Autore: Fabio Convertino

  • Il tossicodipendente e la madre disfunzionale

    Il tossicodipendente e la madre disfunzionale

    Vorrei mettere in evidenza una delle dinamiche tipiche della tossicodipendenza: il rapporto espulsivo/aggressivo del soggetto tossicodipendente con la madre disfunzionale. 

    In alcuni casi il rapporto con la madre, soprattutto se depressa o instabile emotivamente, può assumere la caratteristica di una battaglia per la sopravvivenza, non soltanto psichica. Alcune donne possono diventare minacciose o pericolose per i loro figli, e mettere in atto anche comportamenti al limite della legalità.

    Può avvenire che il figlio venga identificato, inconsapevolmente, come il responsabile di qualcosa di negativo per la coppia o per la madre stessa. Poniamo la fine di un periodo di stabilità, o la perdita dell’indipendenza. L’ambivalenza vissuta dalla donna è altamente distruttiva: ama il figlio, ma allo stesso tempo lo vive come un peso, sente che egli le ha tolto qualcosa. Il figlio di conseguenza soffre, e cerca disperatamente il modo per accontentare la madre, per renderla soddisfatta. Per esempio si adegua alle sue richieste, o si dedica alle cose che lei ama. Oppure, al contrario, entra nella dinamica aggressiva di rigetto reciproco e scatena contro la donna attacchi sempre più violenti.

    Nel caso che vorrei descrivere, il figlio individua anche una terza strada: la tossicodipendenza.

    L’uso smodato di droghe ha delle conseguenze molto significative. Da un lato spegne i dolori del giovane: egli ipersocializza con i coetanei, sentendosi (finalmente) amato e rispettato. In questo caso le droghe fungono letteralmente da farmaco auto somministrato, e il soggetto realmente sta meglio quando le assume. Perché al contempo seda le ansie e migliora la performance e la visibilità tra gli amici. Inoltre nel rapporto con il gruppo dei pari può comparire la dipendenza affettiva: le istanze di contenimento, che un individuo dovrebbe trovare nel nucleo famigliare, vengono trovate al suo esterno, creando così un precedente pericoloso: la separazione dai nuovi punti di riferimento potrebbe diventare problematica. 

    Dall’altro lato l’uso di droghe ha un significato relazionale: il messaggio alla madre. L’attacco frontale alla madre, (sempre come reazione alla sua ambivalenza) è sia nei termini di una violenza cieca che il soggetto esprime su di sé, (iniettare droghe in vena è gesto furiosamente violento) ma anche nei termini di una (ennesima?) drammatica richiesta di attenzione che il figlio avanza. 

    In questi casi l’obiettivo del trattamento è la cura della ferita narcisistica originaria. Ovvero quella sensazione di essere stati espulsi e successivamente aggrediti, mai abbastanza apprezzati, talvolta addirittura detestati.

    Dico che questo è l’obiettivo della cura perché, e torno all’inizio di questo articolo, l’ambivalenza materna (il rapporto espulsivo/aggressivo) è originata dal fatto che la madre abbia visto nel figlio (magari molto inconsapevolmente) un ostacolo al proprio percorso di vita. Questa ipotesi, qualora risultasse vera, dovrebbe però passare attraverso un’analisi e una attribuzione di significati da parte del figlio. Perché la madre ha avuto quella sensazione in quel particolare momento della sua vita? È stata aiutata da qualcuno, oppure ha affrontato da sola quella fase critica? Qual è stato il ruolo del padre nella vicenda? 

    Rispondere a queste domande, e ad altre di questo tipo, significa uscire da una sensazione vaga e pre consapevole di malessere, quella del bambino male accolto, per entrare in una fase di pensiero critico e adulto, quella della responsabilità: in cui l’individuo è in grado comprendere le ragioni della sofferenza altrui, di uscire dalla relazione di dipendenza e di entrare in una relazione di aiuto reciproco

  • Il fascino del numero 10: il romanticismo nel calcio.

    Il fascino del numero 10: il romanticismo nel calcio.

    I diversi ruoli degli sport di squadra seducono gli appassionati in modo viscerale, ma ciascuno diversamente. Perché? C’è una differenza tra un ruolo e l’altro? 

    C’è una grande differenza tra ruoli, e si possono riconoscere almeno due ordini di motivi, che sono interconnessi, ma separati. 

    Il primo è legato all’importanza che un ruolo ricopre nel funzionamento della squadra, ovvero ai fini del raggiungimento dell’obiettivo. Possiamo definire questo aspetto come ‘tecnico e/o tattico’, ovvero come genuinamente sportivo. Nel ciclismo, per esempio, il gregario è sentito dal pubblico come meno importante del capitano, e si è propensi a ritenere che diversi gregari potrebbero fare per il capitano più o meno lo stesso lavoro. Così il gregario è un ruolo che non attira molto le fantasie del pubblico, o meglio, le attira, ma meno del capitano della squadra. 

    Il secondo è legato al peso relativo che uno specifico interprete riesce a dare a quel particolare ruolo. Questo aspetto, come si può capire, non è ascrivibile al ruolo in sé, ma alle fantasie che un protagonista scatena nel pubblico. Potremmo definire questo aspetto come romantico/idealista. Nell’esempio del ciclismo posso citare la famosa frase di Ferretti: ‘Un uomo solo è al comando: la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi’. Ammetterete che questa frase è in grado di suscitare nel pubblico fantasie quasi bibliche: di conquista, di vittoria per distacco, persino di riscatto. Nel Piemonte del 1949, poi, poche settimane dopo la caduta del Grande Torino, sentire Ferretti alla radio deve avere riempito gli occhi di lacrime. Fausto Coppi non era più Fausto Coppi: era tutti gli italiani, compresi i fans di Bartali, che comunque era secondo. 

    Allo stesso modo avviene nel calcio. La smisurata passione per questo sport deriva dal fatto che ad un interesse che per l’appunto si può definire tecnico/tattico, che riguarda l’essere tifosi, l’occuparsi di quale giocatore in quale ruolo potrebbe essere più utile alla squadra, si associ l’interesse romantico/idealista, che riguarda il fatto di essere umani, di avere delle fantasie di trionfo. 

    Prendiamo ad esempio il magico numero 10 del calcio, il cosiddetto regista.  

    Il 10 del calcio è il leader per eccellenza. Punto di riferimento per i compagni, la mente del gioco: imposta, manda gli altri in rete, e se necessario finalizza. Sovente il 10 è anche il rigorista della squadra, ovvero quello che si assume le responsabilità maggiori. Queste responsabilità di conseguenza diventano gloria, e la sua visibilità aumenta. Il 10 è il comandante delle operazioni. 

    Questi sono gli aspetti che abbiamo definito tecnici e/o tattici, ovvero che sono relativi al ruolo in campo del numero 10. Incendiano la fantasia del pubblico del calcio ad ogni latitudine. Ovunque, infatti, un appassionato sarà portato ad identificarsi con il comandante, con il regista delle operazioni, con il metronomo dei tempi di gioco. E’ un fatto di immedesimazione immaginativa, o di neuroni specchio, se preferite. In ogni stadio, di qualunque categoria, i cuori battono per quel giocatore che, in mezzo al campo, continua ricevere palloni dai compagni, come se fosse l’unico a capirci qualcosa. 

    L’altro aspetto è quello romantico/idealista. Tutti i riferimenti immaginativi del regista, le componenti legate al suo ruolo così importante ai fini del raggiungimento dello scopo principe del gioco del calcio, si fondono con le fantasie che un particolare giocatore scatena. Così un atleta prestante fisicamente scatena fantasie di scontri fisici, di duelli cavallereschi con gli avversari, mentre un giocatore molto tecnico suscita fantasie di altro tipo. E i tifosi amano immaginare i loro eroi fare colpi sensazionali contro i rivali di sempre: nessuno sogna di battere una squadra sconosciuta o amica. Questo significa solo una cosa, che le componenti romantico/idealistiche del tifo sportivo sono molto più rilevanti di quanto alcuni presidenti vorrebbero ammettere. 

    Negli sport di squadra, pertanto, il pubblico viene sedotto in maniera diversa dai diversi ruoli in campo. I ruoli degli sport denotano elementi tecnico e/o tattici che riguardano direttamente l’obiettivo di gioco, e che scatenato l’identificazione immaginativa del tifoso con il ruolo all’interno di un gruppo di lavoro. E denotano anche elementi di tipo più direttamente romantico e idealista, che fanno scattare le molle della fantasia. 

  • Psicologia ambientale: l’uomo in montagna. (Svolta green e turismo consapevole)

    Psicologia ambientale: l’uomo in montagna. (Svolta green e turismo consapevole)

    Lo stato d’animo influenza l’ambiente. Per questo bisognerà ripensare anche al turismo

    L’egocentrismo narcisista fa dell’uomo il padrone della natura. Lo vediamo nel turismo di massa, (o d’assalto) privo di etica, il cui fine è unicamente ludico. Non c’è relazione con il luogo visitato, non c’è interesse per la sua conservazione (non c’è in vero, necessariamente, un intento distruttivo, ma che si debba negare che ci sia è già un paradosso).

    La svolta green ci impone ci ripensare anche al turismo, al tipo di rapporto che abbiamo con i luoghi che visitiamo. La psicologia ambientale ci insegna che le condizioni ‘ambientali’ influiscono su di noi più di quello che crediamo, e così sarà vero anche il contrario: il nostro stato d’animo, il nostro atteggiamento, influenzano l’ambiente in cui ci muoviamo.  

    Ce ne accorgiamo in alcune drammatiche occasioni, quando il rapporto con la natura sfugge di mano, e da padrone l’uomo si scopre ospite indesiderato. La mia riflessione non è moralista, (ovvero etica) ma è di carattere psicologico. C’è un atteggiamento dietro ad ogni azione che compiamo, e questo atteggiamento determina in gran parte l’esito di quella azione. Faccio un esempio: un ragazzo va in discoteca e invita a parlare una per volta tutte le ragazze presenti nel locale. In questo caso il suo atteggiamento verso l’esperienza discoteca è molto chiaro. Questo atteggiamento influenzerà fortemente la sua esperienza: quando arriverà l’ora di chiusura, infatti, egli avrà ballato poco, ma avrà fatto molte conoscenze. La stessa cosa è vera anche per il turismo. A Roma normalmente non ci tuffiamo nella fontana di Trevi: sappiamo infatti che non è quello lo spirito giusto con cui si va a Roma. 

    Perciò dobbiamo chiederci ‘qual è lo spirito più corretto con cui vivere la montagna?’ (O il mare, i laghi, ecc… .) 

    La risposta a questa domanda è una risposta di consapevolezza psicologica, non di etica filosofica. Con quale atteggiamento vado a fare una determinata gita? Cosa mi aspetto da questa esperienza? Faccio come il ragazzo in discoteca o come il turista davanti alla Fontana di Trevi? 

    Ecco una situazione in cui svolta green e psicologia si danno la mano per migliorare il benessere dell’individuo, della società e dell’ambiente. 

  • Perché un leader è meglio di un trascinatore? L’esempio degli sport di squadra.

    Perché un leader è meglio di un trascinatore? L’esempio degli sport di squadra.

    In tema di leadership è molto importante la differenza tra leader e trascinatore. Prendiamo ad esempio gli sport di squadra: un leader sovente è anche un trascinatore, ma non tutti i trascinatori sono dei leaders.

    Molti credono che saper portare una squadra alla vittoria sia capacità di leadership. Che anche dare l’esempio sia leadership, che compattare lo spogliatoio sia segno di leadership, ecc… . Queste caratteristiche sono parzialmente anche quelle del leader, non c’è dubbio, ma sono soprattutto tipiche di un trascinatore. 

    Il condottiero amato dal pubblico, che si ‘prende la squadra sulle spalle’, che suona la carica, quello è un trascinatore. 

    Sia chiaro, il trascinatore è utilissimo ad un gruppo; inoltre è molto amato dal pubblico. 

    Ma il trascinatore non è necessariamente anche un leader. 

    Nella concezione contemporanea il leader non è solo uno che dà l’esempio: il leader induce gli altri a fare cose, ad agire come corpo unico. 

    Il leader per esempio determina un comportamento senza richiederlo. Oppure induce un pensiero, (di gruppo) o al momento opportuno sa indurre cambiamento. Il leader porta un gruppo a pensare prima ancora dei singoli, ad essere entità autonoma, un qualcosa di più della somma degli individui.

    La differenza è sostanziale: negli sport di squadra, ma non solo, è meglio un leader che un trascinatore

  • Considerazioni inattuali sull’organizzazione e gestione delle risorse umane: gestire il personale tra pensiero forte e pensiero debole. (Da un lavoro del 1998)

    Considerazioni inattuali sull’organizzazione e gestione delle risorse umane: gestire il personale tra pensiero forte e pensiero debole. (Da un lavoro del 1998)

    Indice:

    • L’azienda post-moderna.
    • Valutare i collaboratori: la riscoperta del potenziale.
    • Il compito impossibile nei servizi: ovvero il paradigma del molteplice.

    L’azienda post-moderna

    Ciò che è Grande è necessariamente
    oscuro agli uomini Deboli.
    Ciò che può essere reso chiaro all’Idiota
    non merita la mia attenzione.

    (William Blake)

    L’epoca di continue evoluzioni e rivolgimenti nella quale stiamo imparando a vivere si presenta in modo totalmente diverso rispetto alle epoche che l’hanno preceduta. Si può affermare questo per almeno due ordini di motivi: il primo è che, come detto, oggi tutto cambia rapidamente: ideologie politiche, filosofie, tecnologie, equilibri sociali, tutto vive nello spazio di un lasso di tempo appena sufficiente a progettare una prospettica differente. Il secondo motivo è che chiunque può riflettere su questa epoca, e prenderne coscienza. La società medievale o rinascimentale, tanto per intenderci, sono rimaste per secoli uguali a loro stesse, e certamente i contadini o gli artigiani del tempo non potevano o non sapevano riflettere su questo.
    Partendo da questa duplice condizione alcuni filosofi hanno ravvisato in questi anni un cambiamento non tanto all’interno della società, quanto piuttosto un cambiamento della società stessa. Secondo questi studiosi starebbe avvenendo il passaggio da una società tipicamente industriale ad una società che essi definiscono post-industriale.
    Uno degli elementi della società post-industriale è, come vedremo meglio nella terza sezione, il ruolo di predominio (diciamo così, o economicamente di maggior prestigio) dei servizi sull’industria. Ma in senso lato si intende fare riferimento a tutta una serie di connotati tipici del nostro modo di vivere che erano del tutto assenti, per esempio, nell’Italia degli anni Cinquanta, o negli Usa degli anni Venti.
    A livello sociologico questi connotati tipici sono ben riassunti dal paradigma della ‘società di massa’, a livello artistico dal paradigma del ‘postmoderno’, a livello politico dal paradigma della ‘fine della storia’, ecc…

    Soggetto tipico di questa nuova società è il cosiddetto ‘pensatore debole’ (soggetto debole a me non piace, perché l’individuo non è debole, lo è la posizione del suo pensiero). Il pensiero debole (si veda Vattimo 1983, e altri) è tipico di colui che, avendo percepito la potenziale contraddizione insita nella natura delle cose, ha imparato a dubitare sistematicamente di tutto, non accettando più assiomi fondamentali come dogmi, e quindi non avendo a disposizione verità assolute, certezze metafisiche, risposte pronte, indubitate, definitive.
    Nel linguaggio di Fukuyama, Liotard, Derrida, Vattimo o Thriller espressioni come società di massa, postmoderno, deregulation economica, fine della storia, postindustriale e altre sono pressoché sinonimi. Sono infatti adatte da sole ad indicare la situazione cui essi vogliono riferirsi: l’habitat del pensatore debole.
    Tale habitat è costituito dal mondo occidentale odierno, in cui esistono centinaia di lavori differenti, decine di diversi corsi da laurea, molteplici alternative di voto politico e…ampie gamme di scelta su dove passare le vacanze. In questo mondo occidentale qualunque attività umana viene giocata sulla molteplicità, sul pluralismo, e non esiste più un Vero e un Falso, tutto è relativo e soggettivo. E’ su questo palcoscenico che interpreta la propria esistenza il pensatore debole, il quale si accetta nella sua umana limitatezza di non avere più risposte indebitate su nulla.
    I due elementi, la società plurale e il soggetto indebolito che vive al suo interno, agiscono l’uno sull’altro come un meccanismo a feedback, rinforzandosi a vicenda: quanto più la società sarà in grado di proporre versioni alternative tutte ugualmente accettabili su un determinato argomento, tanto più il soggetto dovrà necessariamente relativizzare i propri punti di vista (indebolirsi). Del resto, quanto più i soggetti saranno non univocamente diretti e accetteranno come precondizione al loro esistere l’astensione da ogni presa di posizione, (così come proposto da Nietzsche e Heidegger) tanto più la società si presenterà come nebulosa e indistinta.

    Come nessun elemento della società può esistere senza essere influenzato da questo fenomeno, così anche l’azienda deve adeguarsi ai nuovi scenari culturali.
    In un celeberrimo fil dal titolo ‘Tempi moderni’, Charlie Chaplin descriveva con sarcasmo la condizione dell’operaio nella catena di montaggio. Quello era il modernismo. Se oggi i tempi sono postmoderni quel modo di impostare il sistema produttivo è superato. La variabilità dei mercati e la continua innovazione renderebbero desuete le modalità produttive di Charlie Chaplin.
    Per Frederick Taylor l’operaio non doveva pensare, doveva sapere avvitare bulloni. Oggi invece sappiamo che il successo commerciale di un prodotto è dato anche dalla buona motivazione di chi concorre a produrlo.
    Da quando scriveva Taylor ad oggi è passato un secolo (breve) di storia: Hitler, Stalin, il Sessantotto…e i Rolling Stones.
    Oggi esistono comitati di bioetica in quanto è diventato possibile brevettare sequenze genetiche, laddove fino a metà del secolo le donne non avevano neppure diritto di voto. Nel 1997 il Premio Nobel per la Letteratura è andato a Dario Fo, un giullare: forse davvero nella vecchia Europa un’epoca è conclusa.
    E’ quantomeno auspicabile che le aziende sappiano interpretare questo momento di transizione e che si adeguino prima che sia troppo tardi. Delineare linee guida non può fare parte di questo mio lavoro, ma ritengo necessario caldeggiare ai vertici di ogni azienda di tenere in debito conto le idee da cui abbiamo tratto spunto per queste riflessioni. Pena l’esclusione, ad opera del sistema, dal mercato e dalla vita produttiva in cui è inserita.

    Valutare i collaboratori: la riscoperta del potenziale.

    Così percorro l’arco della vita,
    torno da dove venni.

    (Friederich Hoelderlin)

    La valutazione dei collaboratori è momento gestionale topico all’interno della vita aziendale. Il dover giudicare l’operato delle persone che contribuiscono in maniera sostanziale al funzionamento dell’impresa, e che magari sono amici o colleghi stimati, è infatti attività tanto psicologicamente onerosa, quanto fondamentale e irrinunciabile. Elemento particolarmente disagiante di tale attività è che essa grava quasi interamente sui quadri, i quali possono non avere le competenze o la voglia di farla fino in fondo. Per questo essi hanno elaborato metodologie proprie, prendendo un po’ da varie fonti, mettendo insieme Freud, Kant, Weber, insomma facendo un ‘di tutto un po’, non sempre totalmente funzionale. L’oggettività in questi casi è nodo fondamentale, nonché prerequisito gnoseologicamente necessario in una visione neo empirista della disciplina. Così Auteri e Busana riassumono le metodologie e i criteri comunemente utilizzati per formulare giudizi sui collaboratori all’interno di un continuum ideale ai cui estremi situano da un lato tecniche a giudizio soggettivo e dall’altro tecniche a giudizio oggettivo. Brevemente la sintesi è la seguente:
    1. Valutazione dell’individuo nella sua globalità così come viene percepito dal valutatore. Giudizio espresso confrontando le caratteristiche del collaboratore con un modello comportamentale di carattere complessivo.
    2. Valutazione dell’individuo non nella sua globalità ma analiticamente attraverso il confronto tra il suo modo di lavorare e una serie di fattori pre definiti.
    3. Valutazione formale dei risultati di lavoro accanto ai relativi comportamenti organizzativi. L’oggettività è maggiore che nei precedenti metodi in virtù di una valutazione più spostata sui risultati.
    4. Valutazione del risultato raggiunto a fronte di un obiettivo assegnato. Il capo diretto definisce consensualmente con un collaboratore un risultato che questi dovrà raggiungere, e la valutazione sarà quindi inerente a ciò che è stato realizzato di quanto assegnato.

    Nel continuum tecniche soggettive – tecniche oggettive il quarto criterio risulta agli autori come particolarmente oggettivo. Secondo Auteri e Busana, quindi, la tecnica migliore per giudicare l’operato di un individuo è quella di verificare in modo empirico le ‘corrispondenze’ tra obiettivi prefissati e risultati raggiunti. Definendo meglio e schematizzando i due studiosi definiscono i punti 1 e 2 come ‘tecniche di valutazione dei meriti’, in quanto inerenti al persona, e i punti 3 e 4 come ‘tecniche di valutazione delle prestazioni’, in quanto valutative dei compiti svolti.
    All’interno di un panorama socio-culturale in cui predomina la molteplicità degli orientamenti, mi sembra di poter ritenere eccessivamente rigido e meccanicistico considerare come unica via alla valutazione la mera considerazione dei risultati raggiunti. In una visione ‘debole’, sfaccettata, della questione credo che si possa evocare la presenza di altri scenari come sfondo al passaggio input-output. Continuando la metafora informatica, ad esempio, una volta inserito un input in un PC, le probabilità di ottenere un determinato output saranno certamente dipendenti dalla qualità dell’hardware. Ma in caso di non raggiungimento del risultato sarebbe un errore di Simplicio non considerare l’eventualità di un problema di programmazione, di un malfunzionamento della tastiera, o di un blackout improvviso.
    Allo stesso modo valutare un collaboratore essenzialmente dagli obiettivi che è riuscito a conseguire tra quelli prefissati, potrebbe trarre in inganno circa le giuste attribuzioni delle cause per cui non ha raggiunto gli altri. Una crisi valutaria in un Paese fornitore di materie, il cambiamento di uno scenario politico, una scoperta biomolecolare, o anche la fine di una moda, sono tutte condizioni capaci, da sole, di fare saltare i piani di mercato di un’azienda.
    A mio avviso, quindi, il quadro – Salviati dovrebbe cercare di sollevare il velo di Maya della conoscenza sensibile, per raggiungere shopenhauerianamente il reale valore – noumeno del collaboratore e delle sue azioni. In questo modo avrebbe la possibilità di conoscere più intimamente i motivi di un eventuale fallimento della strategia concordata, e anche di percepire molto prima la capacità potenziale del suo subordinato. I vantaggi di conoscere il primo di questi elementi sono per lo più operativi, ma potrebbero essere anche economici: sarebbe meglio evitare di inviare alla concorrenza un collaboratore scartato su basi erronee. I vantaggi di conoscere il secondo elemento, il valore potenziale, sono anch’essi molto importanti, ma assumono tale importanza in un’ottica gestionale di medio periodo per la vita dell’azienda: il potenziale di un individuo è la possibilità stimata che egli possa fare fronte a impegni più difficili rispetto a quello appena portato a termine.

    La necessità di valutare le capacità potenziali di un collaboratore sono cresciute di pari passo con l’affermarsi dei sistemi di valutazione incentrati sul risultato, considerati più oggettivi (categorie 3 e 4 di Auteri – Busana). Questo nuovo sistema valutativo che possiamo considerare più maturo, è indice di una presa di coscienza degli orizzonti interpretativi proposti dai senatori deboli: i dati immediati cessano di essere espressione di verità univoche, tutto si problematizza, e anche nel valutare chi ci sta di fronte è necessario considerare visioni in trasparenza, appunto, di orizzonte.
    Del resto credo sia possibile affermare che in un rapporto lavorativo così importante, intenso, duraturo, come quello tra quadro e collaboratore, sia della massima importanza che il primo sappia bene fino a che punto potersi spingere nelle richieste al secondo, ovvero fino a punto potersi fidare di lui.

    Lo spazio a mia disposizione è estremamente esiguo in questa sede, e la complessità e l’ampiezza degli argomenti trattati sono tali da escludere una completa ed esaustiva trattazione in poche righe. Nonostante questo, però, cedo di aver indicato alcuni punti interessanti e di avere fornito spunti per considerazioni che, per quanto ‘inattuali’, possono aggiungere qualcosa alla già vasta letteratura di questo campo.

    Il compito impossibile nei servizi: ovvero il paradigma del molteplice.

    Imagination is more important
    Than knowledge

    (Albert Einstein)

    La nostra società, che in questa trattazione ho definito come ‘di massa’, ma soprattutto ‘post-moderna’ o ‘postindustriale’, assume tale definizioni nel confronto con altre società che non hanno ancora raggiunto la fase industriale. In Italia assistiamo da più di un decennio ad un fenomeno che non si presta a diversità di interpretazioni, cioè la progressiva diminuzione della forza lavoro impiegata nell’industria e conseguente aumento di quella impiegata nel settore terziario. Grande calderone in cui convergono le attività più diverse, il terziario è comunque definito come il settore dei servizi. Pertanto elemento caratteristico e determinante della società occidentale è la cultura del servizio.
    Conseguentemente con queste premesse è facile capire come il ‘servizio’ sia un concetto non direttamente identificabile come una specifica attività, ma al contrario vi sia una vasta gamma di ‘cose’ genericamente definibili come servizi.
    In alcune occasioni il compito che un servizio si trova a dover realizzare risulta essere particolarmente difficile, se non addirittura proibitivo. Si parla in questi casi di servizio dal compito impossibile. In questo lavoro ho provocatoriamente preferito affrontare i diversi argomenti di discussione mantenendo vivo e riconoscibile, anche solo fra le righe, il confronto tra un’ottica di ‘pensiero forte’ e una di ‘pensiero debole’ che ho sposato. (E lo posso affermare in virtù del mio pensiero forte.) I dibattiti, nella loro brevità, sono stati tuttavia condotti cercando di fornire da un lato alcune proposte teoriche univoche e definitive, (prospettiva forte) e dall’altro eventuali considerazioni o soluzioni più volutamente indistinte, opinabili, ermeneutiche (prospettiva debole). Il campo dei compiti impossibili nei servizi mi è sembrato, tra quelli studiati da questa disciplina, come particolarmente suscettibile di una visione, per così dire, ideografica, al punto che l’ho definito, nel titolo, il paradigma del molteplice.
    Importanti spunti di riflessioni sono stati tratti da un lavoro di Sergio Capranico (1992) nel quale l’autore presenta rischi e difficoltà di chi opera nei servizi dal compito impossibile.
    I compiti impossibili sono quelli di operatori che si occupano di pazienti con gravi patologie mediche o psichiatriche, magari ad esito infausto, di anziani non autosufficienti, portatori di handicap ecc… . La nuova cultura sanitaria assistenziale impone, anche eticamente, che tutti vengano curati per quanto possibile, e che a tutti venga fornita una buona assistenza. Ma il Ministero non prescrive come comportarsi con queste persone. Sovente la disperazione spinge i pazienti e/o i loro famigliari a idealizzare le capacità degli operatori, a sperare in riabilitazioni praticamente impossibili. Gli operatori investiti di tali aspettative, forse per il fenomeno della dissonanza cognitiva, corrono il rischio essi stessi di illudersi sulle proprie possibilità. Tutto questo, chiaramente, può portare a distorsioni della realtà che non giovano a nessuno, e comunque non a chi ne avrebbe più bisogno.
    Citando Fornari (1962) Capranico ricorda come le azioni velleitarie collusive finalizzate a degenerare la realtà siano, in una psicanalisi con uno schizofrenico, sostanzialmente di due tipi.
    1. La posizione magico-etica volta a proiettare parti del mondo interno sul mondo esterno: le forse della natura sono governate dalle leggi morali dell’uomo e non da leggi proprie, quindi se le azioni di un individuo saranno buone, la natura si comporterà bene con lui.
    2. L’identificazione con l’oggetto frustrante volta a controllare l’angoscia di impotenza.

    Secondo Capranico, dunque, queste posizioni portano a responsabilizzazione illusoria ovvero sono antitetiche alla responsabilità. Per il nostro autore il corretto e responsabile atteggiamento di fronte ai compiti impossibili è quello di combattere in modo attivo l’assenza di abilità nei confronti del compito e questo può essere perseguito cercando altre abilità. O meglio scomponendo il compito impossibile in parti possibili, o più precisamente:

    • Attraverso l’affermazione di valori: se occuparsi di malati gravi viene percepito come un valore positivo, la delusione per l’insuccesso tecnico può venire stemperata dal riconoscimento sociale.
    • Attraverso una struttura di aiuto reciproco: gli operatori fanno gruppo fra loro e trovano gratificazioni alternative.
    • Attraverso la stimolazione di studio, sperimentazione e ricerca, al fine di raggiungere la abilità necessarie a trasformare il compito impossibile in compito possibile.

    Nei compiti impossibili l’informazione scientifica a disposizione è scarsa, laddove non inutile, e comunque insufficiente rispetto agli obiettivi di cura e riabilitazione. In questa situazione, ecco il paradigma del molteplice, ciò che viene richiesto agli operatori è la capacità di sviluppare abilità e comportamenti non codificati, al fine di far fronte in modo creativo ad una situazione incerta e di difficile interpretazione. (Per inciso si può qui ricordare che ogni processo educativo non sia tanto scienza quanto arte). In un mondo ipertecnologico, in cui ogni singola operazione professionale richiede un alto grado di specializzazione, le ideologie fenomenologico – ermeneutiche non trovano molto spazio. Né tantomeno molti sostenitori. In questo caso invece, in cui mancano precise sistemazioni scientifiche e rigorosi assiomi di comportamento, il campo si presenta proprio come postulato dai teorici del pensiero debole: non esistono situazioni uguali, ma soltanto simili, gli oggetti di studio non sono dati aprioristicamente, ma sono dipendenti dal soggetto conoscente, (due operatori di fronte allo stesso caso vedrebbero e farebbero cose diverse). Come comportarsi quindi in questi casi? Il fisico tedesco Albert Einstein diceva che l’immaginazione è più importante della conoscenza. Lo scienziato non potrà scoprire nulla di nuovo se sarà legato a vecchi schemi di pensiero: soltanto quando darà spazio alla sua parte immaginativa potrà forse giungere ad una nuova soluzione di un problema.
    Così nei compiti impossibili bisogna imparare a pensare e agire in modo creativo. E se in modo creativo si seguono le ricette di Capranico il compito potrà diventare possibile.
    Questo fondere pensiero forte e pensiero debole può sembrare una sintesi degli opposti, e forse in effetti lo è, ma certo non vuole essere una nuova filosofia: nel Novecento gli uomini sono stati molto bravi a costruire nuove filosofie, molto meno a risolvere problemi.

  • Da Vivian Maier a John Lennon: l’arte come cura del sé. La fase due della psicoterapia.

    Da Vivian Maier a John Lennon: l’arte come cura del sé. La fase due della psicoterapia.

    Nella fase due della psicoterapia sovente chiedo ai pazienti di fare arte. Non pretendo opere immortali, ma produzione creativa, estro: per quello che riescono e secondo le loro disposizioni. 

    Uscire dal silenzio e dare corpo a stati interni può essere molto salutare. Ma solo se è anche consapevolezza e autodeterminazione: ossia comunicazione con l’altro, richiesta di riconoscimento. 

    Ho recentemente visitato la mostra d’arte della fotografa Vivian Maier. Ho notato che la mia richiesta nella fase due della psicoterapia assomiglia alla distanza tra l’operare di questa artista e quello di un altro gigante del Novecento: John Lennon

    La fotografa Vivian Maier ha trascorso la sua vita nel silenzio: quasi nascosta tra la gente, ha scattato migliaia di fotografie che ha praticamente tenuto per sé. E’ l’ideale dell’arte fatta per fare arte, della tensione ideale, della purezza, se vogliamo, dell’artista come poeta del creato. Non c’è la pretesa di dire niente agli altri, di suggerire, di affermare, ma solo il piacere di una narrazione intimistica, come quella di un diario segreto. Per John Lennon è il contrario. Il suo rapporto con l’arte è una passione viva che va oltre il denaro, le convenzioni sociali, il successo. Egli vuole comunicare, costi quello che costi: perdere amici, soldi, o addirittura essere espulso dagli Stati Uniti. L’esigenza comunicativa è la spina dorsale della sua storia artistica: per questo abbandona il suo fortunato gruppo. Non importa se quello che dirà sarà scomodo, l’importante è riuscire a dirlo, essere ascoltati. 

    La fase due della psicoterapia è quella in cui un individuo guarda gli altri negli occhi: da pari a pari avanza le proprie richieste. Fare arte diventa così la metafora del coraggio narrativo, il coraggio di chi smette di dire e fare solo cose che fanno piacere agli altri, ma comincia a dire e fare anche qualcosa che agli altri può essere scomodo. 

    Consiglio a tutti di incontrare l’opera di questi due monumenti del nostro tempo. E consiglio a tutti di osservare la differenza tra la qualità della vita di chi trova il modo di dire quello che sente, e di chi invece lo tiene per sé, forse nella paura che possa non piacere. 

  • La religiosità è un’alternativa alla psicoterapia? La differenza tra ‘sopportare’ ed ‘elaborare’.

    La religiosità è un’alternativa alla psicoterapia? La differenza tra ‘sopportare’ ed ‘elaborare’.

    Molti movimenti religiosi perseguono la felicità dell’uomo. 

    Le religioni in genere (spero di non essere troppo generico né generalista) hanno come obiettivo la salvezza dell’anima. Esse offrono un impianto di credenze che definiscono il funzionamento delle cose ultime, e di conseguenza una serie di riti a cui attenersi per raggiungere l’obiettivo della salvezza. Che però è un obiettivo dell’‘al di là’. 

    Non c’è dubbio che le credenze religiose diano serenità e felicità agli uomini anche ‘al di qua’, ma si tratta per lo più di una conseguenza, non è l’intento principale. 

    Vi sono poi i movimenti religiosi, ovvero quelle forme di spiritualità che hanno come target il miglioramento della vita attuale degli esseri umani. Questi movimenti lasciano più che altro sullo sfondo riflessioni sulla vita eterna e sulla salvezza dell’anima, non hanno una teoria circa il culto dei defunti, né una serie di pratiche rituali definite e standardizzate. Si concentrano sul presente.  

    In molti casi queste forme di spiritualità si propongono come alternative alla psicoterapia. Nei loro libri si parla di ‘auto efficacia’, di ‘respirazione consapevole’, di ‘ritrovare se stessi’ ecc…,  pratiche che vengono anche proposte per il trattamento della fobia sociale, della depressione o del Disturbo Post Traumatico da Stress

    Si sa che una parte decisiva nella cura è compiuta dall’aspettativa, per lo meno per quanto riguarda il mettersi a disposizione, l’aprirsi a possibili soluzioni alternative. Però c’è una differenza sostanziale tra imparare a sopportare un peso o lasciarsi scivolare addosso un problema, e invece trovare delle soluzioni. 

    La religiosità non è un’alternativa alla psicoterapia. Imparare a respirare o orientare il letto ad est non sono in grado di sciogliere i conflitti: ce ne accorgiamo soprattutto quando dobbiamo affrontare traumi profondi come la violenza o gli abusi, oppure problemi che riguardano il rapporto con il cibo, come i disturbi alimentari, o difficoltà relazionali come il saper lasciare andare. In tutti questi casi non si tratta di fortificare se stessi per ‘sostenere’ meglio i pesi della vita, ma si tratta di elaborare, digerire. 

    Chi ha subito un trauma non lo supera convincendosi di esserne in grado, soprattutto se questo trauma nel frattempo ha creato ferite profonde.

    Allo stesso modo chi non riesce a entrare in una galleria difficilmente lo farà senza modificare le implicazioni profonde, i significati simbolici che egli attribuisce alla galleria. 

    Le nuove forme di spiritualità insegnano agli individui a essere più riflessivi, sereni, a trovare la felicità. Ma non sono un sostituto della psicoterapia. In estrema sintesi insegnano ad adattarsi, non promuovono il cambiamento. 

  • Mamme sotto stress. Il sovraccarico mentale come fattore di rischio.

    Mamme sotto stress. Il sovraccarico mentale come fattore di rischio.

    Il sovraccarico di molte mamme odierne è un fattore di rischio per il loro equilibrio mentale

    La distribuzione degli impegni dei figli nell’arco dei sette giorni, diversamente da quanto avveniva un tempo, è parte integrante di questa condizione. Oggi il sistema famiglia deve adeguarsi in modo diverso, e non sempre purtroppo le mamme trovano l’adeguato sostegno. 

    Le ricadute sulla salute mentale vanno dai problemi del sonno, in genere i primi a comparire, ad ansia generalizzata, a umore altalenante, fino alle caratteropatie. 

    Le mamme sotto stress sentono di essere meno lucide, risolvono i problemi più lentamente di prima, e hanno la sensazione che senza il loro contributo tutto può fermarsi. E’ importante sottolineare che queste mamme non sono più stanche fisicamente, il loro sovraccarico è mentale. 

    L’aiuto che dovrebbero sollecitare è nel funzionamento del sistema famiglia, del resto lo stesso che le ha condotte a questa condizione perché incapace di sostenerle adeguatamente. Se il sistema è assente, queste mamme devono trovare il modo di scegliere quali impegni dei figli continuare a gestire, e quali invece rimandare al futuro. 

    Per la loro salute mentale, e naturalmente per quella dei loro figli.  

  • Venezia puzza

    Venezia puzza

    Sento sovente affermazioni lapidarie del tipo ‘Eastwood non sa recitare’, oppure ‘Andreotti è stato un politico mediocre’, oppure ancora ‘Venezia puzza’.

    Sono sparate da discussioni semiserie davanti ad un caffè, d’accordo, ma tutte nascondono una tendenza comune: quella di racchiudere bene e male in compartimenti stagni di persone o cose. Se a queste affermazioni sostituissimo ‘Miss Italia quando corre traspira’, oppure ‘Pavarotti non era un granché alla chitarra’ o ancora ‘Nietzsche era completamente pazzo’, coglieremmo tutta la paradossale incompiutezza di cui sono costituite.

    Considerare un oggetto come totalmente buono o totalmente cattivo, è una modalità difensiva che tutela i nostri ideali, ma non compatta le lacerazioni del nostro Sé; anzi le scava ulteriormente. Per questo è necessario fare uno sforzo di integrazione, per imparare a vedere che le persone e le cose a noi care (il nostro attore preferito, la nostra città natale, o i nostri genitori) non sono totalmente buone, cioè non corrispondono alla rappresentazione ideale che abbiamo di loro, ma hanno anche degli aspetti negativi, cioè hanno dei difetti. In altri termini diremmo che sono umani.

    In questo modo affermare che Venezia sia una città meravigliosa non metterebbe in forse il nostro amore per il piccolo paese in cui siamo nati, così come accettare che Pavarotti abbia fatto una carriera eccezionale non significa che il nostro cantante preferito sia un buono a nulla, e via di questo passo.

    Uno dei costi maggiori della crescita è scoprire come le cose, o le persone, che abbiamo idealizzato da bambini abbiano anche degli aspetti negativi.

    Se sapremo farlo resistendo alla frustrazione, ameremo queste cose, e queste persone, ancora di più.

    Photo di gryffyn m via Unsplash

  • Geni incompresi

    Geni incompresi

    Metto ora in evidenza un particolare tipo di condizione identitaria, quella del genio incompreso.

    Va detto che a turno nella vita è successo a tutti di sentirsi incompresi, e magari con la sensazione di avere detto cose molto interessanti nell’indifferenza generale. Ma il genio incompreso è un tipo di individuo particolarmente convinto della sua unicità, e soprattutto che legge la propria solitudine come il risultato dell’appiattimento verso il basso dell’ambiente circostante.

    Il genio incompreso non può neppure rifugiarsi in quella che Umberto Eco avrebbe definito la classe degli apocalittici, in quanto a suo modo di vedere non c’è nessuno in grado di condividere le
    sue stesse intuizioni. Egli pertanto sente un solitudine fredda che non fa che aumentare ogni volta che qualcosa conferma la sua opinione.

    Per non scivolare verso questa condizione è molto importante imparare a sostenere il confronto con i pari, e a fare valere le proprie ragioni non tanto sulla base di una supposta verità soggettiva,
    quanto sulla forza della concreta capacità di adattamento e di problem solving.

    Farsi valere, non farsi detestare. Ecco un buon sistema per non diventare un ‘genio incompreso’.

    Un po’ tutti lo siamo ogni tanto, o almeno ci piace crederlo.

    Foto di pawel szvmanski via Unsplash