Perché un leader è meglio di un trascinatore? L’esempio degli sport di squadra.

In tema di leadership è molto importante la differenza tra leader e trascinatore. Prendiamo ad esempio gli sport di squadra: un leader sovente è anche un trascinatore, ma non tutti i trascinatori sono dei leaders.

Molti credono che saper portare una squadra alla vittoria sia capacità di leadership. Che anche dare l’esempio sia leadership, che compattare lo spogliatoio sia segno di leadership, ecc… . Queste caratteristiche sono parzialmente anche quelle del leader, non c’è dubbio, ma sono soprattutto tipiche di un trascinatore. 

Il condottiero amato dal pubblico, che si ‘prende la squadra sulle spalle’, che suona la carica, quello è un trascinatore. 

Sia chiaro, il trascinatore è utilissimo ad un gruppo; inoltre è molto amato dal pubblico. 

Ma il trascinatore non è necessariamente anche un leader. 

Nella concezione contemporanea il leader non è solo uno che dà l’esempio: il leader induce gli altri a fare cose, ad agire come corpo unico. 

Il leader per esempio determina un comportamento senza richiederlo. Oppure induce un pensiero, (di gruppo) o al momento opportuno sa indurre cambiamento. Il leader porta un gruppo a pensare prima ancora dei singoli, ad essere entità autonoma, un qualcosa di più della somma degli individui.

La differenza è sostanziale: negli sport di squadra, ma non solo, è meglio un leader che un trascinatore

Considerazioni inattuali sull’organizzazione e gestione delle risorse umane: gestire il personale tra pensiero forte e pensiero debole. (Da un lavoro del 1998)

Indice:

  • L’azienda post-moderna.
  • Valutare i collaboratori: la riscoperta del potenziale.
  • Il compito impossibile nei servizi: ovvero il paradigma del molteplice.

L’azienda post-moderna

Ciò che è Grande è necessariamente
oscuro agli uomini Deboli.
Ciò che può essere reso chiaro all’Idiota
non merita la mia attenzione.

(William Blake)

L’epoca di continue evoluzioni e rivolgimenti nella quale stiamo imparando a vivere si presenta in modo totalmente diverso rispetto alle epoche che l’hanno preceduta. Si può affermare questo per almeno due ordini di motivi: il primo è che, come detto, oggi tutto cambia rapidamente: ideologie politiche, filosofie, tecnologie, equilibri sociali, tutto vive nello spazio di un lasso di tempo appena sufficiente a progettare una prospettica differente. Il secondo motivo è che chiunque può riflettere su questa epoca, e prenderne coscienza. La società medievale o rinascimentale, tanto per intenderci, sono rimaste per secoli uguali a loro stesse, e certamente i contadini o gli artigiani del tempo non potevano o non sapevano riflettere su questo.
Partendo da questa duplice condizione alcuni filosofi hanno ravvisato in questi anni un cambiamento non tanto all’interno della società, quanto piuttosto un cambiamento della società stessa. Secondo questi studiosi starebbe avvenendo il passaggio da una società tipicamente industriale ad una società che essi definiscono post-industriale.
Uno degli elementi della società post-industriale è, come vedremo meglio nella terza sezione, il ruolo di predominio (diciamo così, o economicamente di maggior prestigio) dei servizi sull’industria. Ma in senso lato si intende fare riferimento a tutta una serie di connotati tipici del nostro modo di vivere che erano del tutto assenti, per esempio, nell’Italia degli anni Cinquanta, o negli Usa degli anni Venti.
A livello sociologico questi connotati tipici sono ben riassunti dal paradigma della ‘società di massa’, a livello artistico dal paradigma del ‘postmoderno’, a livello politico dal paradigma della ‘fine della storia’, ecc…

Soggetto tipico di questa nuova società è il cosiddetto ‘pensatore debole’ (soggetto debole a me non piace, perché l’individuo non è debole, lo è la posizione del suo pensiero). Il pensiero debole (si veda Vattimo 1983, e altri) è tipico di colui che, avendo percepito la potenziale contraddizione insita nella natura delle cose, ha imparato a dubitare sistematicamente di tutto, non accettando più assiomi fondamentali come dogmi, e quindi non avendo a disposizione verità assolute, certezze metafisiche, risposte pronte, indubitate, definitive.
Nel linguaggio di Fukuyama, Liotard, Derrida, Vattimo o Thriller espressioni come società di massa, postmoderno, deregulation economica, fine della storia, postindustriale e altre sono pressoché sinonimi. Sono infatti adatte da sole ad indicare la situazione cui essi vogliono riferirsi: l’habitat del pensatore debole.
Tale habitat è costituito dal mondo occidentale odierno, in cui esistono centinaia di lavori differenti, decine di diversi corsi da laurea, molteplici alternative di voto politico e…ampie gamme di scelta su dove passare le vacanze. In questo mondo occidentale qualunque attività umana viene giocata sulla molteplicità, sul pluralismo, e non esiste più un Vero e un Falso, tutto è relativo e soggettivo. E’ su questo palcoscenico che interpreta la propria esistenza il pensatore debole, il quale si accetta nella sua umana limitatezza di non avere più risposte indebitate su nulla.
I due elementi, la società plurale e il soggetto indebolito che vive al suo interno, agiscono l’uno sull’altro come un meccanismo a feedback, rinforzandosi a vicenda: quanto più la società sarà in grado di proporre versioni alternative tutte ugualmente accettabili su un determinato argomento, tanto più il soggetto dovrà necessariamente relativizzare i propri punti di vista (indebolirsi). Del resto, quanto più i soggetti saranno non univocamente diretti e accetteranno come precondizione al loro esistere l’astensione da ogni presa di posizione, (così come proposto da Nietzsche e Heidegger) tanto più la società si presenterà come nebulosa e indistinta.

Come nessun elemento della società può esistere senza essere influenzato da questo fenomeno, così anche l’azienda deve adeguarsi ai nuovi scenari culturali.
In un celeberrimo fil dal titolo ‘Tempi moderni’, Charlie Chaplin descriveva con sarcasmo la condizione dell’operaio nella catena di montaggio. Quello era il modernismo. Se oggi i tempi sono postmoderni quel modo di impostare il sistema produttivo è superato. La variabilità dei mercati e la continua innovazione renderebbero desuete le modalità produttive di Charlie Chaplin.
Per Frederick Taylor l’operaio non doveva pensare, doveva sapere avvitare bulloni. Oggi invece sappiamo che il successo commerciale di un prodotto è dato anche dalla buona motivazione di chi concorre a produrlo.
Da quando scriveva Taylor ad oggi è passato un secolo (breve) di storia: Hitler, Stalin, il Sessantotto…e i Rolling Stones.
Oggi esistono comitati di bioetica in quanto è diventato possibile brevettare sequenze genetiche, laddove fino a metà del secolo le donne non avevano neppure diritto di voto. Nel 1997 il Premio Nobel per la Letteratura è andato a Dario Fo, un giullare: forse davvero nella vecchia Europa un’epoca è conclusa.
E’ quantomeno auspicabile che le aziende sappiano interpretare questo momento di transizione e che si adeguino prima che sia troppo tardi. Delineare linee guida non può fare parte di questo mio lavoro, ma ritengo necessario caldeggiare ai vertici di ogni azienda di tenere in debito conto le idee da cui abbiamo tratto spunto per queste riflessioni. Pena l’esclusione, ad opera del sistema, dal mercato e dalla vita produttiva in cui è inserita.

Valutare i collaboratori: la riscoperta del potenziale.

Così percorro l’arco della vita,
torno da dove venni.

(Friederich Hoelderlin)

La valutazione dei collaboratori è momento gestionale topico all’interno della vita aziendale. Il dover giudicare l’operato delle persone che contribuiscono in maniera sostanziale al funzionamento dell’impresa, e che magari sono amici o colleghi stimati, è infatti attività tanto psicologicamente onerosa, quanto fondamentale e irrinunciabile. Elemento particolarmente disagiante di tale attività è che essa grava quasi interamente sui quadri, i quali possono non avere le competenze o la voglia di farla fino in fondo. Per questo essi hanno elaborato metodologie proprie, prendendo un po’ da varie fonti, mettendo insieme Freud, Kant, Weber, insomma facendo un ‘di tutto un po’, non sempre totalmente funzionale. L’oggettività in questi casi è nodo fondamentale, nonché prerequisito gnoseologicamente necessario in una visione neo empirista della disciplina. Così Auteri e Busana riassumono le metodologie e i criteri comunemente utilizzati per formulare giudizi sui collaboratori all’interno di un continuum ideale ai cui estremi situano da un lato tecniche a giudizio soggettivo e dall’altro tecniche a giudizio oggettivo. Brevemente la sintesi è la seguente:
1. Valutazione dell’individuo nella sua globalità così come viene percepito dal valutatore. Giudizio espresso confrontando le caratteristiche del collaboratore con un modello comportamentale di carattere complessivo.
2. Valutazione dell’individuo non nella sua globalità ma analiticamente attraverso il confronto tra il suo modo di lavorare e una serie di fattori pre definiti.
3. Valutazione formale dei risultati di lavoro accanto ai relativi comportamenti organizzativi. L’oggettività è maggiore che nei precedenti metodi in virtù di una valutazione più spostata sui risultati.
4. Valutazione del risultato raggiunto a fronte di un obiettivo assegnato. Il capo diretto definisce consensualmente con un collaboratore un risultato che questi dovrà raggiungere, e la valutazione sarà quindi inerente a ciò che è stato realizzato di quanto assegnato.

Nel continuum tecniche soggettive – tecniche oggettive il quarto criterio risulta agli autori come particolarmente oggettivo. Secondo Auteri e Busana, quindi, la tecnica migliore per giudicare l’operato di un individuo è quella di verificare in modo empirico le ‘corrispondenze’ tra obiettivi prefissati e risultati raggiunti. Definendo meglio e schematizzando i due studiosi definiscono i punti 1 e 2 come ‘tecniche di valutazione dei meriti’, in quanto inerenti al persona, e i punti 3 e 4 come ‘tecniche di valutazione delle prestazioni’, in quanto valutative dei compiti svolti.
All’interno di un panorama socio-culturale in cui predomina la molteplicità degli orientamenti, mi sembra di poter ritenere eccessivamente rigido e meccanicistico considerare come unica via alla valutazione la mera considerazione dei risultati raggiunti. In una visione ‘debole’, sfaccettata, della questione credo che si possa evocare la presenza di altri scenari come sfondo al passaggio input-output. Continuando la metafora informatica, ad esempio, una volta inserito un input in un PC, le probabilità di ottenere un determinato output saranno certamente dipendenti dalla qualità dell’hardware. Ma in caso di non raggiungimento del risultato sarebbe un errore di Simplicio non considerare l’eventualità di un problema di programmazione, di un malfunzionamento della tastiera, o di un blackout improvviso.
Allo stesso modo valutare un collaboratore essenzialmente dagli obiettivi che è riuscito a conseguire tra quelli prefissati, potrebbe trarre in inganno circa le giuste attribuzioni delle cause per cui non ha raggiunto gli altri. Una crisi valutaria in un Paese fornitore di materie, il cambiamento di uno scenario politico, una scoperta biomolecolare, o anche la fine di una moda, sono tutte condizioni capaci, da sole, di fare saltare i piani di mercato di un’azienda.
A mio avviso, quindi, il quadro – Salviati dovrebbe cercare di sollevare il velo di Maya della conoscenza sensibile, per raggiungere shopenhauerianamente il reale valore – noumeno del collaboratore e delle sue azioni. In questo modo avrebbe la possibilità di conoscere più intimamente i motivi di un eventuale fallimento della strategia concordata, e anche di percepire molto prima la capacità potenziale del suo subordinato. I vantaggi di conoscere il primo di questi elementi sono per lo più operativi, ma potrebbero essere anche economici: sarebbe meglio evitare di inviare alla concorrenza un collaboratore scartato su basi erronee. I vantaggi di conoscere il secondo elemento, il valore potenziale, sono anch’essi molto importanti, ma assumono tale importanza in un’ottica gestionale di medio periodo per la vita dell’azienda: il potenziale di un individuo è la possibilità stimata che egli possa fare fronte a impegni più difficili rispetto a quello appena portato a termine.

La necessità di valutare le capacità potenziali di un collaboratore sono cresciute di pari passo con l’affermarsi dei sistemi di valutazione incentrati sul risultato, considerati più oggettivi (categorie 3 e 4 di Auteri – Busana). Questo nuovo sistema valutativo che possiamo considerare più maturo, è indice di una presa di coscienza degli orizzonti interpretativi proposti dai senatori deboli: i dati immediati cessano di essere espressione di verità univoche, tutto si problematizza, e anche nel valutare chi ci sta di fronte è necessario considerare visioni in trasparenza, appunto, di orizzonte.
Del resto credo sia possibile affermare che in un rapporto lavorativo così importante, intenso, duraturo, come quello tra quadro e collaboratore, sia della massima importanza che il primo sappia bene fino a che punto potersi spingere nelle richieste al secondo, ovvero fino a punto potersi fidare di lui.

Lo spazio a mia disposizione è estremamente esiguo in questa sede, e la complessità e l’ampiezza degli argomenti trattati sono tali da escludere una completa ed esaustiva trattazione in poche righe. Nonostante questo, però, cedo di aver indicato alcuni punti interessanti e di avere fornito spunti per considerazioni che, per quanto ‘inattuali’, possono aggiungere qualcosa alla già vasta letteratura di questo campo.

Il compito impossibile nei servizi: ovvero il paradigma del molteplice.

Imagination is more important
Than knowledge

(Albert Einstein)

La nostra società, che in questa trattazione ho definito come ‘di massa’, ma soprattutto ‘post-moderna’ o ‘postindustriale’, assume tale definizioni nel confronto con altre società che non hanno ancora raggiunto la fase industriale. In Italia assistiamo da più di un decennio ad un fenomeno che non si presta a diversità di interpretazioni, cioè la progressiva diminuzione della forza lavoro impiegata nell’industria e conseguente aumento di quella impiegata nel settore terziario. Grande calderone in cui convergono le attività più diverse, il terziario è comunque definito come il settore dei servizi. Pertanto elemento caratteristico e determinante della società occidentale è la cultura del servizio.
Conseguentemente con queste premesse è facile capire come il ‘servizio’ sia un concetto non direttamente identificabile come una specifica attività, ma al contrario vi sia una vasta gamma di ‘cose’ genericamente definibili come servizi.
In alcune occasioni il compito che un servizio si trova a dover realizzare risulta essere particolarmente difficile, se non addirittura proibitivo. Si parla in questi casi di servizio dal compito impossibile. In questo lavoro ho provocatoriamente preferito affrontare i diversi argomenti di discussione mantenendo vivo e riconoscibile, anche solo fra le righe, il confronto tra un’ottica di ‘pensiero forte’ e una di ‘pensiero debole’ che ho sposato. (E lo posso affermare in virtù del mio pensiero forte.) I dibattiti, nella loro brevità, sono stati tuttavia condotti cercando di fornire da un lato alcune proposte teoriche univoche e definitive, (prospettiva forte) e dall’altro eventuali considerazioni o soluzioni più volutamente indistinte, opinabili, ermeneutiche (prospettiva debole). Il campo dei compiti impossibili nei servizi mi è sembrato, tra quelli studiati da questa disciplina, come particolarmente suscettibile di una visione, per così dire, ideografica, al punto che l’ho definito, nel titolo, il paradigma del molteplice.
Importanti spunti di riflessioni sono stati tratti da un lavoro di Sergio Capranico (1992) nel quale l’autore presenta rischi e difficoltà di chi opera nei servizi dal compito impossibile.
I compiti impossibili sono quelli di operatori che si occupano di pazienti con gravi patologie mediche o psichiatriche, magari ad esito infausto, di anziani non autosufficienti, portatori di handicap ecc… . La nuova cultura sanitaria assistenziale impone, anche eticamente, che tutti vengano curati per quanto possibile, e che a tutti venga fornita una buona assistenza. Ma il Ministero non prescrive come comportarsi con queste persone. Sovente la disperazione spinge i pazienti e/o i loro famigliari a idealizzare le capacità degli operatori, a sperare in riabilitazioni praticamente impossibili. Gli operatori investiti di tali aspettative, forse per il fenomeno della dissonanza cognitiva, corrono il rischio essi stessi di illudersi sulle proprie possibilità. Tutto questo, chiaramente, può portare a distorsioni della realtà che non giovano a nessuno, e comunque non a chi ne avrebbe più bisogno.
Citando Fornari (1962) Capranico ricorda come le azioni velleitarie collusive finalizzate a degenerare la realtà siano, in una psicanalisi con uno schizofrenico, sostanzialmente di due tipi.
1. La posizione magico-etica volta a proiettare parti del mondo interno sul mondo esterno: le forse della natura sono governate dalle leggi morali dell’uomo e non da leggi proprie, quindi se le azioni di un individuo saranno buone, la natura si comporterà bene con lui.
2. L’identificazione con l’oggetto frustrante volta a controllare l’angoscia di impotenza.

Secondo Capranico, dunque, queste posizioni portano a responsabilizzazione illusoria ovvero sono antitetiche alla responsabilità. Per il nostro autore il corretto e responsabile atteggiamento di fronte ai compiti impossibili è quello di combattere in modo attivo l’assenza di abilità nei confronti del compito e questo può essere perseguito cercando altre abilità. O meglio scomponendo il compito impossibile in parti possibili, o più precisamente:

  • Attraverso l’affermazione di valori: se occuparsi di malati gravi viene percepito come un valore positivo, la delusione per l’insuccesso tecnico può venire stemperata dal riconoscimento sociale.
  • Attraverso una struttura di aiuto reciproco: gli operatori fanno gruppo fra loro e trovano gratificazioni alternative.
  • Attraverso la stimolazione di studio, sperimentazione e ricerca, al fine di raggiungere la abilità necessarie a trasformare il compito impossibile in compito possibile.

Nei compiti impossibili l’informazione scientifica a disposizione è scarsa, laddove non inutile, e comunque insufficiente rispetto agli obiettivi di cura e riabilitazione. In questa situazione, ecco il paradigma del molteplice, ciò che viene richiesto agli operatori è la capacità di sviluppare abilità e comportamenti non codificati, al fine di far fronte in modo creativo ad una situazione incerta e di difficile interpretazione. (Per inciso si può qui ricordare che ogni processo educativo non sia tanto scienza quanto arte). In un mondo ipertecnologico, in cui ogni singola operazione professionale richiede un alto grado di specializzazione, le ideologie fenomenologico – ermeneutiche non trovano molto spazio. Né tantomeno molti sostenitori. In questo caso invece, in cui mancano precise sistemazioni scientifiche e rigorosi assiomi di comportamento, il campo si presenta proprio come postulato dai teorici del pensiero debole: non esistono situazioni uguali, ma soltanto simili, gli oggetti di studio non sono dati aprioristicamente, ma sono dipendenti dal soggetto conoscente, (due operatori di fronte allo stesso caso vedrebbero e farebbero cose diverse). Come comportarsi quindi in questi casi? Il fisico tedesco Albert Einstein diceva che l’immaginazione è più importante della conoscenza. Lo scienziato non potrà scoprire nulla di nuovo se sarà legato a vecchi schemi di pensiero: soltanto quando darà spazio alla sua parte immaginativa potrà forse giungere ad una nuova soluzione di un problema.
Così nei compiti impossibili bisogna imparare a pensare e agire in modo creativo. E se in modo creativo si seguono le ricette di Capranico il compito potrà diventare possibile.
Questo fondere pensiero forte e pensiero debole può sembrare una sintesi degli opposti, e forse in effetti lo è, ma certo non vuole essere una nuova filosofia: nel Novecento gli uomini sono stati molto bravi a costruire nuove filosofie, molto meno a risolvere problemi.

Da Vivian Maier a John Lennon: l’arte come cura del sé. La fase due della psicoterapia.

Nella fase due della psicoterapia sovente chiedo ai pazienti di fare arte. Non pretendo opere immortali, ma produzione creativa, estro: per quello che riescono e secondo le loro disposizioni. 

Uscire dal silenzio e dare corpo a stati interni può essere molto salutare. Ma solo se è anche consapevolezza e autodeterminazione: ossia comunicazione con l’altro, richiesta di riconoscimento. 

Ho recentemente visitato la mostra d’arte della fotografa Vivian Maier. Ho notato che la mia richiesta nella fase due della psicoterapia assomiglia alla distanza tra l’operare di questa artista e quello di un altro gigante del Novecento: John Lennon

La fotografa Vivian Maier ha trascorso la sua vita nel silenzio: quasi nascosta tra la gente, ha scattato migliaia di fotografie che ha praticamente tenuto per sé. E’ l’ideale dell’arte fatta per fare arte, della tensione ideale, della purezza, se vogliamo, dell’artista come poeta del creato. Non c’è la pretesa di dire niente agli altri, di suggerire, di affermare, ma solo il piacere di una narrazione intimistica, come quella di un diario segreto. Per John Lennon è il contrario. Il suo rapporto con l’arte è una passione viva che va oltre il denaro, le convenzioni sociali, il successo. Egli vuole comunicare, costi quello che costi: perdere amici, soldi, o addirittura essere espulso dagli Stati Uniti. L’esigenza comunicativa è la spina dorsale della sua storia artistica: per questo abbandona il suo fortunato gruppo. Non importa se quello che dirà sarà scomodo, l’importante è riuscire a dirlo, essere ascoltati. 

La fase due della psicoterapia è quella in cui un individuo guarda gli altri negli occhi: da pari a pari avanza le proprie richieste. Fare arte diventa così la metafora del coraggio narrativo, il coraggio di chi smette di dire e fare solo cose che fanno piacere agli altri, ma comincia a dire e fare anche qualcosa che agli altri può essere scomodo. 

Consiglio a tutti di incontrare l’opera di questi due monumenti del nostro tempo. E consiglio a tutti di osservare la differenza tra la qualità della vita di chi trova il modo di dire quello che sente, e di chi invece lo tiene per sé, forse nella paura che possa non piacere. 

La religiosità è un’alternativa alla psicoterapia? La differenza tra ‘sopportare’ ed ‘elaborare’.

Molti movimenti religiosi perseguono la felicità dell’uomo. 

Le religioni in genere (spero di non essere troppo generico né generalista) hanno come obiettivo la salvezza dell’anima. Esse offrono un impianto di credenze che definiscono il funzionamento delle cose ultime, e di conseguenza una serie di riti a cui attenersi per raggiungere l’obiettivo della salvezza. Che però è un obiettivo dell’‘al di là’. 

Non c’è dubbio che le credenze religiose diano serenità e felicità agli uomini anche ‘al di qua’, ma si tratta per lo più di una conseguenza, non è l’intento principale. 

Vi sono poi i movimenti religiosi, ovvero quelle forme di spiritualità che hanno come target il miglioramento della vita attuale degli esseri umani. Questi movimenti lasciano più che altro sullo sfondo riflessioni sulla vita eterna e sulla salvezza dell’anima, non hanno una teoria circa il culto dei defunti, né una serie di pratiche rituali definite e standardizzate. Si concentrano sul presente.  

In molti casi queste forme di spiritualità si propongono come alternative alla psicoterapia. Nei loro libri si parla di ‘auto efficacia’, di ‘respirazione consapevole’, di ‘ritrovare se stessi’ ecc…,  pratiche che vengono anche proposte per il trattamento della fobia sociale, della depressione o del Disturbo Post Traumatico da Stress

Si sa che una parte decisiva nella cura è compiuta dall’aspettativa, per lo meno per quanto riguarda il mettersi a disposizione, l’aprirsi a possibili soluzioni alternative. Però c’è una differenza sostanziale tra imparare a sopportare un peso o lasciarsi scivolare addosso un problema, e invece trovare delle soluzioni. 

La religiosità non è un’alternativa alla psicoterapia. Imparare a respirare o orientare il letto ad est non sono in grado di sciogliere i conflitti: ce ne accorgiamo soprattutto quando dobbiamo affrontare traumi profondi come la violenza o gli abusi, oppure problemi che riguardano il rapporto con il cibo, come i disturbi alimentari, o difficoltà relazionali come il saper lasciare andare. In tutti questi casi non si tratta di fortificare se stessi per ‘sostenere’ meglio i pesi della vita, ma si tratta di elaborare, digerire. 

Chi ha subito un trauma non lo supera convincendosi di esserne in grado, soprattutto se questo trauma nel frattempo ha creato ferite profonde.

Allo stesso modo chi non riesce a entrare in una galleria difficilmente lo farà senza modificare le implicazioni profonde, i significati simbolici che egli attribuisce alla galleria. 

Le nuove forme di spiritualità insegnano agli individui a essere più riflessivi, sereni, a trovare la felicità. Ma non sono un sostituto della psicoterapia. In estrema sintesi insegnano ad adattarsi, non promuovono il cambiamento. 

Mamme sotto stress. Il sovraccarico mentale come fattore di rischio.

Il sovraccarico di molte mamme odierne è un fattore di rischio per il loro equilibrio mentale

La distribuzione degli impegni dei figli nell’arco dei sette giorni, diversamente da quanto avveniva un tempo, è parte integrante di questa condizione. Oggi il sistema famiglia deve adeguarsi in modo diverso, e non sempre purtroppo le mamme trovano l’adeguato sostegno. 

Le ricadute sulla salute mentale vanno dai problemi del sonno, in genere i primi a comparire, ad ansia generalizzata, a umore altalenante, fino alle caratteropatie. 

Le mamme sotto stress sentono di essere meno lucide, risolvono i problemi più lentamente di prima, e hanno la sensazione che senza il loro contributo tutto può fermarsi. E’ importante sottolineare che queste mamme non sono più stanche fisicamente, il loro sovraccarico è mentale. 

L’aiuto che dovrebbero sollecitare è nel funzionamento del sistema famiglia, del resto lo stesso che le ha condotte a questa condizione perché incapace di sostenerle adeguatamente. Se il sistema è assente, queste mamme devono trovare il modo di scegliere quali impegni dei figli continuare a gestire, e quali invece rimandare al futuro. 

Per la loro salute mentale, e naturalmente per quella dei loro figli.