Calcio: la svolta narcisistica e la fine del risultato

Il calcio è stato a lungo lo sport più seguito dagli italiani, e per questo osservarne le dinamiche ha sempre aiutato a cogliere alcuni piccoli/grandi cambiamenti nella cultura collettiva del nostro Paese. 

Tiki-Taka: il massaggio tantrico del calcio

Alcuni dati sugli ascolti delle partite dicono che la popolarità di questo sport è in calo rispetto ai decenni scorsi, ma si possono ancora fare delle considerazioni significative, soprattutto riguardo all’atteggiamento mentale con cui il pubblico guarda gli eventi. Abbiamo già detto di come la filosofia Tiki-Taka possa sfociare, quando estremizzata, in un’aggressività passiva, una specie di ostruzionismo rovesciato, dal sapore tantrico, in cui l’obiettivo non sia tanto quello di andare verso la porta, ma di irretire, se non umiliare, l’avversario. 

Un altro aspetto particolarmente inquietante è la svolta narcisistica del calcio contemporaneo. Il narcisismo sta diventando un marchio tipico del nostro tempo, soprattutto se associato all’individualismo, che il modello economico di riferimento ha fatto prevalere, rispetto a tutte le forme di economia dal prefisso “sociale”. 

Il narcisismo, che, come detto, di per sé non è necessariamente patologico, ha, però, quasi sempre a che fare con l’autostima e l’immagine di sé. Tanto più devo pavoneggiarmi, sminuire l’altro, evitarne l’incontro empatico, quanto più, evidentemente, ho paura di scomparire al suo cospetto, di mostrare la mia fragilità, di scoprirmi inferiore.

E il nostro presente, fatto di social network, di like, di tag nei post degli altri, è particolarmente orientato a forme di riconoscimento legate all’apparenza, più che alla sostanza. 

Il risultato non conta

Ora, nel calcio contemporaneo è in atto una svolta filosofico/antropologica. La vittoria, il risultato, il conteggio dei gol fatti, sta perdendo di importanza, a scapito degli schemi, della prestazione, della qualità del gioco espresso. Non è importante vincere, ma essere apprezzati, applauditi, diciamo pure: apparire belli. Come definire questo atteggiamento, se non come narcisismo

La svolta narcisistica è impropria, nello sport (proprio come lo è per un individuo), in quanto le regole, nella pratica, non sono certo cambiate. La vittoria nei tornei dei dilettanti e dei professionisti, nelle gare nazionali e internazionali, nelle partite amichevoli o ufficiali, viene assegnata sulla base dei gol fatti, non sulla base, per esempio, del tempo di possesso palla, del numero di passaggi, o di quello dei corner ottenuti. Quindi mistificare, e di fatto non riconoscere, questa regola, ponendovisi al di fuori, non è una strategia adattiva, ma regressiva e disadattata. 

La pretesa narcisistica di essere apprezzati per il solo merito della propria presenza, senza dover fare concretamente qualcosa che valga la valutazione, o la stima, altrui, è piuttosto pericolosa. E la pretesa di essere apprezzati per quello che decidiamo noi, e non per quello che un certo contesto ci richiede, lo è ancora di più. 

Credo che se da un lato dobbiamo stare attenti alla svolta narcisistica nel calcio, e nello sport in genere, come pericolosa deriva di autarchia psichica, dall’altro dobbiamo prestare attenzione al suo più pericoloso, e inquietante, sottinteso: il narcisismo dilaga, e ci ha ormai preso la mano.

Torino è (stata) granata. Una risposta a Claudio Marchisio.

Una polemica surreale grava su Torino. Claudio Marchisio, ex bandiera della Juventus, ha affermato che i tifosi granata sono l’anima della città. I sostenitori juventini, secondo il bravo centrocampista, sotto la Mole quasi non esistono, e quei pochi sono poco rumorosi. Insomma, come diceva il vecchio adagio, Torino è granata.

A parte il viatico implicito, per i proprietari della società bianconera, a poter infine delocalizzare anche questa loro attività imprenditoriale, la discussione, oltre che di cattivo gusto, perché fatta da un ex simbolo bianconero, assume i toni del paradossale.

Anzitutto il sig. Marchisio dovrebbe sapere che ci sono ragioni storiche se a Torino molti simpatizzano per la squadra nata per seconda. Nel 1949, ai tempi della tragedia di Superga, il Grande Torino era paragonabile al Real Madrid di oggi. Vi immaginate se in uno schianto morisse l’intera rosa delle merengues, con Kylian Mbappé, Bellingham e tutti gli altri? Pensate che in Spagna la vicenda passerebbe inosservata? Il 4 maggio del 1949, volenti o nolenti, definisce una cesura nella storia dello sport torinese, una data che ha spostato le simpatie popolari. Unita, ovviamente, anche al fatto che chi vince è più antipatico di chi vince di meno. Ecco la prima lezione che dovremmo tenere a mente, leggendo le parole di Marchisio.

Poi Claudio dovrebbe pensare all’effetto vertigine della lista. Il bambino della pubblicità si meravigliava di vedere un pollo, perché non ci era abituato. Se da giocatore, Marchisio, avesse provato a perdere alcune decide di derby, invece di vincerli praticamente tutti, probabilmente i suoi tifosi avrebbero dato meno per scontate le sue prestazioni. Quindi in fondo è colpa sua, li ha abituati troppo bene. Altra lezione molto importante, che possiamo trarre, da questa polemica: la gente si abitua allo standard che forniamo.

E poi veniamo al paradosso. Per un quarto d’ora (di gloria) granata, vecchie bandiere della Juventus arrivano addirittura a difendere le ragioni dei cugini. Al Filadelfia tutto bene? Nessuno si sente usurpato? È proprio vero che i tempi cambiano, tutto passa o si trasforma. Altra lezione, quindi: anche quella granata, alla fine, non è più una vera religione.