È più facile definire le epoche storiche a posteriori, durante il loro svolgimento, infatti, non riusciamo a coglierle nel loro insieme. Questo vale anche per le epoche individuali: arriva un giorno in cui possiamo dire con certezza che gli anni trascorsi dal tale evento della nostra vita, al talaltro, possono appartenere ad una certa fase, distinta da quella successiva.
La fine della modernità
Negli ultimi decenni, tuttavia, si sono susseguiti i tentativi di cogliere con definizioni il presente narrativo, con l’intento di definirne i contorni, e possibilmente di prevederne le evoluzioni. Tutte le espressioni usate, a partire dagli anni Sessanta, hanno avuto come suffisso protagonista la “modernità”. C’è stato il post moderno, all’incirca da quando Umberto Eco fondava il Gruppo 63, fino a quando Gianni Vattimo ci parla di pensiero debole. E poi c’è stato l’iper moderno, grosso modo da quando Zygmunt Bauman ha coniato la sua definizione di società liquida (idealmente possiamo pensare all’11 settembre 2001), fino alla pandemia da Covid-19. I riferimenti storici non ingannano, in quanto il possibilismo relativista del soggetto post moderno, debole, e orfano di storia, cominciò ad andare in crisi proprio in quel giorno di settembre, e non smise di farlo fino agli attentati del Bataclan, quando il populismo semplicista e generalizzante aveva ormai conquistato tutti i campi del pensare in pubblico.
“Modernità”, quindi scompariva man mano da tutti i discorsi sul nostro presente, e soprattutto da tutte le definizioni del soggetto contemporaneo. Se “moderno” era un’allusione al positivismo scientista, e l’uomo che lo abitava era certamente tecnocentrico, ma indubbiamente razionale e ottimista, il presente che stiamo cominciando a vivere è la negazione di ogni forma di modernità. E infatti non è più l’ordine, ma il caos, a imporsi in ogni campo, non è più la ragione, ma l’istinto di sopravvivenza, a dominare il dibattito pubblico, non è più la mente umana, ma la mente delle macchine (meraviglioso paradosso linguistico) a guidare la nostra azione.
Il tempo del caos, della frammentazione, dell’identità sfocata, coincide con l’epoca dell’Intelligenza Artificiale.
Finalmente la guerra: nostra vecchia passione
L’Intelligenza Artificiale (mai definizione fu più fuorviante, l’IA, o AI dall’acronimo inglese, non crea – per il momento – ma assembla), è la protagonista di questo stralcio di secolo, e definisce in maniera plastica la nostra resa nei confronti della storia. Se possiamo demandare alle macchine i ragionamenti, i calcoli, persino le diagnosi mediche, possiamo finalmente dedicarci a quanto di più umano esista al mondo: l’odio, la divisione, la guerra.
La frammentazione psichica del soggetto occidentale, causata dall’involuzione economica, dalla crisi (per l’appunto) dei modelli culturali (arte, politica, religione), dalla perdita dell’egemonia sul resto del mondo, determina lo scivolamento verso condotte difensive arcaiche. Identificare l’identità individuale con il territorio, cosa fuorviante per definizione, regredire a forme di difesa/attacco primordiali, la paura di tutte quelle diversità che invece prima ci stimolavano e incuriosivano, definiscono l’atomizzazione della nostra psiche profonda. Ossia, ci traghettano dalla fase dell’identità liquida, in cui si poteva intuire una pur vaga parvenza di forma, ad una fase senza forma, e lo stato caotico della mente non può che essere quello psicotico.
Nello stato psicotico la confusione tra interno ed esterno è totale, e di conseguenza lo è anche la confusione tra nemico interno e nemico esterno. Il paziente psicotico è quello che sente la voce del suo persecutore seguirlo ovunque, anche quando è a chilometri di distanza, è quello che vede un pericolo in tutte le persone che incontra, perché non ha imparato la differenza tra le paure che si porta dietro, e i veri pericoli del mondo, è quello che crede stiano parlando di lui, anche quando ognuno è intento a pensare alle proprie cose.
Ancora tu: l’Umanesimo
Questa condizione esistenziale, come si vede, è quella che meglio predispone all’odio, al conflitto, alla divisione. Tutte cose in cui, noi umani, eccelliamo in massimo grado. Come uscirne? Ecco, allora, che si apre una risposta, che per ragioni di spazio qui non possiamo che accennare. L’uomo occidentale ha approfondito l’arte della guerra, e ne è maestro. Ma ha anche approfondito gli studi umanistici, e anche in questo è (stato) maestro. Questi studi umanistici, però, ad oggi, risultano un po’ datati, e sono inadatti, per dare risposte adeguate in questo caos.
La rifondazione dell’Umanesimo è un’idea che Julia Kristeva, linguista e psicoanalista, propose a Joseph Ratzinger, nella giornata di dialogo interreligioso, appuntamento voluto da Giovanni Paolo II.
Nelle due righe qui sopra c’è un progetto, vi invito a rileggerle. Umanesimo, Julia Kristeva, dialogo, Ratzinger, Giovanni Paolo II.
La coppia, il lavoro, ma anche l’arte, la politica, e non solo, devono esser riviste, ridefinite, anzi rifondate. Questo è l’unico vero antidoto alla frammentazione del sé, alla psicosi collettiva, in definitiva, alla guerra totale.
Ma non c’è molto tempo, il precipizio è già sotto di noi.