Padri assenti: ‘presenti nell’ombra’, ‘non pervenuti’, ‘evasi’.

Un padre può risultare assente per ragioni indipendenti dalla sua volontà. La mia intenzione qui non è quella di accusare, ma di analizzare serenamente, nel tentativo di comprendere; Aiutare i figli a capire come e perché hanno sentito un vuoto da quella parte, e aiutare i padri a prendere coscienza di come alcuni loro atteggiamenti potrebbero essere letti, contro la loro stessa intenzione, come disinteresse.

Fasi diverse, percezioni diverse 

Il peso del padre nella vita di un ragazzo o di una ragazza oscilla in maniera diversa a seconda della fase di crescita. Durante l’infanzia i bambini hanno bisogno di una presenza fisica, concreta, intendo anche a livello di affettuosità. Andare a scuola, agli allenamenti, o in vacanza non è la stessa cosa senza un padre, o senza la presenza tangibile di un padre. Durante l’adolescenza invece la presenza deve essere meno fisica e un po’ più psichica. I ragazzi vogliono sentirsi meno pressati, meno controllati, ma non per questo meno considerati, spronati, o anche ostacolati, nel caso facessero cose al limite del lecito. 

Metto in evidenza almeno tre casi in cui un padre possa essere percepito come assente. 

Padri ‘nell’ombra’

Il primo è quello degli uomini presenti, ma nell’ombra. In questi casi il padre c’è ma soltanto sullo sfondo: è una sagoma seduta sul divano, senza voce, e il cui sguardo non si posa mai sul figlio. La madre bada a tutte le esigenze del bambino, lo aiuta nei compiti, incontra gli insegnanti, ecc…, ma ogni tanto agita lo spettro paterno: ‘guarda che lo diciamo a tuo padre’, oppure ‘se lo scopre papà sono dolori’.

Questi padri non si vedono, sono muti, ma esistono, si percepisce che ci sono. A loro è sempre garantito un posto a tavola, per esempio, o un posto alla recita di fine anno; I figli faranno sempre loro una telefonata dall’aeroporto, poche parole formali, per dovere di cronaca. E’ poca roba, d’accordo, ma è pur sempre qualcosa. Il figlio ha verso il padre una specie di timore reverenziale, non di più; Del resto il padre non ha neppure mai niente da dirgli, nel bene come nel male. Così il figlio sente questo padre come assente, lo ricorderà a posteriori come assente, pur se di fatto era in casa, vivevano sotto lo stesso tetto. 

Padri ‘non pervenuti’

Ben diversa la situazione dei padri che potremmo definire ‘non pervenuti’. Il padre non pervenuto è un uomo che viaggia molto, o passa il suo tempo fuori casa: in cantina a fare le sue cose, come si usava un tempo, oppure al bar con gli amici, oppure in qualunque altro luogo o situazione che non sia a casa con il resto della famiglia. Il padre ‘non pervenuto’ manca tutti gli appuntamenti importanti della vita dei figli. Il saggio di danza, il primo concerto, l’esame per la patente. Questi padri hanno impegni inderogabili, e i figli passano la vita ad allungare il collo nella speranza di vederseli arrivare, di vederli presenti, ma invano. I figli di questi uomini non di rado covano dei risentimenti, perché hanno l’impressione di essere messi sempre al secondo posto.

Padri ‘evasi’

Infine c’è il padre ‘evaso’. E’ quello che ha vissuto una vita di coppia travagliata, conclusa con una separazione conflittuale. Secondo le sue intenzioni ha abbandonato i figli nelle grinfie della madre ed è scappato a rifarsi un’altra vita. Nella percezione del figlio, invece, il padre evaso è una specie di traditore, un codardo, che ha lasciato la nave in balia della tempesta anziché dare il suo contributo per aiutare i passeggeri. 

Il figlio del padre evaso non nutre disillusione o risentimento: può arrivare a sviluppare un rancore molto profondo per il genitore, anzi a generare man mano un astio verso tutto ciò che assume caratteristiche ‘paterne’, come per esempio gli insegnanti o le autorità. Se un figlio (o una figlia) percepisce il padre come un vile che lo ha abbandonato, può arrivare a detestare gli uomini, e in certi casi persino a rinunciare ad avere una famiglia propria, per non avere mai più a che fare con un ruolo come il suo.    

Generazione influencer: da anticonformisti a moltiplicatori di conformismo

Come detto in un precedente articolo siamo una generazione di (aspiranti) influencer

Non c’è niente di male sia chiaro, anzi è buon segno volersi rapportare agli altri in termini di guida, leader, following: significa che crediamo in noi stessi e pensiamo di poter aiutare il prossimo, consigliarlo, illuminarlo.   

Tuttavia c’è qualcosa che non mi torna nella dinamica ‘sé – altri’, specie se rapportata a quella in voga prima dei social networks

Anticonformismo

Prima del web distinguevi le persone eccentriche perché erano stravaganti. In tv si aggiravano personaggi che parlavano e vestivano in maniera stana, persino buffa, e coniavano termini che la gente ripeteva per darsi un tono o per ridere tra amici. E’ il caso del giornalista Giampiero Mughini, e del suo famoso ‘aborro’, o prima di lui del professor Gianluigi Marianini, reso noto dal programma ‘Lascia o raddoppia’ di Mike Bongiorno. O di altri che hanno avuto minor successo, come il cantante Adriano Celentano, meteora come presentatore del varietà televisivo. 

L’eccentrico era anzitutto anticonformista. C’era un conformismo di facciata, democristiano, potremmo dire: istituzionale, rassicurante, vestito grigio e cravatta. E poi c’era l’anticonformismo: farsi notare, rompere gli schemi.

Alla lunga, poi, questa cosa di rompere gli schemi si è un po’ arenata: bisognava capire anzitutto quali fossero gli schemi da rompere, ed era lì che il discorso si faceva più complicato. Ossia, tutti ammettevano l’esistenza di schemi dettati dalla società, ma era scarso il consenso su quali fossero, perché ciascuno intendeva i propri. 

Così ad un certo punto, (imperava il relativismo e il pensiero debole) ci si è resi conto  che ciascuno poteva essere anticonformista a modo proprio, e quindi, in sostanza, essere anticonformisti era diventata una nuova forma di conformismo. Insomma, non se ne usciva più. 

Molto più che leader: influencer

Oggi il web ha trasformato la voglia di protagonismo da eccentricità a esempio. L’influencer è un moltiplicatore di conformismo, un maître à penser che trasforma un sentire collettivo in espressione verbale: se vogliamo l’influencer è l’omologazione elevata a potenza, anzi a regola di vita. Quanti più followers riesco a convincere che si deve vivere come me, tanto più le regole del web (leggi: regole del mercato) mi sapranno premiare. 

Se l’anticonformista, l’anticonvenzionale, il ribelle protorivoluzionario, erano in fondo una sfida (per quanto conformista) alla società di massa, l’influencer è l’adeguamento all’irreversibile stato di cose. E’ accettare che se non è più possibile emergere come alternativi, tanto vale provare a emergere come super adattati. 

L’autosabotaggio

L’autosabotaggio seriale è la conferma di un’ipotesi su di sé. 

Alcuni individui attuano regolarmente comportamenti che fanno saltare piani ormai conclusi: sono i peggiori nemici di loro stessi. 

Questi individui sono scissi tra due o più idee che li riguardano: si tratta di teorie che si escludono a vicenda, e che pertanto sono fonte di travaglio e sofferenza.

(Preciso che sto parlando dell’autosabotaggio seriale perché un singolo evento di autosabotaggio potrebbe essere un fatto di autodifesa, come un lapsus o un atto mancato, ma è fatto più raro, e dal mio punto di vista non patologico, non patogeno, non degno di particolare attenzione.)  

‘Io non sono capace’

Una di queste teorie recita cose del tipo: ‘tu sei un buono a nulla’ oppure ‘chi ti credi di essere, non sei nessuno’ o ‘non sei mai stato capace di fare cose di questo tipo’ ecc… Si tratta di teorie che negano il valore individuale, sono svalutanti o denigranti. Questa narrazione interna convive, da qui arriva il disagio, con un’altra (o più d’una) che al contrario è positiva, che sottolinea la forza e la competenza dell’individuo, che afferma la sua bravura o abilità in qualche ambito. Queste due (o più) teorie, come si vede, non possono convivere. Se intendo, poniamo, scalare una montagna, ma dentro di me c’è un’idea fissa che dice ‘non ci riuscirai mai, chi ti credi di essere’, e al contempo ce n’è un’altra che dice ‘sei bravissimo, ce l’hanno fatta in molti, puoi farcela anche tu’, a chi devo dare ascolto? Se riuscirò nell’impresa dovrò sconfessare una delle due, se non ci riuscirò dovrò sconfessare l’altra. 

Identificazione inconsapevole

Gli autosabotatori hanno sovente avuto un genitore svalutante, violento/aggressivo o denigrante/infamante. (Dico genitore ma intendo caregiver o Altro significativo, non è necessariamente detto che si tratti di un genitore, anche se per lo più è così.) 

La deprivazione affettiva, la spoliazione, o l’intrusione parentale realizzata dal genitore (suo malgrado, molto probabilmente) ha condotto il figlio ad una sorta di identificazione inconsapevole. Il figlio prende le distanze dal genitore, talvolta in maniera netta, se non violenta, ma ne è invaso: la sua identità ne è costituita, la sua personalità ha fatto proprie le teorie del genitore svalutante

L’identificazione inconsapevole con il genitore deprivante, elemento costitutivo  degli spoilt children, è alla base dell’autosabotaggio. 

Il progetto di vita dell’autosabotatore deve essere cambiato anzitutto estraendo dalla sua personalità, dalla sua narrazione interna, la parte costituita da quel ‘tu non sei capace’ che non gli appartiene, e che è frutto del troppo amore che egli ha avuto per quel genitore inadeguato, ma col quale egli è così fortemente identificato. 

Il tossicodipendente e la madre disfunzionale

Vorrei mettere in evidenza una delle dinamiche tipiche della tossicodipendenza: il rapporto espulsivo/aggressivo del soggetto tossicodipendente con la madre disfunzionale. 

In alcuni casi il rapporto con la madre, soprattutto se depressa o instabile emotivamente, può assumere la caratteristica di una battaglia per la sopravvivenza, non soltanto psichica. Alcune donne possono diventare minacciose o pericolose per i loro figli, e mettere in atto anche comportamenti al limite della legalità.

Può avvenire che il figlio venga identificato, inconsapevolmente, come il responsabile di qualcosa di negativo per la coppia o per la madre stessa. Poniamo la fine di un periodo di stabilità, o la perdita dell’indipendenza. L’ambivalenza vissuta dalla donna è altamente distruttiva: ama il figlio, ma allo stesso tempo lo vive come un peso, sente che egli le ha tolto qualcosa. Il figlio di conseguenza soffre, e cerca disperatamente il modo per accontentare la madre, per renderla soddisfatta. Per esempio si adegua alle sue richieste, o si dedica alle cose che lei ama. Oppure, al contrario, entra nella dinamica aggressiva di rigetto reciproco e scatena contro la donna attacchi sempre più violenti.

Nel caso che vorrei descrivere, il figlio individua anche una terza strada: la tossicodipendenza.

L’uso smodato di droghe ha delle conseguenze molto significative. Da un lato spegne i dolori del giovane: egli ipersocializza con i coetanei, sentendosi (finalmente) amato e rispettato. In questo caso le droghe fungono letteralmente da farmaco auto somministrato, e il soggetto realmente sta meglio quando le assume. Perché al contempo seda le ansie e migliora la performance e la visibilità tra gli amici. Inoltre nel rapporto con il gruppo dei pari può comparire la dipendenza affettiva: le istanze di contenimento, che un individuo dovrebbe trovare nel nucleo famigliare, vengono trovate al suo esterno, creando così un precedente pericoloso: la separazione dai nuovi punti di riferimento potrebbe diventare problematica. 

Dall’altro lato l’uso di droghe ha un significato relazionale: il messaggio alla madre. L’attacco frontale alla madre, (sempre come reazione alla sua ambivalenza) è sia nei termini di una violenza cieca che il soggetto esprime su di sé, (iniettare droghe in vena è gesto furiosamente violento) ma anche nei termini di una (ennesima?) drammatica richiesta di attenzione che il figlio avanza. 

In questi casi l’obiettivo del trattamento è la cura della ferita narcisistica originaria. Ovvero quella sensazione di essere stati espulsi e successivamente aggrediti, mai abbastanza apprezzati, talvolta addirittura detestati.

Dico che questo è l’obiettivo della cura perché, e torno all’inizio di questo articolo, l’ambivalenza materna (il rapporto espulsivo/aggressivo) è originata dal fatto che la madre abbia visto nel figlio (magari molto inconsapevolmente) un ostacolo al proprio percorso di vita. Questa ipotesi, qualora risultasse vera, dovrebbe però passare attraverso un’analisi e una attribuzione di significati da parte del figlio. Perché la madre ha avuto quella sensazione in quel particolare momento della sua vita? È stata aiutata da qualcuno, oppure ha affrontato da sola quella fase critica? Qual è stato il ruolo del padre nella vicenda? 

Rispondere a queste domande, e ad altre di questo tipo, significa uscire da una sensazione vaga e pre consapevole di malessere, quella del bambino male accolto, per entrare in una fase di pensiero critico e adulto, quella della responsabilità: in cui l’individuo è in grado comprendere le ragioni della sofferenza altrui, di uscire dalla relazione di dipendenza e di entrare in una relazione di aiuto reciproco

Mamme sotto stress. Il sovraccarico mentale come fattore di rischio.

Il sovraccarico di molte mamme odierne è un fattore di rischio per il loro equilibrio mentale

La distribuzione degli impegni dei figli nell’arco dei sette giorni, diversamente da quanto avveniva un tempo, è parte integrante di questa condizione. Oggi il sistema famiglia deve adeguarsi in modo diverso, e non sempre purtroppo le mamme trovano l’adeguato sostegno. 

Le ricadute sulla salute mentale vanno dai problemi del sonno, in genere i primi a comparire, ad ansia generalizzata, a umore altalenante, fino alle caratteropatie. 

Le mamme sotto stress sentono di essere meno lucide, risolvono i problemi più lentamente di prima, e hanno la sensazione che senza il loro contributo tutto può fermarsi. E’ importante sottolineare che queste mamme non sono più stanche fisicamente, il loro sovraccarico è mentale. 

L’aiuto che dovrebbero sollecitare è nel funzionamento del sistema famiglia, del resto lo stesso che le ha condotte a questa condizione perché incapace di sostenerle adeguatamente. Se il sistema è assente, queste mamme devono trovare il modo di scegliere quali impegni dei figli continuare a gestire, e quali invece rimandare al futuro. 

Per la loro salute mentale, e naturalmente per quella dei loro figli.