Come superare l’aracnofobia?

Irrazionale

La fobia è una paura irrazionale, immotivata. Quindi per aracnofobia non intendiamo una generica sensazione di disgusto, o disagio, di fronte alla vista di un ragno, ma qualcosa di più pervasivo e invalidante. 
Che sia una paura irrazionale significa che non deriva da dati della realtà oggettiva. Che sia sostanzialmente immotivata significa che il pericolo che percepiamo è esponenzialmente maggiore di quello reale, ossia gonfiato dalla nostra mente. È come se avessimo delle lenti che ci fanno vedere tutte le cose normalmente come esse sono, tranne i ragni, che ogni volta ci appaiono sempre più grandi, più minacciosi e pericolosi. 

Rapporti di forza


Facciamo un esame della questione. In una situazione tipo, poniamo, un essere umano incontra sulla sua strada un ragno. Quali sono i rapporti di forza? Chi dei due ha una posizione privilegiata? Chi dovrebbe temere per la propria incolumità?  In una situazione standard, quando un essere umano incontra un ragno, ha di fronte a sé solo scelte vincenti. Può decidere di cambiare strada, e nessun ragno potrebbe mai rincorrerlo per obbligarlo allo scontro. Può decidere per il confronto, a mani nude, con un attrezzo, o con qualche insetticida. E anche in questo caso la sorte dell’aracnide sarebbe segnata. Potrebbe catturare l’insetto, e tenerlo, non so, in una teca di vetro. E anche in questo caso il malcapitato non avrebbe modo di eccepire nulla. 
Come si vede, in una situazione standard, (in genere) un essere umano avrà sempre la meglio su un ragno. Lo stesso vale in situazioni più articolate e complesse. Ossia se un individuo incontra un ragno in camera da letto, sul comodino, tra libri, sveglia e suppellettili. O in bagno, prima di entrare in doccia, o in auto, quando si ferma per fare benzina. Anche in tutte queste situazioni, per quanto più complicate rispetto all’esempio iniziale, l’umano avrà sempre la possibilità di sbarazzarsi dell’insetto, senza mai sentirsi realmente minacciato nella sua incolumità. 

Psicoterapia


Ecco quindi che veniamo al nocciolo della questione, se l’arcanofobia non è l’espressione di una paura concreta che riguardi la sopravvivenza, di cosa è la cifra? È a questo punto che entriamo nel territorio della psicoterapia. Perché evidentemente le associazioni che la nostra mente attua in relazione al concetto “ragno”, una volta che la vista mette al corrente il cervello della presenza di un ragno sul nostro cammino, sono associazioni che riguardano pericoli enormi per la nostra sopravvivenza psichica. Il ragno non codifica per un pericolo fisico, oggettivo, esterno, ma per un pericolo interno, psichico, che può essere persino più grave e invalidante. 
Nell’attacco di panico un individuo sente che sta per morire, manca l’aria, il cuore sta per cedere. Se queste sensazioni sono date dalla vista di un ragno significa che il ragno è l’emblema di un pericolo mortale per il . Il ragno non può dare la morte, ma può dare la morte psichica, cosa appunto, ben più grave. 
La psicoterapia punta proprio a smascherare i legami sotterranei tra la vista del ragno e la sensazione di pericolo. E l’obiettivo non può essere solo quello della desensibilizazione. Perché come per i disturbi alimentari, c’è un motivo ben preciso se la nostra mente associa il pericolo ad un ragno, piuttosto che a un panda o a un elefante. 

TSO: il trattamento psichiatrico che difende la società, ma non aiuta i pazienti

Nessun trattamento lascia i pazienti insoddisfatti quanto il TSO. La prospettiva che mette il malato al centro delle logiche sanitarie sembra rovesciarsi in psichiatria, dove il focus è più il benessere o la sicurezza del contesto, che il malessere del soggetto sofferente. 

Pazienti insoddisfatti


Per capire quanto dico basta valutare il grado di soddisfazione nei trattamenti sanitari di emergenza. A parte alcune eccezioni, si intende, la maggior parte dei pazienti che accedono al Pronto Soccorso per patologie cardiache, traumatologiche, o, come è successo durante la pandemia, gravi problematiche respiratorie, valuta molto positivamente le cure ricevute. Pazienti e loro familiari sono soliti fare regali ai medici, scrivere biglietti di ringraziamenti, mandare mail di elogi alle direzioni sanitarie. La riconoscenza per il trattamento, a parte alcuni casi di malasanità, è di solito altissima.


In psichiatria le cose vanno molto diversamente. Il paziente psichiatrico vive il TSO con un senso di fallimento individuale, e soprattutto in seguito ne conserva un ricordo negativo. Per alcuni è addirittura un’esperienza da dimenticare, di cui vergognarsi, perché si è persa la dignità. Altri invece vi hanno soltanto trovato nuove diagnosi, da curare con sempre nuovi farmaci, che i protocolli giurano essere miracolosi.

Basaglia, e poi?


Lo stigma sociale sulla patologia mentale continua ad essere forte, anche nel dopo Basaglia, al punto che la società sembra anzitutto difendere sé stessa, più che aiutare i pazienti. Prova di ciò è un caso gravissimo di cronaca in cui un paziente psichiatrico è stato inseguito nei boschi per giorni, come nei film americani dei reduci del Vietnam, accusato di aver ucciso il padre e un amico di famiglia. È stata scatenata una caccia all’uomo, al grido “state attenti, è pericoloso”, fino a quando è stato catturato. Lo stesso trattamento non viene di solito assicurato per i rei di femminicidio, per i quali, invece, valgono mille cautele, perché si sa, uno è innocente fino a prova contraria. 


Il Trattamento Sanitario Obbligatorio ha una connotazione fisica, medica, come se valesse per la mente quello che vale per le ossa, il cuore o i polmoni. Il malessere mentale viene identificato con il malfunzionamento di una parte del corpo, la testa. La psichiatria contiene, rallenta, spegne, ma non resetta, perché alla fine del TSO il malessere non è stato cancellato. 


Il supporto psicologico in psichiatria è considerato un accessorio, un abbellimento, ma non il cuore della cura, che, per l’appunto, è esclusivamente contenitiva. Ecco allora quale dovrebbe essere la vera svolta del post Basaglia, l’innovazione che i protocolli dovrebbero prevedere per approcciare casi resistenti a qualunque farmaco. 


Certo, la psichiatria dovrebbe perdere il primato, dovrebbe condividere con altri, gli psicologi, scelte, approcci, modalità di intervento. E sopratutto dovrebbe allontanarsi un po’ dal suo totem per eccellenza, da quella coperta di Linus rappresentata dallo psicofarmaco. Allora ci possiamo chiedere: la psichiatria è pronta per questa svolta? 

Pragmatismo e senso di colpa: stregati (e fregati) dagli Americani.

Se pensiamo che dovremmo essere più pragmatici, ci hanno fregato. 
L’innamoramento per la cultura americana, l’american way of life, prevede l’idealizzazione di tutto quello che viene d’oltreoceano, ma alcune cose proprio non fanno per noi, e una di queste è il pragmatismo


Football americano, Formula Indy, pena di morte

La nostra proverbiale esterofilia ci fa sentire – per partito preso – peggiori degli altri, fino a quando scopriamo che certi piatti proprio non ci vanno giù. Lì, scoppia l’orgoglio. Non c’è niente di male, le culture sono cucite addosso a chi le ha generate, e non è possibile adattarsi troppo a quelle altrui. 
Facciamo un esempio: amiamo tanto gli Americani, ma poi arricciamo il naso quando scopriamo che da loro la palla si passa con le mani, oppure che i sorpassi si fanno a sportellate.

Questi sono solo degli esempi pop, ma se citassi sensibilità più specifiche, come la pena di morte, o il porto d’armi, la nostra reazione sarebbe grosso modo la stessa. Si tratta di aspetti profondi della nostra cultura, (che condividiamo con gli altri grandi Paesi europei) a riprova del fatto che non tutta l’american way of life faccia veramente per noi. 


Pragmatismo e senso di colpa 

Un altro grande concentrato di valori e tratti indentitari americani è la filosofia del pragmatismo. Io credo che questa filosofia, o per lo meno ciò che di essa è filtrato nella cultura europea, abbia penetrato il mercato nostrano delle idee tanto quanto la Coca-Cola, o le sigarette, quello dei beni di consumo. 


La prova di quanto dico sta in quella forma di lieve senso di colpa che ci prende quando sospirando diciamo: “Ecco, dovremmo essere più pragmatici. ”. Il pragmatismo non deve diventare una regola di vita. La specificità dell’individuo si fonda sulla sua personalità, i suoi interessi, ma anche sulle sue passioni, i suoi desideri, e i suoi sogni, attuali e futuri. 


Ragionare in termini pragmatici, invece, per quanto aiuti a focalizzarsi sul presente e a razionalizzare gli sforzi, svuota l’essere umano da tutti quegli spetti che ne caratterizzano la vitalità. L’individuo angosciato, preda della depressione, è in definitiva un individuo senza entusiasmo, senza passioni. Per questo è molto importante alimentare, non smorzare, gli slanci idealistici, passionali. Se a volte ci capita di pensare che dovremmo essere più pragmatici, ci hanno fregato. È anzi vero il contrario: se lo fossimo di meno, saremmo più felici. 

La cura dei disturbi alimentari

Anoressia, bulimia, e gli altri disturbi della condotta alimentare sono in genere collegati a vissuti profondi di angoscia, inadeguatezza, o instabilità della percezione di sé. 

Di conseguenza, nel loro trattamento, il rapporto con il cibo è soltanto il punto di partenza, mentre il lavoro vero riguarda proprio i sentimenti cronici di depressione e vuoto esistenziale che attanagliano queste persone. 

Intelligenza e negazione

Il disturbo alimentare si associa in genere a due aspetti che complicano (o allungano) il trattamento. L’intelligenza dei pazienti, in genere sopra la media, e la loro resistenza. 

Gli anoressici sono individui estremamente intelligenti. La capacità di architettare, e mantenere, una condotta alimentare, necessita di competenze cognitive superiori, così come di una determinazione fuori dall’ordinario. I bulimici, poi, sono persone che attuano bulimia in ogni loro comportamento, per esempio “divorano” libri, oppure “divorano” relazioni affettive o amicali, ecc… . 

La cura dei disturbi alimentari, pertanto, è anzitutto un rapporto di forza con individui molto intelligenti, fieri, che difendono le loro posizioni, e di conseguenza il loro sintomo, con tutta la determinazione di cui sono capaci. 

Il secondo aspetto, perciò, è la negazione. La forma di resistenza attuata da individui ben strutturati, e con grandi capacità cognitive, è quella di respingere ogni riferimento al loro problema. Se il paziente fobico soffre maledettamente quando ha un attacco di panico, e vorrebbe che non tornasse mai più, se il paziente depresso detesta con tutto se stesso quei periodi di buio, in cui deve disconnettessi dal resto del mondo, il paziente alimentare tende a negare sempre tutto, non c’è nessun problema, io sto benissimo. 

Cibo e Orgoglio

Senso di abbandono, solitudine, tristezza, sono sovente i compagni di viaggio di una vita del paziente con disturbo alimentare. Ma, come si vede, anche il suo orgoglio lo è. Non avere potuto esprimere le difficoltà, le sofferenze, i momenti di sconforto, ha portato questi individui a chiudersi nel loro silenzio, in una riservatezza in cui ha accesso soltanto il loro cibo. 

La cura del disturbo alimentare, quindi, soltanto in una prima fase ha per oggetto il cibo e la sua gestione. Perché ad un livello più profondo si occupa della solitudine atavica di questi pazienti, del vuoto interiore che cercano di riempire con il cibo, o di cui negano l’esistenza con il digiuno. Ossia, in via definitiva, si occupa dell’orgoglio dietro a cui essi hanno imparato a nascondersi, dopo essere stati troppo a lungo inascoltati. 

Separazione, divorzio, tradimento: come sopravvivere?

Il tradimento ferisce il nostro valore individuale. Essere traditi, abbandonati, sostituiti, soprattutto da chi amiamo, intacca la percezione di amabilità personale, ci espone alle domande più profonde riguardo chi siamo e se abbiamo valore per gli altri. 

Quanto valgo?

Tuttavia di fronte al tradimento è bene fare alcune considerazioni. Anzitutto il tradimento intacca il senso di valore personale, ma soltanto se ne abbiamo. Non veniamo tutti feriti in ugual misura dal tradimento. 

La reazione a come veniamo trattati dagli altri ha a che fare con le nostre aspettative, e se ci aspettiamo rispetto, amore, fedeltà, in genere è cosa positiva. Intendo dire che solo chi non ha grandi aspettative, soffre poco quando viene abbandonato, o anzi è egli stesso a lasciare, o tradire. 

Le aspettative nei confronti dell’altro nascono dalle prime relazioni, ossia dall’ambiente in cui siamo stati accuditi da bambini. Se siamo stati accuditi con cura, attenzioni, rispetto, molto probabilmente siamo predisposti a soffrire di più se abbandonati o traditi. 

Quanto vale l’altro?

Soffrire per l’abbandono è un atto egoistico. Vorremmo non essere lasciati, in ossequio al valore che sentiamo di avere, valore però, che non vorremmo riconoscere all’altro, a cui stiamo stretti. Se una persona ci chiede libertà, è perché ha bisogno di qualcosa di diverso. 

Nelle relazioni affettive, poi, tendiamo a essere possessivi a senso unico. Perché è cosi difficile lasciare andare? Anche questa è una matassa da dipanare: molte volte il tradimento non è un fulmine a ciel sereno, è stato preceduto da segnali che però abbiamo voluto ignorare. Per quale motivo? 

Quando le relazioni si incagliano, diventano una tortura per entrambi, per questo non dobbiamo temere di guardare il vero significato del tradimento o dell’abbandono

Il lavoro con le persone che hanno subito un tradimento, o hanno alle spalle una separazione, non è semplicemente quello di aiutarle ad adattarsi alla nuova situazione. L’adattamento, qui, sarebbe qualcosa di regressivo. 

L’analisi va spostata sui significati che attribuiamo, da un lato alla relazione di coppia,  dall’altro all’attaccamento, e alle sue implicazioni. 

Il punto, in altre parole, non è sopravvivere ad una separazione, ma come trasformarla in una rinascita. 

Il sogno dell’infanzia: è del bambino, o dell’adulto che se ne prende cura?

Tutti abbiamo avuto un sogno durante l’infanzia. C’è chi ha sognato di correre in Formula uno, chi di fare il cardiochirurgo, chi addirittura di diventare Vescovo, Papa o comunque un alto prelato. Poi siamo cresciuti, e per alcuni di noi quei sogni sono svaniti, come la foschia nelle mattine d’estate, o sono stati sostituiti da altri sogni. Viene così da chiedersi: di chi era quel sogno, e perché tutto ad un tratto è sparito?

Il desiderio altrui e il suo soddisfacimento

Molto spesso il sogno dell’infanzia non è del bambino, ma è ispirato dall’adulto. E’ una costruzione dell’adulto, potremmo dire un baco, un seme, che l’adulto mette nella mente ancora in formazione del bambino. Potrebbe trattarsi di una fantasia emozionale di un genitore, per esempio la madre è innamorata di un attore famoso, e insiste col piccolo affinché da grande diventi un divo del cinema. Oppure potrebbe essere un desiderio di riscatto sociale: fare un lavoro di rilievo in cui non si debba chiedere a nessuno, ma soltanto ricevere, o che sia molto remunerativo. Oppure ancora potrebbe essere la fantasia maniacale del superamento di un handicap, come una malattia. Un parente è molto malato, e i genitori istillano nel bambino il sogno di diventare un medico importante, che sappia trovare la cura per questa persona cara. 

In questi casi, come si vede, non è il bambino a sognare, ma l’adulto, che sogna attraverso il futuro ancora da scrivere del bambino. Il bambino è in divenire, malleabile, e soprattutto è alla ricerca di qualcosa per fare breccia nel cuore dell’adulto. E quale migliore occasione, se non quella di realizzarne un sogno?

Infanzia e spoliazione 

Introdurre nel bambino sogni, ambizioni, desideri è cosa comune, ma è una prevaricazione sulla sua individualità. Quando un sogno infantile viene abbandonato durante la crescita, può significare che non era un sogno autentico del bambino. Non solo, ci sono sogni che non vengono mai abbandonati, ma diventano inclinazioni, missioni, progetti di vita. E tutto questo senza mai rappresentare davvero una componente autentica delle fantasie, dei desideri, delle ambizioni di quell’individuo. 

Consiglio a tutti di fare un’analisi dei sogni che avevamo da bambini, potrebbe sorprendere. E soprattutto potrebbe sorprendere capire se e quanto quei sogni facciano ancora parte della nostra identità odierna.

Società di massa borderline

Odio, rabbia, aggressività, sono sempre di più la cifra della società in cui ci muoviamo. L’insoddisfazione ci circonda, ma diversamente dal passato, ed è confermato da tutte le statistiche, invece di reagire in maniera propositiva, costruttiva, reagiamo distruggendo. Anzitutto a parole, ma non solo. 

Frammentazione 

La frammentazione dello spazio politico, sociale, economico ha determinato una frammentazione dell’identità. Non tanto e non solo nei termini in cui Ferenczi definiva la frammentazione interna (e inconscia) di parti scisse, sovente di origine traumatica; ma una frammentazione in parti distanti e difficilmente riconducibili a unica identità. 

Prendiamo la politica, per esempio. Un tempo gli schieramenti erano netti e definitivi,  ed esserne parte garantiva anche un sostegno all’identità. C’erano le sezioni sul territorio, i giornali, le reti tv con programmi dedicati, ecc…tutto questo aiutava anche a definire la propria identità. Oggi la politica è ultra frammentata, ed è molto più difficile identificare un progetto di appartenenza. Anzi, il partito del non voto ci dice che sono sempre meno quelli che si identificano in un progetto politico. 

Lo stesso vale per la religione e il rapporto con il sacro. Le chiese si svuotano, ma non c’è un travaso altrove. Le nuove generazioni praticano un blando ambientalismo, ma è ancora troppo poco, e poi ammetterete che l’impatto sull’identità individuale dato da un’appartenenza religiosa, non lo possa dare (almeno ad oggi) una filosofia ambientalista, per radicale che sia. 

Potrei fare altri esempi, come il clima impazzito, l’ascensore sociale, o il rapporto con i poveri del mondo, ma direi che ci siamo capiti. La frammentazione, lo spezzettamento, del contesto in cui ci muoviamo slabbra, di conseguenza, la nostra stessa identità: ci sfugge lo sguardo d’insieme, fatichiamo ad avere il controllo sulle variabili, aumenta il senso di impotenza. 

Professione hater: verso un mondo borderline?

Così prendono il sopravvento l’irritabilità, il livore, la rabbia. Si è persino diffusa una figura che un tempo non esisteva: lo hater, l’odiatore. Vomitare perenne insoddisfazione, e poi odio che diventa scoppio d’ira, quando meno te lo aspetti. Ai semafori, in assemblea di condominio, a scuola. Affrontare la frustrazione distruggendo, anzitutto a parole, ma non solo, però, rasenta la forma patologica che conosciamo nei nostri reparti, il disturbo borderline di personalità

La coesione del sé, negli anni dello sviluppo, va di pari passo con l’aumento delle competenze intellettive superiori, quelle che ci aiutano a generare strategie vincenti. 

Ecco una grande differenza rispetto al paziente con sindrome borderline. Il borderline ha un sé frammentato, ma non ha sviluppato la capacità di individuare modalità costruttive, evolutive, di risposta al suo malessere. Infatti sovente è incappato nella tossicodipendenza, nella farmacofilia, oppure in comportamenti a rischio, ecc. 

L’individuo con identità frammentata, ma che non ha ancora una personalità borderline, ha invece la capacità di individuare strade alternative. Ecco la direzione che dobbiamo seguire. La collettività sta scivolando verso la condizione borderline. Ma ritengo che ci sia ancora spazio per recuperare il senso di smarrimento dato dalla frammentazione sociale, e invertire la rotta dell’odio per l’odio, per tornare ad una prospettiva evolutiva. Ossia trasformare la rabbia in proposta, in azione costruttiva. Nessuno dice che sia facile, ma l’alternativa potrebbe essere il baratro. 

Giovani sotto stress. La società senza politica, religione e passione per l’arte.

Gli Italiani non votano, non vanno più in chiesa, non amano la cultura. Il disinteresse, direi quasi il tedio, è rotto soltanto da una blanda forma di ambientalismo, che se non altro denota ancora la voglia di credere in qualcosa. Dagli Hikikomori (ragazzi che si chiudono alle relazioni) ai tentati suicidi, dagli accessi al pronto soccorso psichiatrico ai TSO, le forme di disagio giovanile dilagano, e nessuno riesce a proporre contromisure efficaci.  

Gli studenti e la politica

Le generazioni passate erano quelle dell’impegno politico, dei cortei, della partecipazione popolare alle decisioni sui diritti civili, sulle guerre, sulla vita pubblica. Oggi però la politica ha deluso, non lo scopro certo io, la gente si è stufata. Così l’astensionismo aumenta ad ogni tornata elettorale, e i partiti politici accusano chi non vota, invece di capire che anche il non voto è un messaggio. Fare politica è una passione, una ragione di vita. C’è chi ha scritto dei libri, sulla politica, chi per la politica è stato perseguitato, e chi ci ha rimesso la vita. In gran parte lo slancio ideale verso la politica appartiene ai giovani, ha a che fare con il mondo dei giovani. I giovani sanno essere grandi idealisti, sanno passare le notti a discutere di ipotesi, di alternative, di proposte. Così la disaffezione nei confronti della politica, per quanto colpisca l’intera società, fa più danni tra i giovani (o quelli che un tempo venivano genericamente chiamati gli “studenti”), la parte della società che naturalmente dovrebbe occuparsene.  

La passione per la politica ha almeno due importanti funzioni psicologiche e identitarie: canalizza le energie e costruisce significati. Se un giovane, poniamo, si iscrive a un partito politico, ne segue la vita e le tendenze culturali, ne appoggia le proposte e ne promuove la diffusione, da un lato incanala delle energie, per esempio l’aggressività, in una cornice di proposte concrete, dall’altro individua dei significati nella propria vita, e nel proprio operato, che vanno al di là della mera quotidianità, e anzi si spingono a coinvolgere le generazioni future. Per questo in passato è stato molto importante che i giovani si aggregassero a discutere di politica, perché il confronto, anche aspro, tra idee, posizioni, ipotesi, è certamente più proficuo e meno deleterio di un confronto tra sassaiole e bottigliate, come talvolta avviene, ad esempio, nel caso del tifo sportivo.  

Per questo si vede come la crisi della politica, il fatto che i giovani non credano più nei partiti e non ne seguano più la vita con passione, li lasci privi di un grande meccanismo di gestione e rivalutazione di condotte e di speranze. Senza politica i giovani stanno peggio.  

L’azione cattolica 

Un altro ambito che storicamente ha costituito fonte di aggregazione e di partecipazione attiva, è stato quello religioso. Nei decenni scorsi erano migliaia i giovani che partecipavano a eventi, meeting, percorsi spirituali proposti da organizzazioni religiose. Pensiamo al mondo cattolico, per esempio, alle giornate della gioventù, ai ritiri spirituali, alle gite parrocchiali

La disaffezione degli Italiani nei confronti della chiesa è reso evidente da un dato segnalato dalla CEI, Conferenza Episcopale Italiana: nelle scuole sono sempre meno gli alunni che chiedono di prendere parte alle lezioni di religione. Questo è preoccupante per un motivo: il sacro non suscita interesse, non è usato per interpretare la vita e il mondo. Come la politica, anche la spiritualità incanala energie che potrebbero essere disperse malamente, e offre un’opportunità di leggere il mondo, ossia di ragionare su cosa si potrebbe fare per migliorare questa o quell’altra cosa. Insomma, come la politica, la spiritualità è strettamente connessa alla “speranza”. 

Se le cose stanno nel modo in cui dice la religione, cosa sono io? E cosa sono, su cosa si basano, i rapporti con gli altri? Che cosa può dare senso alla mia giornata, alle mie notti, alle mie vacanze? Il senso del sacro è fortemente fondativo dell’identità, una società in cui gli individui non cercano il sacro, non credono nelle religioni, non si fanno domande filosofico – esistenziali, è una società che va in pasto all’economia, e abbiamo già detto altrove del pericolo che questo può rappresentare. 

Arte: cultura o provocazione? 

Veniamo ad un altro grande motore delle idealità e delle identità, la cultura. John Lennon, secondo alcuni il più grande artista del Novecento, disse di avere chiuso l’esperienza Beatles quando capì che la sperimentazione era finita, e che la loro arte si era trasformata in un unico grande business. Secondo John Lennon il business non è arte. Era un idealista, non c’è dubbio, e infatti da solo muoveva le masse. Ecco, un idealista muove le masse. Con l’idealismo non si mangia, lo sappiamo, ma si riempie la testa di pensieri, di significati, di speranze. E questo è tantissimo. A quanto pare i movimenti artistici si spostano sempre più dalla comunicazione alla provocazione, e gli artisti piegano le loro capacità tecniche in senso commerciale: per vendere si deve parlare di loro. Per qualcuno è certamente un bene, alcune proposte artistiche sono interessanti, non c’è dubbio, ma la provocazione non può diventare la ragione di tutta la pratica artistica. O quantomeno, se lo diventa lo fa a scapito dell’altro significato dell’arte, quello che in termini molto generali potremmo definire “fare cultura”.

Lo scivolamento dell’arte verso la provocazione a tutti i costi, verso la massificazione, verso i grandi numeri, è il terzo aspetto che credo importate sottolineare. L’arte come la politica e la religione sono moti interiori che costruiscono il senso dell’essere, che aiutano chi se ne occupa a costruire significati. 

Se le persone hanno perso la voglia di sognare, di sperare, di immaginare un mondo diverso, per forza di cose restano invischiate nel pantano del qualunquismo, per forza di cose restano vittime delle seduzioni della rete. 

Il disagio giovanile è il risultato catastrofico, tra l’altro, di questo impoverimento passionale per la vita, per le sue attività sociali, per quel sogno del domani che ci culla ogni sera quando ci addormentiamo. 

Il disagio è strettamente correlato alla patologia mentale, che sovente non è altro che l’aumento a proporzioni insostenibili di quello stesso disagio. E il primo passo per contrastare il disagio è riempire l’essere di sogni, di speranze, di slanci vitali. 

Il secondo passo sarà, poi, quello di riempirlo di relazioni vitali, di affetti, di progetti condivisi. Ma come diceva Michael Ende, questa è tutta un’altra storia, e ne parleremo un’altra volta. 

8 marzo e femminismo. Il discorso mai concluso sulla violenza di genere.

Una donna su tre

Una donna su tre afferma di essere stata vittima di violenza nel corso della vita, ossia circa il 33 per cento del totale. Tra queste una su sette afferma che la violenza sia stata di matrice sessuale

Se a questo dato aggiungiamo che gli uomini in questione non sono gli stessi due o tre che vanno in giro ad aggredire e violentare, appare chiaro che il tema ‘violenza nella coppia’, o se preferite ‘violenza di genere’, coinvolge un numero spaventosamente alto di individui. 

Parlare di violenza di genere in ambito femminismo e parità di diritti, pertanto, è difficile e pericoloso. Da un lato si rischia di mettere fuorilegge milioni di uomini, accusandoli di avere fatto violenze che forse neppure hanno compreso. Dall’altro significa mettere e al bando milioni di donne, accusandole di avere caratteri deboli e di ripetere gli stessi vecchi errori nelle relazioni affettive. 

Le cose tuttavia sono più complesse di così, e infatti nel femminismo contemporaneo il discorso sulla violenza di genere, per quanto affrontato migliaia di volte, non è mai stato portato ad una conclusione.

Femminicidio e diritto di proprietà

Lo snodo cruciale che dovrebbe fare convergere gli sforzi del neo femminismo contemporaneo (ma vi prego troviamogli un altro nome) è quello del femminicidio

In genere si guarda al femminicidio (circa 300 casi all’anno in Italia) come a un evento raro e lontano, che riguarda persone strane, violente, distanti dal nostro modo di vivere. Qui sta il punto fondamentale del femminismo odierno, nel sottovalutare la portata culturale del femminicidio. 

Il femminicida e la sua vittima non sono necessariamente persone strane e avulse dal contesto sociale, anzi, tutt’altro. Il presupposto culturale di base, non ideologico si badi bene, ma socio culturale, del femminicidio è il diritto di proprietà. 

Il mio smartphone è un oggetto soltanto mio, come la mia automobile, la mia chitarra, o la custodia dei miei occhiali. Se questi oggetti sono miei ne posso disporre in maniera totale, e posso stabilire se tenerli, regalarli ad altri o gettarli nel cestino. Il femminicidio è l’estensione del diritto di proprietà ad una persona. 

Il femminicidio è il banco di prova del femminismo contemporaneo: si deve comprendere che si tratta della punta di un iceberg, un iceberg che rappresenta il disconoscimento dell’altro come individuo autonomo e indipendente. 

Il punto non è la violenza: tanta o poca che sia non fa molta differenza. Il punto vero è il diritto di proprietà. Se credo che una persona mi appartenga, che non sia degna di fare un passo senza la mia approvazione, sto già facendo una violenza di proporzioni inaudite. 

Il discorso sulla ‘violenza nella coppia’, o ‘violenza di genere’ se preferite, non è mai stato portato a conclusione perché non si è mai concentrato sul concetto di proprietà. Ecco su cosa devono insistere le azioni educative, i convegni, le tavole rotonde, del femminismo contemporaneo. Ammesso che se ne facciano ancora. 

Cosa non ha funzionato del femminismo? La risposta sbagliata ad una giusta domanda.

Oggi nel mondo la politica è un fatto sostanzialmente maschile, la religione è un fatto sostanzialmente maschile, i grandi gruppi economici sono gestiti sostanzialmente al maschile. Dovremmo concludere, senza troppa retorica, che il femminismo ha fallito? 

Da Simone de Beauvoir alle Pussy Riot

Il punto di partenza di ogni filosofia femminista è dimostrare che i generi non hanno un ordine di importanza, e non è dal genere che discende il peso che uno acquisisce nella società. 

Tuttavia i femminismi si declinano solitamente in azioni che paradossalmente negano la parità e sostengono la superiorità femminile. La conseguenza è un irrigidimento delle posizioni, ossia un aumento della conflittualità anziché una sua diminuzione. 

Il muro contro muro conduce la parte forte ad arroccarsi sui privilegi consolidati per spostare il focus dello scontro su altri livelli, diversi da quelli in questione. Trovo eccezionali a tale proposito le parole di Lorenza Foschini, grande giornalista Rai.  Dopo essere giunte, insieme ad altre grandi firme femminili, a condurre i TG della sera, alla metà degli anni Novanta si accorsero che i direttori di testata, di rete e i direttori generali erano tutti uomini. ‘A quel punto’ disse la Foschini ‘abbiamo capito di essere state giocate: il potere non stava nel leggere il Tg, come per anni ci avevano fatto capire.’

Così ai tempi di Chiara Ferragni, come a quelli di Simone de Beauvoir, ai grandi propositi, ai grandi discorsi, fanno seguito proposte spartane, urlate, non ragionate. Valga per tutte quella delle famose incursioni delle ‘Pussy Riot’, le ragazze che nude aggrediscono personaggi famosi. Le reazioni che scatenano queste proteste sono più estreme e rigide delle intenzioni che le hanno originate.

Femminismo da piazza e da salotto.

La contrapposizione muro contro muro cementa l’identità, ma è una forzatura nazional populista dei presupposti del femminismo. Non c’è una sola rima in Christine de Pizan, una sola pagina di Simone de Beauvoir, un solo accenno nell’intera opera di Julia Kristeva che ammicchi allo scontro, alla contrapposizione, all’invettiva di piazza. 

Dividere i femminismi in quelli da piazza e quelli da salotto è un modo per fare del male al femminismo, e per rafforzare, in sostanza, le posizioni dello status quo.

L’errore strategico del femminismo, perciò, è stato quello di volgarizzare lo scontro, di esacerbare le distanze, di chiedere riconoscimento di diritti sotto minaccia (sovente di stampo sessuale) dimenticando che nel rapporto tra generi uno sa ancora fare molto male, come  mostrano i dati sul femminicidio.  

E’ ancora tempo di femminismo?

Oggi nel mondo, come dicevo, la politica, le religioni, il potere economico sono gestiti sostanzialmente al maschile. La nostra cultura, se vuole davvero essere la più liberale, deve trovare il modo di garantire la pari dignità a tutti i cittadini, come peraltro va affermando nei suoi principi generali. 

Ritengo che il movimento femminista debba anzitutto liberarsi dai connotati ‘sessisti’, perché la libertà della donna non può essere un obiettivo delle donne, ma di tutta la società. Ripulire dal dibattito gli elementi di scontro significa eliminare per esempio termini come ‘maschilismo’, ‘patriarcato’, o lo stesso termine ‘femminismo’. Favorire l’incontro significa sfavorire lo scontro. 

Ancora una volta il ragionamento converge su Julia Kristeva, la sua opera, il suo sforzo di unire il buono che c’è nelle religioni, nelle filosofie, nella psicoanalisi: il ritorno all’umano. Nello scontro di società che sotto traccia serpeggia nel nostro tempo potrebbe essere proprio la questione del femminile a spostare l’ago della bilancia della storia. Qualcuno si sente pronto?

Il mio ultimo libro

Il Kintsugi dell'anima

Una raccolta di scritti brevi che offre speranza e crescita personale, affrontando temi universali come famiglia, lavoro, sport e attualità. Invita i lettori a scoprire opportunità di miglioramento anche nelle difficoltà, trasformando la fragilità in forza.