Categoria: Persone “felici”

  • Ecoansia. L’angoscia per i cambiamenti climatici, fuori dal nostro controllo.

    Ecoansia. L’angoscia per i cambiamenti climatici, fuori dal nostro controllo.

    Donal Trump affronta il problema del riscaldamento globale con una battuta: “Si alza il livello delle acque? Bene, avremo più case con vista mare!”. L’ottimismo dell’ex (futuro?) presidente Usa, però, non è condiviso da tutti, e infatti sono molti a sviluppare sintomi di ecoansia, “la paura che si prova al pensiero ricorrente di possibili disastri ambientali” (Treccani).

    Controllo

    Vorrei mettere in evidenza alcuni tra gli aspetti fondativi dell’ecoansia. Il primo è la perdita di controllo per quello che ci capita. Quando a livello individuale sviluppiamo problemi legati all’ansia, in genere essi riguardano la paura di usare l’ascensore, di salire sull’auto di altre persone, prendere un aeroplano (e simili). Ossia situazioni in cui siamo assoggettati agli eventi, e nulla di quello che ci avverrà sarà sotto il nostro controllo. In altre epoche, una forma di paura sociale simile all’ecoansia è stata quella dell’incubo atomico. Anche in quel caso i cittadini erano totalmente dipendenti da scelte altrui, e non c’era nessuna posizione politica, sociale, economica che potesse garantire definitivamente dal quell’incubo. 

    Oggi vediamo una situazione simile, le condizioni meteo peggiorano letteralmente a vista d’occhio, e la percezione di essere in balia degli eventi, e di non poter esercitare nessun tipo di controffensiva volontaria, spiazza e mette in crisi. 

    Fiducia nel futuro 

    Il secondo aspetto che vorrei segnalare, e che spiega perché ho citato Trump, è la paura verso il futuro, la disillusione, la conflittualità globale (ai nostri danni). Gli anni dell’incubo atomico erano anche gli anni della crescita economica, delle conquiste della scienza, delle grandi rivoluzioni culturali. L’ottimismo dilagava in qualunque ambito, le conquiste spaziali da un lato, e i trapianti di organi dall’altro, davano la percezione di un uomo ormai definitivamente padrone della natura. L’esatto opposto di quanto avviene oggi. 

    La frammentazione sociale, economica, politica del mondo, come abbiamo già detto diverse volte, corrisponde ad una inevitabile frammentazione psichica. E la natura, che credevamo doma, si rivela infida, pericolosa, matrigna. Ma la frammentazione sociale non colpisce tutti nello stesso modo, come l’ecoansia. C’è persino qualcuno che può vedere nei cambiamenti climatici un’opportunità. È questione di punti di vista.

    La fine del sacro non riguarda la natura 

    E poi c’è un ulteriore aspetto, la fine del sacro. Inteso come ciò che crediamo inviolabile, insuperabile, la morte del sacro non ha riguardato la natura, e questa per l’uomo contemporaneo è un’onta insostenibile. Il femminicidio ci insegna che persino le relazioni più intime possono essere distrutte, senza vergogna o colpa. Le chiese sono vuote, perché l’uomo ha distrutto l’idea stessa di Dio, non abbastanza adeguata alle sue necessità. La politica, l’arte, tutti i campi dell’idealismo umano sono stati svuotati, piegati, ma non la natura.  

    La natura continua ad essere sempre sopra di noi, sempre incontrollata, e oggi sempre più minacciosa. Ecco un’altra coordinata dell’ecoansia. Abbiamo imparato a dominare, persino a mistificare, tutto ciò che è (o dovrebbe essere) sacro, tranne la natura. E questo basta e avanza, per creare angosce profonde e gravemente insostenibili. 

  • Coppie al capolinea. Come riconoscerle, come uscirne.

    Coppie al capolinea. Come riconoscerle, come uscirne.

    La prima relazione in cui siamo coinvolti, appena dopo la nostra nascita, è all’interno di una coppia. La dimensione duale del rapporto con la madre, (o con chi ne fa le veci) influenza, di conseguenza, ogni rapporto a due che incontriamo nel corso della vita. Ci sono relazioni che ci ricordano quella primaria modalità di accudimento, ce ne sono altre totalmente diverse, e altre ancora che ne condividono soltanto alcuni aspetti. Vivere in coppia è difficile, perché arriva sempre il momento in cui la persona amata non risponde alle nostre aspettative, che derivano da quella esperienza primordiale. 

    Relazioni tossiche

    Ad ogni modo, non tutte le dinamiche che non rispettano le aspettative sono finite, ad alcune, in realtà, ci si può adeguare. Del resto a questo serve l’innamoramento, a trovare la forza di superare le differenze, per preservare qualcosa di più grande. Ci sono invece altre relazioni, che palesemente hanno esaurito la loro carica propulsiva, in cui le differenze diventano ogni giorno più pesanti. In questi casi non serve resistere, nascondersi dietro l’amore che si prova, perché il più delle volte è un amore “tossico”, e queste coppie sono al capolinea. Un esempio di relazione tossica è quella basata sull’asimmetria. Se c’è uno sbilanciamento di potere, come nel caso della violenza di genere, o della dipendenza affettiva o economica, in cui una delle due parti è soggiogata all’altra, l’“amore” che si prova non è sempre genuino, perché “intossicato” dalla necessità. 

    Mind games

    Quando in una coppia la comunicazione è dominata dai “mind games” (ne ho parlato in precedenza) ossia da quelle giravolte verbali che mirano solo a mistificare i fatti, anche questa coppia è al capolinea. I mind games sono attacchi vili che generano insicurezze, mentre un rapporto maturo dovrebbe emancipare, non legare. Una delle motivazioni alla base dei mind games è l’infedeltà. Le coppie infedeli amano mistificare i fatti, per poter continuare a mantenere l’attuale equilibrio. 

    Identità di genere

    Non se ne parla mai, ma è un’occasione di grande sofferenza in coppia. Se uno dei due partner smette di identificarsi nel rapporto di genere in atto, le cose si fanno molto difficili. Diamo per scontato che se un individuo forma una coppia con un altro individuo del genere opposto, l’identità di genere che ne deriva sia stabile o intoccabile. Poiché questo non è vero per tutti, può capitare che l’equilibrio si spezzi, e anche in questi casi la coppia è al capolinea. 

    Se nella vita di coppia sentiamo echeggiare uno o più di questi aspetti, l’asimmetria, i mind games, e l’identità di genere, fermiamoci. Potrebbe andarne del bene dell’altra persona, del futuro che insieme pensiamo di costruire, ma anche del nostro benessere personale.   

  • A cosa serve, oggi, una biblioteca?

    A cosa serve, oggi, una biblioteca?

    Ho recentemente presentato il mio libro Il Kintsugi dell’anima in una prestigiosa biblioteca di Torino. Tra le domande postemi dal pubblico durante la discussione, una è stata particolarmente interessante: quale utilità può avere oggi una biblioteca? I nostri dispositivi elettronici sono in grado di racchiudere in sé, (in memoria, o grazie alle reti) più libri di quanti ne possa esporre una biblioteca comunale. Pertanto non è così strano chiedersi a cosa possa servire, oggi, una struttura fisica adibita a tale scopo?

    Guglielmo e Don Chisciotte 

    Cercherò di rispondere, a questa suggestiva domanda, traendo spunto dalla storia della letteratura. La creatività umana, lo sappiamo bene, è alimentata da fantasie e angosce diffuse tra gli individui. Diverse tra queste riguardano le biblioteche. Ne Il nome della Rosa di Umberto Eco, si racconta di una biblioteca che nasconde un segreto terribile. Il protagonista vorrebbe entrare in questa biblioteca, cedere alla tentazione della conoscenza (già letto in un altro libro?), ma i saggi glielo impediscono. Le vicende si snodano attorno a questo edificio bizzarro e terribile, fino al drammatico epilogo che ne determina la distruzione in un rogo. 

    In questo romanzo le fantasie e le angosce sono molteplici, si intrecciano e accavallano tra loro, ed è proprio la biblioteca a definirne contorni e confini. Anzitutto la conoscenza, di biblica memoria. Conoscere è pericoloso: per non ripetere l’errore di Adamo ed Eva, è bene creare una grande biblioteca, e richiudere lì dentro i segreti della conoscenza. Ma come per Adamo ed Eva, anche per il protagonista del romanzo è impossibile stare lontano: l’uomo è per natura portato a interrogarsi, indagare, cercare risposte. E questo anche a costo della sua stessa incolumità. La conoscenza cambia, per sempre. A volte uccide. E poi c’è il rogo. Nell’antichità un’importante biblioteca andò in fiamme, distruggendo chissà quali capolavori. E sappiamo bene che i regimi autoritari danno alle fiamme i libri. Cosa significa? Quale angoscia si nasconde dietro al rogo di una biblioteca? Come si vede il rapporto tra gli esseri umani e le biblioteche è un rapporto ancestrale, profondo, che chiama in causa le considerazioni più importanti che facciamo, e che vorremmo condividere con tutti, anche quelli che verranno dopo di noi. 

    Nel suo Don Chisciotte della Mancia, Cervantes racconta di un nobiluomo che vive rinchiuso in una biblioteca. Il potere taumaturgico del libro compatta il sé di Don Chisciotte, lo aiuta a costruire un mondo fantastico in cui il bene è al sicuro, in buone mani, e il male non avrà il sopravvento. Don Chisciotte non può uscire dalla biblioteca, pena la sua sanità mentale. E infatti, in un’epoca antecedente ogni studio sulla psichiatria, Cervantes (che scrive dal carcere) mette alla berlina quest’uomo un po’ strano, ci fa sorridere bonariamente, ma oggi possiamo fare ben altre considerazioni. La follia, la paura, il vuoto esistenziale, il libro come antidoto alla morte del sé. Se l’arte esprime fantasie e angosce collettive, cosa significa che la biblioteca sia luogo di salvezza dalla morte psichica? Cosa vuole dirci Cervantes, e cosa sentiamo noi quando lo leggiamo? Perché se non chiudiamo il libro dopo la prima pagina significa che riesce a dirci qualcosa. 

    John Keats

    Torniamo alla domanda iniziale. A cosa serve oggi un edificio adibito a custodia, catalogo e prestito di libri, oggi che grazie all’informatica possiamo avere in tasca tutti i libri che vogliamo? Ebbene, la biblioteca, come ci insegna la letteratura, non è mai soltanto uno spazio fisico. È un luogo per incontrare menti, pensieri, emozioni, anche di persone che non ci sono più. È un luogo per cercare da soli qualche piccola verità, in un mondo che ci serve grandi verità ogni giorno, al punto che non sappiamo più di chi fidarci. Tornano alla mente le parole di John Keats: “Chiamate il mondo la valle del fare anima”. Ecco a cosa può servire oggi una biblioteca, a fare anima. Forse stiamo sconfinando nella psicologia, di nuovo mi sono fatto prendere la mano. Allora fermiamoci qui, di questo parleremo un’altra volta.  

  • Per una psicologia del post occidentale

    Per una psicologia del post occidentale

    Allo stato attuale di sviluppo della nostra società, dobbiamo ammettere due cose: la civiltà occidentale va verso il declino, e la cultura su cui l’abbiamo fondata non ci ha reso felici. Ripensare il nostro approccio alla vita, al mondo e agli altri, può essere un modo per non scomparire, e anzi, imparando dagli errori, adeguarci al mondo che cambia. Ma è anche un modo per costruire una psicologia rivolta a tutti gli essi umani, non soltanto quelli che vivono a occidente. 

    Declino (infelice) 

    La cultura cui apparteniamo ha perso il suo slancio vitale, non è più dominante nel mondo, ed è condivisa da una parte sempre più esigua di esseri umani. Rispetto agli anni dei grattaceli, delle metropolitane e degli aerei supersonici, in parole povere, il modo di vivere all’occidentale affascina sempre meno, anzitutto noi stessi. Inoltre dobbiamo ammettere che questo modo di vivere non ci ha dato felicità. Ad oggi il disagio mentale è totalmente fuori controllo, in una stagnazione economica endemica, e in cui la fiducia nel futuro continua a precipitare.

    Per decenni i nostri intellettuali si sono scagliati contro la tecnica, che andava trasformando, a loro dire, i cittadini in automi. Invece la tecnica non ha trasformato tutti in automi, qualcuno ha anche saputo trarre giovamento da grandi innovazioni come l’aria condizionata, Internet, o la telefonia mobile. 

    Sono invece i modelli culturali su cui ci siamo basati, ad aver perso la sfida del tempo. Sono come le colonne del tempio di Sansone, che si vanno sgretolando, e noi rischiamo di restarci sepolti. 

    Un focus

    “Ad un problema complesso corrisponde sempre una soluzione semplice, immediata, e di facile attuazione: quella sbagliata.” Questa battuta di un grande giornalista contemporaneo significa che una strategia multidimensionale non è definibile in poche parole. Se siamo a questo punto, se il modo di vivere all’occidentale fa acqua da tutte le parti, è difficile invertire la rotta, soprattutto in maniera spartana e semplicistica. 

    Tuttavia è possibile individuare alcuni capisaldi culturali che possono essere rivisti se si vuole pensare ad una nuova psicologia, stavolta che non guardi più soltanto all’uomo occidentale, ma agli uomini (e alle donne) del medio oriente, dell’Africa sub sahariana, e così via…

    La iper competizione: non ha creato benessere economico per tutti, ha fatto sentire esclusi molti, e anzi ha generato malessere tra chi è stato inadeguato. La competizione è diventata una ragione di vita, uno modus operandi, ed oggi assistiamo a competizioni persino dove non dovrebbero essercene. Doveva essere uno sprone economico, è diventato un progetto di vita individuale.

    Il modello culturale patriarcato/femminismo. Questo modello, basato sul conflitto e non sulla cooperazione, ha condotto le campagne femministe a non proporre il superamento del patriarcato, ma il suo rovesciamento. In questo modo l’occidente si è incancrenito in fasi opposte di rivalse reciproche, fino a corrodere la fiducia, elemento indispensabile per il vivere collettivo.

    Di conseguenza: individualismo. Ci sono state epoche in cui abbiamo saputo lavorare a progetti comuni, come ai tempi della nascita degli stati moderni, ma poi siamo diventati sempre più individualisti, e questo è stato rinforzato dai modelli economici, specie dopo la caduta del Muro. Il manager di un’azienda guadagna fino a mille volte più di un dipendente, così come il giocatore simbolo di una squadra di calcio. 

    La morte del sacro. Una società senza religioni né religiosità, senza spiritualismi, né passioni idealistiche per la politica, o per l’arte, è una società senza speranza.  

    Nell’immaginare il post occidentale, questi sono alcuni elementi del nostro vivere che dovremmo provare a rivedere, a ripensare. O quantomeno a registrare. Si tratta di pensare ad una nuova psicologia, considerare l’uomo in maniera diversa da come abbiamo fatto fino ad ora. E almeno per questo, non è mai troppo tardi. 

  • Migranti interni: il dialetto come collante dell’unità familiare

    Migranti interni: il dialetto come collante dell’unità familiare

    L’argomento migrazioni interne è ormai stabilmente scomparso dal dibattito pubblico, come se non fosse più cosa di attualità. L’Italia è una patria, gli italiani sono a casa loro ovunque, quindi perché parlarne? Eppure non è sempre così, considerato l’alto livello di malessere che attraversa tutt’oggi chi deve spostarsi per necessità, che sia studio, lavoro, o altro. 

    Tradizioni popolari, cibo, dialetto 

    Aspetti fortemente indicativi del malessere di chi cambia residenza, sono dati dal rinnovato attaccamento alle tradizioni popolari della città d’origine, talvolta mai considerate in precedenza, e dall’idealizzazione della sua cultura gastronomica, con il contemporaneo rifiuto di quelli del luogo di arrivo. E poi, altro elemento oggi fortemente identitario, l’uso massivo del dialetto, o di espressioni gergali/dialettali, anche nel rapporto quotidiano con i nuovi conterranei. 

    Lasciando per ora da parte l’attaccamento alle tradizioni locali e alla cultura gastronomica, vorrei soffermarmi un attimo sull’uso del dialetto. Nel corso del Novecento, gli spostamenti dalle campagne verso le città sono stati accompagnati da profondi vissuti di inferiorità. La produzione in fabbrica, la “città mostro” che tenta i giovani, il progresso, ecc…, sono stati vissuti con deferenza dai contadini, che si sentivano fuori posto anche a causa delle difficoltà comunicative. 

    La gente di campagna si vergognava a parlare dialetto in città, sentiva di non essere come gli altri. La scuola dell’obbligo ha insegnato la lingua italiana, e questo ha consentito a persone provenienti dalla val Brembana di comunicare con chi era nato a Palermo, e così via. 

    Oggi assistiamo al processo inverso, chi cambia città non prova a dimenticare il dialetto, ma anzi ne ricerca la forza espressiva, per colorare il suo discorso, e anche, inutile negarlo, per escludere chi non capisce.

    Dialetto come legame familiare?

    Si struttura un’idiosincrasia a doppia mandata. Da un lato il nuovo arrivato è spaesato, non conosce nessuno, deve ambientarsi. Dall’altro, però, alcune volte, fa di tutto per non integrarsi, per tenere gli altri a distanza. È così che nasce un sospetto. Quali vincoli profondi legano un persona che cambia vita alla sua città di origine? Prendiamo un torinese che sogni di imbarcarsi sulle navi: una volta partito per mare, che senso avrebbe tenersi strette tutte le sue tradizioni, dialetto compreso? 

    Qui occorre ribadire la distinzione tra pubblico e privato. Nel pubblico, ad oggi, i dialetti sono praticamente scomparsi. Sono stato in vacanza a San Vito Lo Capo, in Sicilia, e a Ceriale, in Liguria. Ho potuto notare che in entrambe le realtà il prete dice messa in italiano (e non in dialetto), i menu dei ristoranti sono scritti in italiano, i pescatori al mercato del pesce usano l’italiano, per vendere le loro primizie. Così possiamo chiederci: se un abitante di San Vito Lo Capo o di Ceriale sente parlare il suo dialetto, a cosa pensa? Al suo parroco, alla sua amata pizzeria, al mercato del pesce al mattino? Io credo di no. Dico, invece, che a sentire il dialetto penserà, sostanzialmente, alla sua casa, alla sua famiglia, alla nonna che lo chiamava quando era bambino. 

    Se nel Novecento il dialetto era segno di arretratezza culturale, oggi, che non abbiamo più aree arretrate, è segno di appartenenza. Escludere, o sorprendere, gli altri parlando in dialetto, non ha il senso di dichiarare il proprio analfabetismo, ma piuttosto il proprio attaccamento al contesto di partenza. 

    O forse, più direttamente, alla famiglia d’origine. 

  • Come resistere al bello e dannato? Il fascino perverso del narcisista e le implicazioni distruttive per le sue vittime.

    Come resistere al bello e dannato? Il fascino perverso del narcisista e le implicazioni distruttive per le sue vittime.

    Il successo del narcisista si basa sul ritorno di immagine per chi se ne invaghisce. Sedurre un individuo pieno di sé, infatti, molto amato e ricercato, rinforza, inevitabilmente, l’autostima. Ed è proprio la bassa autostima, quindi, il punto debole su cui fa leva la sua irresistibile fascinazione. 


    Bello e dannato


    Gli individui “belli e dannati” vantano livelli di consenso spropositati e per lo più immeritati. Il segreto di questo successo sta proprio nello spazio che le vittime consentono loro all’interno delle relazioni, che siano affettive o amicali. 


    A tutti può capitare, in una certa fase della vita, di sentirsi poco amabili, indegni di attenzioni, o addirittura un po’ da buttare via. È proprio allora che si è più vulnerabili al fascino dei narcisisti, ossia quegli individui incapaci di relazionarsi con gli altri, perché concentrati unicamente sui propri bisogni. 


    In quella fase, incontrare un individuo che emana fascino può essere un grosso inconveniente. Da un lato, riuscire a sedurlo potrebbe dare una grande carica di autostima, ma dall’altro, proprio l’impossibilità di conquistarlo totalmente, una volta per tutte, potrebbe attivare un vortice distruttivo.  


    Autostima 

    Il narcisista, per definizione, non è mai pago dei rimandi degli altri. Per questo la “vittima” potrebbe entrare in un loop drammatico, uno scontro con l’immagine di sé più profonda. Perché se da un lato il bello e dannato offre riscatto e visibilità, dall’altro non può che confermare il deficit di autostima.


    Cosa fare in questi casi? La “vittima” del narcisista deve anzitutto chiedersi: perché questo individuo esercita su di me un fascino così irresistibile? Qual è il ruolo della mia autostima, in tutto questo coinvolgimento? 


    Le risposte a queste domande, come si vede, comportano già una presa di posizione, un progetto. Perché un rapporto interpersonale non si può fondare sulla disparità di potere, di influenza, di spazio. Di nessun tipo. 

  • Sesso virtuale: l’eredità spersonalizzante della pandemia

    Sesso virtuale: l’eredità spersonalizzante della pandemia

    Il Corriere della sera ha pubblicato dati sconcertanti sulla vita sessuale dei ragazzi italiani. Uno su tre praticherebbe soltanto sesso virtuale, mentre più di un milione e mezzo di under 35 non avrebbe mai avuto incontri “in presenza”. C’è una considerazione importante da fare, in merito: il sesso virtuale accentua una forma di narcisismo molto pericolosa. 

    Individualismo 

    La nostra cultura è individualista. Vuoi perché l’iper competizione è per natura nemica della socialità, vuoi perché tutte le allusioni al collettivo, che sono state bocciate dalla storia, le abbiamo espulse – erroneamente – anche dalla nostra vita privata. Espressioni come “io valgo” hanno fatto la fortuna di spot pubblicitari, proprio poggiando sul quel narcisismo di fondo che coviamo dentro, e che non aspetta altro che un buon assist per saltare fuori. 


    Proprio grazie all’assetto strutturalmente individualista della nostra cultura, la pandemia da Covid-19 ha lasciato alcune eredità, alcune delle quali tutt’altro che positive. Una, di cui ho già messo ampiamente in guardia nel mio libro, è lo smart working. Il lavoro ha una natura sociale, se non altro perché un gruppo è qualcosa di più della somma dei suoi componenti. Così il ricorso massiccio al lavoro agile può avere svantaggi in grado di controbilanciarne tutti i vantaggi.


    Una è la didattica a distanza (DAD). Riguardo questa ho già sottolineato come per l’apprendimento sia necessario il confronto, tra allievi, come tra allievi e docenti, e il confronto avviene meglio in una classe fisica.  

    Un’altra eredità, evidentemente, è il sesso virtuale

    Narcisismo autistico

    Ho già proposto altrove la differenza tra narcisismo maligno e narcisismo autistico. Mentre il narcisismo maligno può arrivare ad essere distruttivo, il narcisismo autistico si sottrae alla relazione, e si ritira in bolle esistenziali autonome e auto referenziali. Non raramente il narcisismo autistico sfocia nella psicosi


    Il sesso virtuale nega la relazione, esalta il narcisismo individualista e autistico. Il ricorso esclusivo a metodologie comunicative a distanza, corrode la percezione dell’altro come valore aggiunto, lo identifica come mezzo. Così come per lo smart working e la DAD, abusare del sesso virtuale decontestualizza il comportamento, riducendolo ad un fatto tra sé e sé.  


    Trasforma, in altri termini, lentamente, in narcisisti autistici, ossia in quegli individui che vedono gli altri soltanto come mezzi per raggiungere bisogni immediati e superficiali, ma a cui possono rinunciare nel momento stesso in cui trovano qualcuno più rapido ed efficace nel soddisfarli.  

  • Il perfezionista

    Il perfezionista

    Alcuni individui sono ossessionati dall’eccellenza. Questo atteggiamento, alla lunga, è controproducente, perché può fare emergere ansie e frustrazioni. Inoltre, richiedere agli altri di adeguarsi a standard molto alti, potrebbe incrinare la relazione che abbiamo con loro.  


    Eccellenza vs sufficienza  


    Gli estremismi, in genere, sono rischiosi. Sapersi accontentare è cosa saggia, ma, per esempio, puntare sempre solo alla sufficienza, può essere sintomo di paura. Il  risultato base garantisce di evitare il fallimento, ed equivale alla certezza di non essere inferiori a nessuno: insomma, è una forma di difesa. Inseguire la perfezione, di contro, può essere una gabbia. Alcune persone cercano l’eccellenza in tutto quello che fanno, e sentono un senso intimo di insoddisfazione se questa non viene raggiunta.   


    In alcuni casi la ricerca spasmodica della perfezione ha un che di stucchevole e ridondante. A scuola, o all’università, una tesina deve essere ben curata e approfondita, deve avere le note, le citazioni e la bibliografia completa. Ma altri elementi come le grafiche mobili, i capolettera dorati o i ringraziamenti ai docenti, sarebbero un di più dissonante. Allo stesso modo le assemblee di condominio vengono convocate con una lettera, che ultimamente viene girata anche via mail. Ma se l’amministratore facesse un gruppo WhatsApp, e convocasse in diretta tutti gli assenti, la cosa sarebbe vissuta come un po’ intrusiva. 



    Approvazione e Insicurezza  


    Così alcune volte, dietro alla ricerca della perfezione, c’è il bisogno di approvazione. La cosa di per sé non è negativa, tutti abbiamo bisogno di consenso, o ogni tanto di sentire qualche “bravo”. La differenza la fa il disagio. Il perfezionista nutre un’ insoddisfazione profonda per il suo operato, se questo non possiede alcune caratteristiche. Inoltre è molto severo verso se stesso, al limite di non sapere riconoscere la bontà di quanto realizzato. Il perfezionista, in definitiva, potrebbe avere vari gradi di insicurezza di sé, o delle sue capacità, ed è per questo che il suo lavoro deve rasentare la perfezione. 

    Se il perfezionista da un lato va incontro ad ansia, depressione, disturbi del sonno, ecc…, dall’altro rischia di rovinare rapporti interpersonali, proprio per la sua tendenza a pretendere dagli altri sempre e solo il massimo.

    Il racconto che queste persone fanno di loro stesse, un racconto che probabilmente arriva dalla loro infanzia, ossia di poter sempre dare un po’ di più, e di non essere mai state brave quanto avrebbero potuto, è un racconto che tendono a rivolgere sugli altri, in termini di aspettative o pretese. 
    Ed è così che il perfezionista crea prima dentro di sé, e poi al di fuori, tensioni e malumori. Perché fa vivere tutti, costantemente, sotto il giudizio tirannico della perfezione. 

  • Dove mettere gli amori del passato?

    Dove mettere gli amori del passato?

    Gli “ex” rappresentano un pezzo di vita, che, per quanto passata, è pur sempre la  nostra. Nasce così il dilemma di cosa fare delle emozioni, dei ricordi, delle esperienze fatte nelle storie che li comprendono. Stracciarle, bruciarle, come il tempo che ci ha legati a loro, o salvarle, e così renderle parte della nostra identità?


    Estremismi


    Le reazioni di fronte alla fine di un amore tendono a polarizzarsi intorno a due estremi. C’è chi trattiene l’altro in un abbraccio mentale, rimodulando i ruoli, per garantirgli comunque un posto nella propria vita. “Siamo stati e saremo buoni amici”, “La inviterò senz’altro al mio matrimonio”, “Voglio che sia il padrino di mio figlio”. E poi c’è chi, con vari gradi di astio e rigetto reciproci, mira a svilire o cancellare dalla memoria ogni minuto passato insieme. “Odio Parigi, perché ci sono stata con…”, “Baricco? Non so chi sia, me lo leggeva …”, “Non vedo Fulvio da quando non sto più con…”. 


    Vorrei dire che entrambi questi atteggiamenti sono irrispettosi: anzitutto della persona del nostro presente, e poi anche di noi stessi, della nostra specificità.  Garantire all’“ex” un ruolo di prestigio nel nostro presente equivale a dire al partner attuale: “Stai al tuo posto, non ti esaltare, lui/lei rimane comunque sul podio.”. Chi dice questa cosa probabilmente è un po’ insicuro del nuovo compagno, fatica a lasciarsi andare, a fidarsi, e vuole tenersi una porta aperta. Ma come si può fare un viaggio in auto, o in aereo, lasciando la porta aperta? Garantire all’ex un ruolo, è gravemente irrispettoso del nuovo partner, e infatti bisognerebbe chiedere a queste persone cosa penserebbero se la stessa scelta fosse fatta dall’altro? 


    Inoltre devo dire che chi trattiene l’ex nel proprio presente è un po’ insicuro anche di sé stesso, della scelta fatta. Se un partner diventa “ex”, significa che qualcosa non ha funzionato. Forse è questo che si fatica ad accettare? Forse l’amore per l’altro è talmente radicato che si vuole negare la sua fine, anche a costo di trasformarlo, contro natura, in qualcosa che amore non è?


    Veniamo all’altra polarità, quella distruttiva. Anche questa non è rispettosa, del nuovo partner come di sé stessi. Se in una relazione precedente ho letto Baricco, perché mi era stato consigliato, farei un grave torto, oggi, se non lo consigliassi a mia volta. Inoltre farei un grave torto anche a me stesso, se mi precludessi di frequentare tutti i posti e le persone a cui ero legato prima.


    Il kintsugi dell’anima 


    Come uscire da questo impasse? Come ho scritto nel mio libro, in questi casi bisognerebbe fare il “kintsugi dell’anima”. Il kintsugi è una la tecnica giapponese di riparazione della ceramica, in cui i frammenti vengono uniti con una colla intrisa di polvere d’oro. Il risultato è che un kintsugi vale più dello stesso vaso prima della rottura. 


    Con l’espressione “il kintsugi dell’anima” mi riferisco alla possibilità di collegare, unire e saldare fra loro parti della nostra storia. Tutti abbiamo frammenti di passato che non si parlano, che sono situati in tempi, luoghi, situazioni diverse. Uno di questi casi è rappresentato, per l’appunto, dagli amori. 
    A partire dall’adolescenza, si susseguono alcuni o diversi partner, che lasciano (o tolgono) qualcosa. Questi pezzi sono tessere di puzzle diversi, frammenti che non riusciamo a inserire nello stesso disegno, quello del nostro presente. Per mettere insieme questi pezzi, occorre un’operazione delicata e paziente di kintsugi, ossia incollare un frammento all’altro con mentale polvere d’oro.


    Solo a quel punto il nostro passato ci apparirà come un disegno unitario, e non ci sarà più bisogno di garantire ruoli agli ex partner, né di buttare al rogo, insieme al loro ricordo, le cose fatte insieme. 

  • I Beatles Now And Then: la fine del tempo

    I Beatles Now And Then: la fine del tempo

    L’ultimo brano dei BeatlesNow and then – dissolve il rapporto che lega l’opera d’arte con la rappresentazione del tempo. Ci appare, infatti, come un lavoro sospeso tra le epoche che lo segnano, e che utilizza la musica, che è tempo, per confondere i riferimenti temporali agli ascoltatori.


    Il tempo della creazione


    Per Umberto Eco la creazione di un’opera d’arte, la sua fruizione, e la sua conservazione, sono inestricabilmente connessi con il problema del tempo. Con Now and then i Beatles sfasciano tutti i riferimenti classici che legano un’opera con il tempo, e ci consegnano un lavoro che è insieme una grande illusione psichedelica, un monumento alla civiltà virtuale, una seduta psicanalitica in libere associazioni. 


    Partiamo dalla creazione. Tutti sappiamo che Dante ha lavorato una ventina di anni per la sua divina trilogia, che Tolstoj ne ha impiegati almeno dieci per Guerra e Pace, mentre Haydn, che era molto creativo, chiudeva i suoi lavori più velocemente. In questi casi il rapporto temporale tra l’ispirazione creativa e il prodotto finale appare abbastanza chiaro, ed è, infatti, legittimo chiedersi quanto abbiano impiegato quegli artisti per concretizzare la loro prima idea.    Le cose si complicano quando parliamo di Eyes Wide Shut di Kubrick, o della Sagrada Familia di Gaudì, perché sono state, o verranno, terminate da altri. Indagare i tempi creativi è più arduo, perché può sempre restare il dubbio che siano opere diverse da come immaginate dall’autore. Il percorso artistico, in ogni caso, ci resta chiaro. 


    Dalla gestazione alla nascita di Now and then, invece, la cronologia biologica evapora. John Lennon ha registrato la demo nel 1977, ma da allora sono intervenuti tali e tanti accidenti, da rendere impossibile collegare il contenuto di quel nastro con il file pubblicato dai social network il 2 novembre 2023. 


    Guardiamo da più vicino. Nel 1995, storica reunion, i restanti ragazzi di Liverpool lavorano su alcuni brani che Lennon aveva lasciato su un nastro, tra cui Now and then. I tre pubblicano due tracce, lo sappiamo bene, ma scartano la terza, quella in questione: la voce di John è impastata al pianoforte, il risultato non li convince. Di quelle sessioni, tuttavia, restano arpeggi, accordi, giri di basso, di cui i tre non si disfano. Sono, quelle sessioni, da inserire nel tempo della creazione di Now and then? E se sì, stiamo parlando ancora del brano concepito da John, o di un’altra cosa, sospesa tra passato e futuro? 


    Inoltre c’è un passaggio intermedio, tutt’altro che trascurabile. Sulla cassetta con le incisioni c’era scritto “per Paul”, ma Lennon non l’ha mai inviata all’amico. È stata Yoko Ono a dare la cassetta a Macca, mesi dopo la morte di John. Quindi vediamo un po’, Yoko Ono un giorno nel Dakota Building apre un cassetto, trova il nastro, legge che è per Paul McCartney. Cosa fa la vedova Lennon? Se seguisse il suo primo istinto, alla vista di quel nome andrebbe su tutte le furie, distruggerebbe il tutto e buonanotte al secchio. Invece no, Yoko ha un sussulto, si morde le labbra, apre la porta ai fantasmi del passato. Lascia passare un po’ di tempo, Yoko Ono, e alla fine telefona a Paul. 

    Senza considerare che il nastro poteva tranquillamente andare perso, il rovello interiore di Yoko Ono, e il suo gesto, entrano di diritto nel tempo della creazione. Anzi, dovremmo ammettere che lo dissolvono: perché senza quella fase il brano non avrebbe mai visto la luce. La scelta di Yoko, dunque, si pone al di fuori delle consuete tempistiche creative, le supera, anzi le sfalda. 


      Veniamo a tempi più recenti, é il 2022: Paul McCartney e il suo team hanno nuovi programmi informatici, sentono che il lavoro non è ancora finito, tornano sulla vecchia traccia. Con l’intelligenza artificiale riescono a isolare dal pianoforte la voce di Lennon, “crystal clear” dice sir Paul incredulo: il problema del ’95 è superato!  Si riapre il cantiere, ma nel frattempo Harrison non c’è più. Poco male, ci sono i video del ’95, gli arpeggi, gli accordi. Ci sono i disegni di George, la moglie è d’accordo, andranno bene per la copertina. Il basso si può risuonare, Ringo è un mago nei cori, e poi c’è la stoffa, tanta: e così sarà Paul a fare un assolo di chitarra, in stile George Harrison. Eh, quanta confusione! Il lavoro è finito, osserviamo meglio: la voce è di Lennon, ma il brano c’è per volere di Yoko, c’è grazie all’AI che separa le tracce, e grazie al fatto che nel trambusto dell’otto dicembre non è andato perso. Harrison c’è grazie ai video del ’95, grazie ai disegni dati dalla moglie, e grazie al talento di Paul. Quando esce il singolo è il giorno dei morti, e non è a caso: Now and then arriva dall’al di là, più che dal di qua. Per questo possiamo davvero dire che che è un brano senza tempo: è impossibile ricomporre le fasi della sua creazione, se non dicendo che è appunto il Tempo, nel suo insieme, che ce lo ha consegnato. 


    Il tempo della lettura e dell’interpretazione

    Ammetterete che leggere un meme su Instagram sia più veloce che leggere La Repubblica di Platone. E anche la sua decifrazione, con tutto il rispetto, è più immediata. Now and then scioglie il concetto di tempo di lettura e di interpretazione di un’opera d’arte. Ci avevano già provato con Get Back, I Beatles, l’ultimo brano dell’ultimo album (della prima fase). Già in quel caso non erano tanto Jo Jo e Loretta  Martin a dover tornare indietro, ma l’intero popolo beatlesiano. In un eterno ritorno alle radici, in un perpetuo vagabondare tra le pieghe del tempo passato, ritornare ai 16 anni di I saw her standing there era negare, insieme alla fine del gruppo, la fine dell’adolescenza. È così per ciascuno di noi, che giunto ai trent’anni, per la prima volta, ripensa ad un tempo passato. 


    Ma ora è diverso, Now and then dura pochi minuti, ma non finisce con l’inchino dei quattro. Anzi, è proprio allora che i fans asciugano la lacrima, afferrano la chitarra, e premono rec sullo smartphone. Oggi ci sono i social, tutto si può condividere. La storia dei Beatles si intreccia con la storia dei loro fans, con la storia delle loro emozioni, dei loro amori, delle loro delusioni.


    Questa volta l’ascolto e l’interpretazione di una traccia audio non avrà fine. Ogni ascolto indurrà l’ascolto di altri brani, e la sua interpretazione porterà a fare confronti, discussioni, parallelismi. Come avviene con il testo freudiano in psicoanalisi, con la Critica della ragione di Kant, con la poesia romantica inglese. Now and then polverizza il rapporto classico tra l’arte e il tempo. 


    Now and then: ma quando di preciso?


    “C’era una volta, tanto tempo fa…” così iniziavano le fiabe. La letteratura definisce il tempo narrativo in vari modi, a volte più esplicitamente, a volte meno, ma in genere sempre con un decorso lineare. Il principe Andreij ama segretamente Natasha, ai tempi delle guerre napoleoniche, il matrimonio di Renzo e Lucia non s’ha da fare, ai tempi della peste, Pisa è vituperio delle genti italiche, ai tempi del conte Ugolino. Che fosse una volta tanto tempo fa, senza altre indicazioni, o che fosse precisamente ai tempi di Napoleone, di don Abbondio o di Dante, la storia che viene raccontata ha un prima, un durante, un dopo. Al più, come in alcuni film gialli, potrà raccontare uno o più flash back, ma sempre all’interno di un frammento spazio-temporale definito.   

    Now and then è una matassa intricata di memorie, che definisce la dissoluzione del tempo narrativo e interpretativo. Lennon canta nel 1977, quindi si riferisce in maniera assai vaga a qualcosa che riguarda quegli anni. Ma si rivolge a Yoko Ono, o a Paul McCartney? Perché se si riferisce a Yoko, (il loro incontro risale al 1966), il Now and then riguarda gli anni tra il 1977 e il 1966. Se invece si riferisce a Paul, amico di infanzia, il riferimento si sposta a molto tempo prima. Oppure in un verso accenna a Stuart Suttcliff, l’amico morto prima del grande successo? In quel caso Now and then definirebbe un frammento di storia precedente all’incontro con Yoko, ma successivo a quello con Paul. 


    Come abbiamo detto, inoltre, il brano non esiste per solo merito di Lennon, quindi in quel “Now and then” vanno considerati gli accidenti del 1980, del 1981 (il ritrovamento), e del 1995. Ossia accidenti che riguardano la traccia che ascoltiamo, ma non gli intenti di chi la canta. Non esistono le coordinate spazio-temporali di Now and then


    E poi ci siamo noi, il pubblico. Anche noi, ascoltando, pensiamo al nostro “Now and then”: ma quand’è di preciso? Dante esce dalla selva a 35 anni, e noi con lui, pensiamo a quando, più o meno alla stessa età, ci volgemmo a rimirar lo passo che non lasciò persona viva. Quando Bastian si chiude nella soffitta della scuola, con la testa tra il mondo di Fantàsia e la principessa dei suoi sogni, lui (e noi) ha tra i 12 e i 16 anni. Quando Kid Rock canta Sweet home Alabama, a metà strada tra ragazzo e uomo, sappiamo bene cosa intende. Ma Now and then, quando la situiamo? Oggi che ascoltiamo, oppure quella volta che ci siamo innamorati? Oppure forse pensiamo a quando eravamo bambini, o a quando abbiamo visto per l’ultima volta colui che non ritorna, e ci manca così tanto? 


    Se non sappiamo rispondere a queste domande, o meglio se ogni volta a queste domande sorge una risposta diversa, significa che il tempo non viene più rappresentato, ma resta sospeso, come nella memoria. E che cosa fa sì che nella memoria un ricordo sia più vivido di un altro? Il connotato emotivo che vi si associa. Ecco allora che la rappresentazione del tempo perde i connotati narrativi, razionali, esteriori, che ha sempre avuto nell’arte, e ne acquisisce di differenti.  Ed ecco l’ennesima magia di John Lennon, che ci lascia un brano fuori dal tempo, che è insieme grande illusione psichedelica, monumento alla civiltà virtuale, seduta psicanalitica in libere associazioni.