosse una guerra civile. Il narcisista inquina i rapporti umani, corrode il senso di appartenenza ad una famiglia, ad un gruppo di amici, ad una comunità. Il narcisista è perennemente in credito verso tutti, che dovrebbero fare di più, perché “io valgo”. 

Ha ragione Ultimo, molti hanno smesso di votare e andare in chiesa. Ma la ragione per cui non lo fanno è talvolta pericolosa, perché muove da una sensazione di lesa maestà. Se individualismo e narcisismo si incontrano, e strutturano un nuovo tipo di soggetto contemporaneo, avremo una collettività di insoddisfatti. Che inoltre denigrano tutto quello che li circonda perché non sufficientemente a loro misura. 

“Sono io, quindi ho ragione”. Una risposta ad Aldo Cazzullo.

Alcuni giorni fa, nella sua rubrica “Lo dico al Corriere”, Aldo Cazzullo rispondeva ad un lettore circa il degrado dei rapporti umani, in un bellissimo articolo intitolato “Sono io, quindi ho ragione.”. Non riassumo l’articolo, perché non possiedo il copyright, ma vorrei commentare con un approfondimento. 

L’imbarbarimento delle relazioni umane, evidente agli occhi di tutti, dipende dalla frustrazione e dall’impotenza. Da alcuni lustri a questa parte ci sentiamo in declino, sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista politico. Percepiamo la nostra voce largamente inascoltata, e anzi molti hanno perso la speranza che mai lo potrà essere. 

La storia del trauma ci insegna che l’impossibilità di comunicare una condizione di sofferenza, o peggio sentire che essa sia tollerata, se non addirittura giustificata, crea fratture dentro di sé, e risentimenti verso l’altro. Le condizioni psicopatologiche che ne derivano, poi, possono andare dalla grave scissione mentale, a varie forme di aggressività (più o meno passiva) agita in maniera scriteriata. 

Ora, io credo che nell’analizzare l’imbarbarimento delle relazioni umane, sia necessario anche definire la cornice del quadro entro cui tale imbarbarimento prende corpo, che è, per l’appunto, di progressiva e ineluttabile perdita di potere sul nostro presente, e di fiducia riguardo il nostro futuro. 

Così, oltre a segnalare con un certo disprezzo e superiorità questa situazione, dovremmo anche cominciare a fare qualcosa prima che diventi endemica. Ossia, prima che si perda la fiducia nella politica, prima che si smetta di cercare lavoro, perché “tanto non c’è”, prima che si prenda a vomitare odio per strada, al lavoro, sui social network, perché davanti c’è soltanto qualcuno che non può difendersi. 

Rileggendo l’ultima frase penso che forse queste cose stiano già avvenendo. Se è così, allora, è tardi anche solo per lamentarsi. 

La coppia infantile.

Il percorso di crescita è in genere una corsa verso l’età adulta, una sua anticipazione, talvolta persino uno scimmiottamento. Vi sono individui, invece, che in coppia rifiutano il ruolo di adulti, e giocano a fare i bambini. 

“Io sono grande”

Sappiamo tutti di quanto i bambini tengano a sottolineare il loro grado di sviluppo, e quanto vengano rafforzati in questo dagli adulti che si occupano di loro. A scuola, per esempio, amano aiutare dei compagni più piccoli, per senso di responsabilità, oppure a casa assicurano di poter assumere certe iniziative, perché “io sono grande”. 

Il mondo che li circonda, del resto, tende a premiare questo atteggiamento, per insegnare loro l’autonomia, e renderli consapevoli delle loro azioni.

Questa dinamica non si perde con la prima infanzia, anzi continua ad essere presente in ogni fase di crescita. L’adolescente e il giovane rincorrono l’adultità come se fosse uno status sociale. I ragazzi sognano di guidare l’auto, di uscire da soli con gli amici, di firmare i libretti scolastici. I giovani adulti sognano cose diverse, ma pur sempre cose “da grandi”: tutti abbiamo sentito la frase: “Oggi compi 18 anni, finalmente potrai…”. Al bambino e al giovane, sovente, la loro condizione sta stretta. 

Responsabilità

Vediamo coppie, invece, in cui la situazione si ribalta, e invece di fare gli adulti, i loro componenti giocano a fare i bambini. Anche questo è un caso di coppia sul viale del tramonto, ma in maniera diversa dalle altre. La cosa che sorprende di più non è la difficoltà di prendere atto della crisi, piuttosto la fuga (immaginata) dal ruolo di adulto e dalle responsabilità che esso prevede. E ovviamente tra le responsabilità c’è anche quella di fare parte di un progetto di vita condiviso. 

Supponiamo per un istante di entrare in una sala operatoria durante un intervento, e di imbatterci in una equipe che si comporta come una classe di bambini. L’anestesista che rincorre l’infermiere, disordine ovunque, e tra urla e schiamazzi il paziente abbandonato in un angolo. E poi supponiamo ancora di entrare in un parlamento e trovare una situazione analoga: aeroplanini di carta, sbadigli, chiacchiere a mezza voce. Che impressione ne avremmo? Penseremmo senza dubbio che le persone che vediamo vorrebbero essere altrove, che non hanno nessuna voglia di fare quello che stanno facendo, e che trovano più divertimento nei comportamenti infantili, che soddisfazione professionale dal loro impegno. 

Questa è la stessa impressione che si può avere dalle coppie infantili. Quando due persone si divertono di più a fare giochi, sketch, battute infantili, piuttosto che vivere il presente o progettare cose da fare insieme, molto spesso è perché queste ultime non darebbero maggiore soddisfazione, o più semplicemente queste persone vorrebbero essere altrove. 

Quindi la riflessione si sposta dal fatto stesso che la coppia sia in crisi, al peso della responsabilità di doverlo ammettere. E come abbiamo detto, è proprio la responsabilità una differenza importante tra l’infanzia e l’età adulta.  

Coppie al capolinea. Come riconoscerle, come uscirne.

La prima relazione in cui siamo coinvolti, appena dopo la nostra nascita, è all’interno di una coppia. La dimensione duale del rapporto con la madre, (o con chi ne fa le veci) influenza, di conseguenza, ogni rapporto a due che incontriamo nel corso della vita. Ci sono relazioni che ci ricordano quella primaria modalità di accudimento, ce ne sono altre totalmente diverse, e altre ancora che ne condividono soltanto alcuni aspetti. Vivere in coppia è difficile, perché arriva sempre il momento in cui la persona amata non risponde alle nostre aspettative, che derivano da quella esperienza primordiale. 

Relazioni tossiche

Ad ogni modo, non tutte le dinamiche che non rispettano le aspettative sono finite, ad alcune, in realtà, ci si può adeguare. Del resto a questo serve l’innamoramento, a trovare la forza di superare le differenze, per preservare qualcosa di più grande. Ci sono invece altre relazioni, che palesemente hanno esaurito la loro carica propulsiva, in cui le differenze diventano ogni giorno più pesanti. In questi casi non serve resistere, nascondersi dietro l’amore che si prova, perché il più delle volte è un amore “tossico”, e queste coppie sono al capolinea. Un esempio di relazione tossica è quella basata sull’asimmetria. Se c’è uno sbilanciamento di potere, come nel caso della violenza di genere, o della dipendenza affettiva o economica, in cui una delle due parti è soggiogata all’altra, l’“amore” che si prova non è sempre genuino, perché “intossicato” dalla necessità. 

Mind games

Quando in una coppia la comunicazione è dominata dai “mind games” (ne ho parlato in precedenza) ossia da quelle giravolte verbali che mirano solo a mistificare i fatti, anche questa coppia è al capolinea. I mind games sono attacchi vili che generano insicurezze, mentre un rapporto maturo dovrebbe emancipare, non legare. Una delle motivazioni alla base dei mind games è l’infedeltà. Le coppie infedeli amano mistificare i fatti, per poter continuare a mantenere l’attuale equilibrio. 

Identità di genere

Non se ne parla mai, ma è un’occasione di grande sofferenza in coppia. Se uno dei due partner smette di identificarsi nel rapporto di genere in atto, le cose si fanno molto difficili. Diamo per scontato che se un individuo forma una coppia con un altro individuo del genere opposto, l’identità di genere che ne deriva sia stabile o intoccabile. Poiché questo non è vero per tutti, può capitare che l’equilibrio si spezzi, e anche in questi casi la coppia è al capolinea. 

Se nella vita di coppia sentiamo echeggiare uno o più di questi aspetti, l’asimmetria, i mind games, e l’identità di genere, fermiamoci. Potrebbe andarne del bene dell’altra persona, del futuro che insieme pensiamo di costruire, ma anche del nostro benessere personale.   

La psicosi da algoritmo

Si deve a Fabio Mellano, psicologo clinico e neuropsicologo, l’introduzione del concetto di psicosi da algoritmo. Egli definisce in questo modo la condizione di quei pazienti con deliri di riferimento, che trovano nei social network delle conferme alle loro convinzioni patologiche. Il concetto psicosi da algoritmo, però, può essere esteso a gran parte della nostra attività social. 

Delirio di riferimento e algoritmo

Il delirio di riferimento è la condizione in cui una persona ritiene che un evento comune, il testo di una canzone, la pagina di un quotidiano ecc, contengano dei riferimenti diretti a lei. Il funzionamento dei social network, come vediamo tutti i giorni, si presta in maniera elettiva a questa distorsione percettiva, e ciò grazie al funzionamento dell’algoritmo

Un social network pubblica ogni giorno miliardi di post. L’algoritmo è quel meccanismo che ci consente, una volta entrati in bacheca, di visualizzare soltanto i post che ci interessano maggiormente. Va da sé che, chi soffre di un disturbo psicotico, è particolarmente esposto a fraintendere la logica di tale funzionamento. 

Nel caso rilevato dal dott. Mellano, un paziente con delirio di riferimento si era invaghito dell’attrice americana Jenna Ortega. L’ossessione per questa artista, aveva portato il ragazzo a visualizzarne in maniera compulsiva immagini e video sui social network. Il risultato era stato un delirio di riferimento, disturbo di cui, però, il giovane, non aveva mai sofferto in precedenza. L’algoritmo, infatti, aveva determinato un’esclusiva presenza dell’attrice tra i contenuti, fino al punto in cui il paziente aveva perso il contatto con la realtà. Nella fattispecie egli aveva cominciato a ritenere che, con la sua presenza, Jenna Ortega volesse comunicargli alcune cose, tra cui ad esempio il suo amore per lui, oppure dargli delle indicazioni pratiche per la sua vita quotidiana.

Fabio Mellano diede, per l’appunto, all’insorgenza di questo disturbo, il nome di psicosi da algoritmo

Il senso del luogo

Grazie all’algoritmo, dunque, lo spazio virtuale è un contesto cucito ad hoc su di noi. La principale conseguenza è che talvolta nel social network siamo più a nostro agio che nel mondo reale. 

Quando entriamo in rete, infatti, immediatamente veniamo riconosciuti, e in qualche modo il mondo si apre al nostro passaggio. Molte persone, di questi tempi, tendono a innervosirsi quando guidano nel traffico, o quando entrano in banca, o al supermercato, anche perché nessuno li riconosce, nessuno li lascia passare. Questo è certamente idiosincratico e in qualche modo spiazzante rispetto alla realtà quotidiana del web, che al contrario quando ci vede arrivare, ci abbraccia, ci capisce al volo.

Il narcisismo, se vogliamo, funziona proprio in questo modo: il narcisista non sa di essere adulato, ma si accorge quando non lo è. Così nel corso della nostra giornata passiamo più volte dal cyberspazio, fatto a nostra guisa grazie all’algoritmo, al mondo reale, in cui dobbiamo fare la coda, chiedere per favore, ecc… . Di conseguenza, non stupisce se da un lato la realtà quotidiana ci irrita, ci delude, ci deprime, mentre e dall’altro il narcisismo è condizione sempre più diffusa. 

In breve, credo si possa estendere il concetto di psicosi da algoritmo coniato da Mellano, per dire che gran parte della nostra attività sui social network, in quanto determinata (segretamente) da tale funzionamento, sia caratterizzata da una forma di dissociazione e di distacco (per quanto assai transitorio) dalla realtà. In qualche modo tutta la mole di pensieri, riflessioni, convinzioni, maturati, o suscitati, dal web, e in particolare dai social network, potrebbe andare sotto la definizione di “psicosi da algoritmo”. Cosa da tenere in gran conto, quando si utilizzano i social per farsi opinioni o prendere decisioni. 

Laureati: come trovare lavoro?

Laureato e intellettuale

La formazione universitaria lascia una competenza tecnica (le conoscenze professionali in un certo ambito), e una competenza strategica (saper impiegare tatticamente tali conoscenze, per poter affrontare casi specifici).
Ne discende che al termine di un percorso di laurea uno studente abbia sviluppato parallelamente almeno due diverse capacità, una direttamente collegata all’oggetto di studio, l’altra al suo utilizzo. 
Proprio questa capacità di utilizzare la conoscenza andrebbe presa in esame quando ci si mette alla ricerca di un impiego, perché lo sappiamo bene, il mercato del lavoro è cambiato, e la mansione pura non esiste quasi più. 


Tutti influencer  

La smania con cui molti laureati si scatenano a pubblicare video online, è la cifra dell’illusione di avere grandi risultati con minimi sforzi. Se questo è vero per alcuni fortunati, non può, tuttavia, valere per tutti, e in linea di massima per avere successo, anche poco, è sempre necessario faticare molto, moltissimo. 
È stato così per i grandi musicisti, per i poeti e gli scienziati di ogni tempo, è così anche oggi, che la globalizzazione ha azzerato le distanze, e aumentato esponenzialmente, come vediamo ogni giorno, l’aggressività. 
Quando il laureato si mette alla ricerca di un impiego, quindi, dovrebbe anzitutto fare due operazioni. La prima è non dare per scontato che l’ambito di questo lavoro sia quello della sua formazione. L’università è anzitutto una maestra, e insegna a usare la testa. La seconda, partire dall’analisi del contesto di riferimento. E qui intendo quello fisico, non quello virtuale, dato che a parte il lavoro di influencer tutti gli altri lavori si svolgono in uno spazio e in un tempo ben definiti. 


Cosa so fare?


La ricerca di un lavoro, così, è sempre più un chiedersi: con le mie caratteristiche, le mie competenze e i miei interessi (ossia con le competenze che oggi non ho, ma che potrei avere domani) quale mansione potrei ricoprire? In quel ambito potrei apportare un mio contributo? 


L’abbiamo detto, il lavoro è cambiato. Per questo deve cambiare drasticamente anche l’atteggiamento verso il lavoro, a partire dalla fase in cui si entra nel mercato e si cerca un impiego, ossia in cui si offre la propria competenza di saper fare qualcosa.