Jannik Sinner: la cultura della fatica.

Il training psicologico nello sport riguarda competenze che, come le abilità tecniche, possono essere potenziate. Il caso Jannik Sinner, giovane orgoglio del tennis italiano, mette in evidenza una capacità sottostimata, nello sport professionistico: la resilienza alla fatica e al sacrificio. 

Competenze allenabili, e non allenabili

Nello sport si contano almeno tre categorie di aspetti mentali. Quelli donati dalla natura, come la capacità di gestire lo stress di gara, o la concentrazione. Quelli condizionati dall’inconscio, o da eventi del passato dell’atleta, come la paura di infortunarsi nei contrasti, la fiducia in sé stessi, o la tendenza a serbare rancore. E poi vi sono gli aspetti più dipendenti dalla volontà, o quantomeno dalla motivazione interna, come seguire una dieta alimentare, avere una vita regolare, ecc… . L’attitudine al sacrificio, al lavoro duro, e più in generale la resilienza alla fatica, appartengono al terzo tipo. 

Ciascuna di queste tre categorie prevede percorsi diversi di preparazione mentale, ma quella che abbiamo citata per ultima risulta la meno “allenabile”, almeno per gli atleti maturi. Essa è infatti più legata alla personalità dell’individuo, alle sue disposizioni interiori. Diego Maradona, in Italia, amava molto frequentare gli amici, mentre Cristiano Ronaldo faceva una vita ritirata, mettendo al primo posto il suo lavoro. E potrei fare altri esempi. Gli sportivi affermati hanno già strutturato una loro modalità di integrare vita privata e attività agonistica, ma gli emergenti possono fare ancora molto per aggiungere questo aspetto nel loro bagaglio professionale. 

La cultura della fatica è un asset strategico dell’atleta

Jannik Sinner ci mostra che la resilienza alla fatica e al sacrificio non è una competenza secondaria. La motivazione interiore, diremmo intrinseca, nell’affrontare qualunque attività della vita, ma soprattutto nello sport professionistico, codifica per una maggiore tendenza al costante miglioramento, o al mantenimento dei livelli raggiunti. 

Esistono diversi espedienti per migliorare la motivazione intrinseca, uno di questi è fare leva sull’orgoglio, un altro sugli obiettivi personali, e così via. La cosa importante è che il giovane atleta, il suo staff tecnico, e tutte le persone che lo circondano, non sottovalutino la portata di questo che è a tutti gli effetti un asset della sua vita professionale. 

La cultura della fatica, in altre parole, non è un valore da proporre soltanto agli atleti meno dotati, quelli che devono sopperire con il duro lavoro alle lacune tecniche, ma può fare la fortuna anche dei più bravi. E la parabola di Jannik Sinner lo testimonia chiaramente.  

Il Ghosting. Tra narcisismo e paura della relazione

Insieme ad Angela Critelli e Sonia Sabato (^) ho tenuto una conferenza dal titolo “Il Ghosting: tra narcisismo e paura della relazione”. Riporto di seguito i principali argomenti toccati, nella consapevolezza che il tema meriterebbe ben più che un incontro per essere affrontato nella sua interezza.

Il Ghosting 

Partiamo anzitutto da una definizione. Il ghosting è il comportamento di chi decide di interrompere bruscamente una relazione sentimentale e di scomparire dalla vita del partner, rendendosi irreperibile. Inseriamo questo argomento tra le attività didattiche riguardanti l’educazione affettiva, poiché rappresenta, a tutti gli effetti, una nuova forma di violenza psicologica

Altri comportamenti simili, come non rispondere a messaggi, chiamate o email, o disattivare le notifiche di consegna, non rientrano nella definizione stretta di ghosting, ma configurano lo stesso tipo di atteggiamento narcisistico e passivamente aggressivo. Per questo le considerazioni che seguono valgono per tutte le forme di violenza legate alle comunicazioni digitali, non soltanto a quelle incluse dalla definizione standard. 

Il termine ghosting è nato negli anni Novanta del Novecento, con le prime comunicazioni a distanza consentite da internet, ma è diventato di uso comune nel corso degli anni 2000, dopo che un giornalista americano lo ha utilizzato per definire l’atteggiamento di una star di Hollywood, che per rompere la relazione con una partner, aveva preso a “comportarsi come un fantasma”. 

Ghosting, dunque, è un modo brusco per terminare una relazione senza doverlo dire, e schivando ogni responsabilità. Può essere utilizzato per chiudere qualunque tipo di relazione, ma riguarda per lo più le relazioni affettive, ossia quelle nelle quali può essere più difficile assumersi responsabilità. 

Narcisismo 

Il ghosting è legato alle opportunità consentite dalle nuove tecnologie, che si legano alle tendenze della nostra società individualista, ma livello psicologico è sovente associato al narcisismo, il grande comune denominatore di molti atteggiamenti e comportamenti disfunzionali, nelle relazioni contemporanee.

Il narcisismo è l’atteggiamento di chi fa di sé stesso il centro esclusivo del proprio interesse, nonché oggetto di ammirazione, mentre resta più o meno indifferente agli altri, di cui ignora o disprezza il valore. Il narcisismo è sempre un atteggiamento negativo, soprattutto nelle sue espressioni più radicali e patologiche, ma si può anche affermare che, entro certi limiti, saper ignorare i commenti degli altri, o riconoscersi del valore dopo un successo (sportivo, scolastico, lavorativo) sia una componente vitale di un sé adulto. 

Empatia

Se per empatia intendiamo la capacità di mettersi al posto dell’altro, di sentire cosa sente, come se fossimo in lui (lei), il ghosting condivide con il narcisismo proprio la totale mancanza di empatia. Ignorare l’altro è una pratica violenta in quanto ignora l’altra persona, ne svaluta l’importanza nella relazione, che invece dovrebbe essere di reciprocità e di riconoscimento reciproco. 

Come il narcisista svuota l’altro di valore, e vede soltanto sé stesso, allo stesso modo il ghoster riconosce nella relazione soltanto le proprie esigenze e le proprie bieche motivazioni. Le conseguenze sono plurime e deleterie. Da un lato il ghostato si sente sminuito proprio agli occhi della persona amata, per cui sperava di contare qualcosa,

ma dall’altro, fenomeno che tra i giovani può avere un impatto persino peggiore, può venire svalutato e deriso nel gruppo di pari. 

Un percorso di educazione affettiva dovrebbe porre al centro la relazione, termine sempre più desueto nel cyberspazio, in cui per definizione navighiamo da soli. Relazione significa promuovere lo spostamento dello sguardo dal “me” delle mie esigenze, al “noi” di una relazione, che può essere a due, se la relazione è affettiva, ma anche a molti, se la relazione è di gruppo, per esempio in una classe, o in una squadra. E tenendo, infine, presente, che se allarghiamo una relazione a un “noi” di moltissimi, allora parliamo del nostro vivere all’interno di una società.  

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(^) Angela Critelli, sociologa, e Sonia Sabato, psicologa clinica, hanno presentato con me “Il ghosting, tra narcisismo e paura della relazione”, nell’ambito di un percorso di educazione affettiva, in una scuola superiore di Torino. 

Luci e ombre nella sanità digitale

All’interno di un progetto di Sloweb, l’associazione che promuove l’uso responsabile degli strumenti informatici, del web e delle applicazioni Internet, ho tenuto, insieme a Giovanna Giordano, una conferenza dal titolo “Luci e ombre nella sanità digitale.”. Riassumo qui i temi principali dell’intervento, a cui è seguito un interessante dibattito, che per ragioni di spazio, però, non potrò riportare. 

Il digitale è entrato in ogni ambito della nostra vita, dal lavoro, all’istruzione, dai rapporti sentimentali, alla militanza politica, allo svago, e, naturalmente, anche alla sanità. L’intelligenza artificiale (AI), e più in generale tutto ciò che è “digitale”, in ambito sanitario, ci inquieta particolarmente, e per questo è bene parlare da subito dei vantaggi, degli svantaggi, e soprattutto dei fantasmi che le nuove applicazioni ci suscitano. 

Abbiamo sempre avuto un rapporto di fiducia personale con il nostro medico, basato sul fatto che ci conosca meglio di chiunque altro. Sa bene quali malattie abbiamo avuto nel corso degli anni, quali hanno avuto i membri della nostra famiglia, e ha sviluppato una modalità complessiva di accudimento nei nostri confronti, non legata soltanto ai sintomi, una modalità che tenga conto anche dello stress, delle preoccupazioni del momento, ecc… .

La rivoluzione digitale mette parzialmente in crisi questo modello, e nel moltiplicare le opportunità diagnostiche, ci allontana dal medico, frammentando di conseguenza la fiducia che nutriamo in lui (lei) e nelle soluzioni che ci consiglia. 

Curarsi con Google

Anzitutto è bene sottolineare come il digitale stia portando innovazioni tecniche e opportunità prima neppure immaginabili: pensiamo alle protesi, alla robotica, alla chirurgia da remoto, ecc… . Tuttavia, uno degli aspetti più pericolosi oggi, è la possibilità di rintracciare sul web informazioni su sintomi, diagnosi, tecniche terapeutiche, e simili. Tutti abbiamo cercato informazioni sulle malattie dei nostri cari, consultando un vocabolario o un’enciclopedia medica, ma la ricerca sullo smartphone è cosa differente. 

Quando un tempo correvamo a casa, spaventati, dopo un incontro col medico, attingevamo a fonti di cui conoscevamo la validità. L’enciclopedia edita dalla grande casa editrice, il dvd del luminare del famoso ospedale, al più gli appunti del corso di primo soccorso fatto al lavoro, ecc… .  Forse non erano fonti aggiornate, ma erano certamente valide, ne potevamo certificare la qualità. L’importanza delle fonti, come in ogni ambito del sapere, non è cosa secondaria. 

Se oggi in preda all’ansia apriamo Google, e cerchiamo informazioni mediche, il più delle volte ci infiliamo in un vicolo cieco. Anzitutto perché non sappiamo quali siti siano più credibili di altri. Un motore di ricerca che ci presenta una pagina, non conosce la validità di ciò che quella pagina contiene. E poi ci infiliamo in un vicolo cieco perché Google non ha studiato medicina. Un medico fa buon uso delle informazioni reperite su internet, perché le combina con la sua competenza medica, la sua esperienza, e con quello che sa di noi. Solo un professionista è in grado di usare correttamente i risultati di una ricerca in rete.

La psicosi da algoritmo

Un altro aspetto controverso della nuova epoca digitale, è la fiducia che abbiamo nei medici che adoperano strumenti nuovi e ancora in via di perfezionamento. Diamo loro la stessa fiducia di un tempo? Quando il medico appoggiava l’orecchio sulla nostra schiena, e diceva “dica trentatré”, o quando ci metteva due dita sul polso, e guardando l’orologio misurava la frequenza cardiaca, avevamo in lui (lei) una fiducia cieca. È lo stesso ancora oggi, quando in equipe osservano dentro di noi, ma non guardano verso di noi, ma lo schermo di un Pc? 

E poi c’è la psicosi da algoritmo. Il dott. Fabio Mellano, psicologo clinico e neuropsicologo, ha proposto il termine psicosi da algoritmo per definire una specifica forma di psicosi di riferimento, indotta dall’esposizione massiva ai social network. Io sostengo che, in senso lato, questa espressione possa definire tutte le situazioni di accesso indiscriminato, e senza limiti, al web. Per funzionare, un social network ha bisogno di seguire alcuni parametri, essendo impossibilitato a mostrare i post che vengono pubblicati in tutto il mondo, in un determinato istante. Questa modalità di funzionamento, però, può indurre l’utente a ritenere che la realtà stia girando intorno a lui (lei) e che in qualche modo sia una sua stessa emanazione. 

Questa distorsione amplifica, ad un livello profondo, inconsapevole, il senso di onnipotenza, nonché il narcisismo, in quanto il fruitore entra in una bolla disegnata su sua misura dall’algoritmo. 

Spegnere i dispositivi 

A tal proposito torna utile la lezione insegnataci dal giornalista Mario Calabresi. Egli scoprì, durante un’intervista, che l’amministratore delegato di una grande società di telefonia, spegne tutti i dispositivi elettronici al termine della sua giornata lavorativa. Quest’uomo si reca a casa e trascorre alcune ore con la famiglia, fino a dopo cena, quando nuovamente accende i dispositivi e risponde a chi lo ha cercato. 

Il flusso delle informazioni, e soprattutto il flusso delle comunicazioni, può essere fermato. Con quali vantaggi? Provare per credere. 

Ecoansia. L’angoscia per i cambiamenti climatici, fuori dal nostro controllo.

Donal Trump affronta il problema del riscaldamento globale con una battuta: “Si alza il livello delle acque? Bene, avremo più case con vista mare!”. L’ottimismo dell’ex (futuro?) presidente Usa, però, non è condiviso da tutti, e infatti sono molti a sviluppare sintomi di ecoansia, “la paura che si prova al pensiero ricorrente di possibili disastri ambientali” (Treccani).

Controllo

Vorrei mettere in evidenza alcuni tra gli aspetti fondativi dell’ecoansia. Il primo è la perdita di controllo per quello che ci capita. Quando a livello individuale sviluppiamo problemi legati all’ansia, in genere essi riguardano la paura di usare l’ascensore, di salire sull’auto di altre persone, prendere un aeroplano (e simili). Ossia situazioni in cui siamo assoggettati agli eventi, e nulla di quello che ci avverrà sarà sotto il nostro controllo. In altre epoche, una forma di paura sociale simile all’ecoansia è stata quella dell’incubo atomico. Anche in quel caso i cittadini erano totalmente dipendenti da scelte altrui, e non c’era nessuna posizione politica, sociale, economica che potesse garantire definitivamente dal quell’incubo. 

Oggi vediamo una situazione simile, le condizioni meteo peggiorano letteralmente a vista d’occhio, e la percezione di essere in balia degli eventi, e di non poter esercitare nessun tipo di controffensiva volontaria, spiazza e mette in crisi. 

Fiducia nel futuro 

Il secondo aspetto che vorrei segnalare, e che spiega perché ho citato Trump, è la paura verso il futuro, la disillusione, la conflittualità globale (ai nostri danni). Gli anni dell’incubo atomico erano anche gli anni della crescita economica, delle conquiste della scienza, delle grandi rivoluzioni culturali. L’ottimismo dilagava in qualunque ambito, le conquiste spaziali da un lato, e i trapianti di organi dall’altro, davano la percezione di un uomo ormai definitivamente padrone della natura. L’esatto opposto di quanto avviene oggi. 

La frammentazione sociale, economica, politica del mondo, come abbiamo già detto diverse volte, corrisponde ad una inevitabile frammentazione psichica. E la natura, che credevamo doma, si rivela infida, pericolosa, matrigna. Ma la frammentazione sociale non colpisce tutti nello stesso modo, come l’ecoansia. C’è persino qualcuno che può vedere nei cambiamenti climatici un’opportunità. È questione di punti di vista.

La fine del sacro non riguarda la natura 

E poi c’è un ulteriore aspetto, la fine del sacro. Inteso come ciò che crediamo inviolabile, insuperabile, la morte del sacro non ha riguardato la natura, e questa per l’uomo contemporaneo è un’onta insostenibile. Il femminicidio ci insegna che persino le relazioni più intime possono essere distrutte, senza vergogna o colpa. Le chiese sono vuote, perché l’uomo ha distrutto l’idea stessa di Dio, non abbastanza adeguata alle sue necessità. La politica, l’arte, tutti i campi dell’idealismo umano sono stati svuotati, piegati, ma non la natura.  

La natura continua ad essere sempre sopra di noi, sempre incontrollata, e oggi sempre più minacciosa. Ecco un’altra coordinata dell’ecoansia. Abbiamo imparato a dominare, persino a mistificare, tutto ciò che è (o dovrebbe essere) sacro, tranne la natura. E questo basta e avanza, per creare angosce profonde e gravemente insostenibili. 

Coppie al capolinea. Come riconoscerle, come uscirne.

La prima relazione in cui siamo coinvolti, appena dopo la nostra nascita, è all’interno di una coppia. La dimensione duale del rapporto con la madre, (o con chi ne fa le veci) influenza, di conseguenza, ogni rapporto a due che incontriamo nel corso della vita. Ci sono relazioni che ci ricordano quella primaria modalità di accudimento, ce ne sono altre totalmente diverse, e altre ancora che ne condividono soltanto alcuni aspetti. Vivere in coppia è difficile, perché arriva sempre il momento in cui la persona amata non risponde alle nostre aspettative, che derivano da quella esperienza primordiale. 

Relazioni tossiche

Ad ogni modo, non tutte le dinamiche che non rispettano le aspettative sono finite, ad alcune, in realtà, ci si può adeguare. Del resto a questo serve l’innamoramento, a trovare la forza di superare le differenze, per preservare qualcosa di più grande. Ci sono invece altre relazioni, che palesemente hanno esaurito la loro carica propulsiva, in cui le differenze diventano ogni giorno più pesanti. In questi casi non serve resistere, nascondersi dietro l’amore che si prova, perché il più delle volte è un amore “tossico”, e queste coppie sono al capolinea. Un esempio di relazione tossica è quella basata sull’asimmetria. Se c’è uno sbilanciamento di potere, come nel caso della violenza di genere, o della dipendenza affettiva o economica, in cui una delle due parti è soggiogata all’altra, l’“amore” che si prova non è sempre genuino, perché “intossicato” dalla necessità. 

Mind games

Quando in una coppia la comunicazione è dominata dai “mind games” (ne ho parlato in precedenza) ossia da quelle giravolte verbali che mirano solo a mistificare i fatti, anche questa coppia è al capolinea. I mind games sono attacchi vili che generano insicurezze, mentre un rapporto maturo dovrebbe emancipare, non legare. Una delle motivazioni alla base dei mind games è l’infedeltà. Le coppie infedeli amano mistificare i fatti, per poter continuare a mantenere l’attuale equilibrio. 

Identità di genere

Non se ne parla mai, ma è un’occasione di grande sofferenza in coppia. Se uno dei due partner smette di identificarsi nel rapporto di genere in atto, le cose si fanno molto difficili. Diamo per scontato che se un individuo forma una coppia con un altro individuo del genere opposto, l’identità di genere che ne deriva sia stabile o intoccabile. Poiché questo non è vero per tutti, può capitare che l’equilibrio si spezzi, e anche in questi casi la coppia è al capolinea. 

Se nella vita di coppia sentiamo echeggiare uno o più di questi aspetti, l’asimmetria, i mind games, e l’identità di genere, fermiamoci. Potrebbe andarne del bene dell’altra persona, del futuro che insieme pensiamo di costruire, ma anche del nostro benessere personale.   

A cosa serve, oggi, una biblioteca?

Ho recentemente presentato il mio libro Il Kintsugi dell’anima in una prestigiosa biblioteca di Torino. Tra le domande postemi dal pubblico durante la discussione, una è stata particolarmente interessante: quale utilità può avere oggi una biblioteca? I nostri dispositivi elettronici sono in grado di racchiudere in sé, (in memoria, o grazie alle reti) più libri di quanti ne possa esporre una biblioteca comunale. Pertanto non è così strano chiedersi a cosa possa servire, oggi, una struttura fisica adibita a tale scopo?

Guglielmo e Don Chisciotte 

Cercherò di rispondere, a questa suggestiva domanda, traendo spunto dalla storia della letteratura. La creatività umana, lo sappiamo bene, è alimentata da fantasie e angosce diffuse tra gli individui. Diverse tra queste riguardano le biblioteche. Ne Il nome della Rosa di Umberto Eco, si racconta di una biblioteca che nasconde un segreto terribile. Il protagonista vorrebbe entrare in questa biblioteca, cedere alla tentazione della conoscenza (già letto in un altro libro?), ma i saggi glielo impediscono. Le vicende si snodano attorno a questo edificio bizzarro e terribile, fino al drammatico epilogo che ne determina la distruzione in un rogo. 

In questo romanzo le fantasie e le angosce sono molteplici, si intrecciano e accavallano tra loro, ed è proprio la biblioteca a definirne contorni e confini. Anzitutto la conoscenza, di biblica memoria. Conoscere è pericoloso: per non ripetere l’errore di Adamo ed Eva, è bene creare una grande biblioteca, e richiudere lì dentro i segreti della conoscenza. Ma come per Adamo ed Eva, anche per il protagonista del romanzo è impossibile stare lontano: l’uomo è per natura portato a interrogarsi, indagare, cercare risposte. E questo anche a costo della sua stessa incolumità. La conoscenza cambia, per sempre. A volte uccide. E poi c’è il rogo. Nell’antichità un’importante biblioteca andò in fiamme, distruggendo chissà quali capolavori. E sappiamo bene che i regimi autoritari danno alle fiamme i libri. Cosa significa? Quale angoscia si nasconde dietro al rogo di una biblioteca? Come si vede il rapporto tra gli esseri umani e le biblioteche è un rapporto ancestrale, profondo, che chiama in causa le considerazioni più importanti che facciamo, e che vorremmo condividere con tutti, anche quelli che verranno dopo di noi. 

Nel suo Don Chisciotte della Mancia, Cervantes racconta di un nobiluomo che vive rinchiuso in una biblioteca. Il potere taumaturgico del libro compatta il sé di Don Chisciotte, lo aiuta a costruire un mondo fantastico in cui il bene è al sicuro, in buone mani, e il male non avrà il sopravvento. Don Chisciotte non può uscire dalla biblioteca, pena la sua sanità mentale. E infatti, in un’epoca antecedente ogni studio sulla psichiatria, Cervantes (che scrive dal carcere) mette alla berlina quest’uomo un po’ strano, ci fa sorridere bonariamente, ma oggi possiamo fare ben altre considerazioni. La follia, la paura, il vuoto esistenziale, il libro come antidoto alla morte del sé. Se l’arte esprime fantasie e angosce collettive, cosa significa che la biblioteca sia luogo di salvezza dalla morte psichica? Cosa vuole dirci Cervantes, e cosa sentiamo noi quando lo leggiamo? Perché se non chiudiamo il libro dopo la prima pagina significa che riesce a dirci qualcosa. 

John Keats

Torniamo alla domanda iniziale. A cosa serve oggi un edificio adibito a custodia, catalogo e prestito di libri, oggi che grazie all’informatica possiamo avere in tasca tutti i libri che vogliamo? Ebbene, la biblioteca, come ci insegna la letteratura, non è mai soltanto uno spazio fisico. È un luogo per incontrare menti, pensieri, emozioni, anche di persone che non ci sono più. È un luogo per cercare da soli qualche piccola verità, in un mondo che ci serve grandi verità ogni giorno, al punto che non sappiamo più di chi fidarci. Tornano alla mente le parole di John Keats: “Chiamate il mondo la valle del fare anima”. Ecco a cosa può servire oggi una biblioteca, a fare anima. Forse stiamo sconfinando nella psicologia, di nuovo mi sono fatto prendere la mano. Allora fermiamoci qui, di questo parleremo un’altra volta.  

Per una psicologia del post occidentale

Allo stato attuale di sviluppo della nostra società, dobbiamo ammettere due cose: la civiltà occidentale va verso il declino, e la cultura su cui l’abbiamo fondata non ci ha reso felici. Ripensare il nostro approccio alla vita, al mondo e agli altri, può essere un modo per non scomparire, e anzi, imparando dagli errori, adeguarci al mondo che cambia. Ma è anche un modo per costruire una psicologia rivolta a tutti gli essi umani, non soltanto quelli che vivono a occidente. 

Declino (infelice) 

La cultura cui apparteniamo ha perso il suo slancio vitale, non è più dominante nel mondo, ed è condivisa da una parte sempre più esigua di esseri umani. Rispetto agli anni dei grattaceli, delle metropolitane e degli aerei supersonici, in parole povere, il modo di vivere all’occidentale affascina sempre meno, anzitutto noi stessi. Inoltre dobbiamo ammettere che questo modo di vivere non ci ha dato felicità. Ad oggi il disagio mentale è totalmente fuori controllo, in una stagnazione economica endemica, e in cui la fiducia nel futuro continua a precipitare.

Per decenni i nostri intellettuali si sono scagliati contro la tecnica, che andava trasformando, a loro dire, i cittadini in automi. Invece la tecnica non ha trasformato tutti in automi, qualcuno ha anche saputo trarre giovamento da grandi innovazioni come l’aria condizionata, Internet, o la telefonia mobile. 

Sono invece i modelli culturali su cui ci siamo basati, ad aver perso la sfida del tempo. Sono come le colonne del tempio di Sansone, che si vanno sgretolando, e noi rischiamo di restarci sepolti. 

Un focus

“Ad un problema complesso corrisponde sempre una soluzione semplice, immediata, e di facile attuazione: quella sbagliata.” Questa battuta di un grande giornalista contemporaneo significa che una strategia multidimensionale non è definibile in poche parole. Se siamo a questo punto, se il modo di vivere all’occidentale fa acqua da tutte le parti, è difficile invertire la rotta, soprattutto in maniera spartana e semplicistica. 

Tuttavia è possibile individuare alcuni capisaldi culturali che possono essere rivisti se si vuole pensare ad una nuova psicologia, stavolta che non guardi più soltanto all’uomo occidentale, ma agli uomini (e alle donne) del medio oriente, dell’Africa sub sahariana, e così via…

La iper competizione: non ha creato benessere economico per tutti, ha fatto sentire esclusi molti, e anzi ha generato malessere tra chi è stato inadeguato. La competizione è diventata una ragione di vita, uno modus operandi, ed oggi assistiamo a competizioni persino dove non dovrebbero essercene. Doveva essere uno sprone economico, è diventato un progetto di vita individuale.

Il modello culturale patriarcato/femminismo. Questo modello, basato sul conflitto e non sulla cooperazione, ha condotto le campagne femministe a non proporre il superamento del patriarcato, ma il suo rovesciamento. In questo modo l’occidente si è incancrenito in fasi opposte di rivalse reciproche, fino a corrodere la fiducia, elemento indispensabile per il vivere collettivo.

Di conseguenza: individualismo. Ci sono state epoche in cui abbiamo saputo lavorare a progetti comuni, come ai tempi della nascita degli stati moderni, ma poi siamo diventati sempre più individualisti, e questo è stato rinforzato dai modelli economici, specie dopo la caduta del Muro. Il manager di un’azienda guadagna fino a mille volte più di un dipendente, così come il giocatore simbolo di una squadra di calcio. 

La morte del sacro. Una società senza religioni né religiosità, senza spiritualismi, né passioni idealistiche per la politica, o per l’arte, è una società senza speranza.  

Nell’immaginare il post occidentale, questi sono alcuni elementi del nostro vivere che dovremmo provare a rivedere, a ripensare. O quantomeno a registrare. Si tratta di pensare ad una nuova psicologia, considerare l’uomo in maniera diversa da come abbiamo fatto fino ad ora. E almeno per questo, non è mai troppo tardi. 

La droga come mezzo marinaio. Il bambino infelice all’inseguimento della persona amata.

La droga è sballo, socialità, prestazione. Ma la storia di alcuni ragazzi con Disturbo da Uso di Sostanze ci insegna che la droga è qualcosa di più. Può diventare un aiuto per raggiungere la persona amata, un modo per essere finalmente visti, accettati, apprezzati. In questi casi il rapporto con la droga si trasforma in progetto di vita: non esiste più un “io” senza lei, ma soltanto un “noi”. La narrazione personale diventa, infatti, “io e la sostanza”. 

Infanzia infelice

Il primo tassello della vita di questi pazienti è la disperata ricerca di un modo per essere “visti” da qualcuno. La necessità di captare l’affetto dell’adulto, può portare un bambino a sperimentare diverse alternative. Ad esempio diventare uno studente modello, oppure un piccolo saggio che fa da genitore ai suoi genitori, oppure ancora colpevolizzarsi, per assumere su di sé le responsabilità delle sventure familiari. 

Nei casi di cui stiamo trattando si è visto che alcuni bambini, una volta cresciuti, imparano a colmare la distanza tra loro e gli adulti con l’aiuto della droga. 

Raggiungere l’adulto da cui non si è stati raggiunti è operazione devastante dal punto di vista emotivo, che necessita di un supporto esterno. Vedere la luce di quello sguardo, sentire che finalmente l’Altro è contento, non ha prezzo, e se questo risultato viene ottenuto con l’aiuto di una droga, (o dell’alcol, o di psicofarmaci), le conseguenze sono straordinariamente distruttive. 

Il padre malato ha finalmente sorriso, ma ci sono riuscito grazie a quella sostanza che mi ha calmato l’angoscia. La madre depressa ha detto bravo, perché ho fatto tutto senza dimenticare niente, ma l’ho fatto grazie ad un bicchiere di alcol, perché altrimenti sarei andato su tutte le furie. Ecc… In queste situazioni, non sono più io a fare qualcosa, ma noi, io la mia fidata compagna/compagno. 

Cortocircuito: le maschere 

In questo modello, come si vede, c’è un cortocircuito. Fare qualcosa con l’aiuto di una droga non è privo di effetti collaterali. Se da un lato la droga aumenta certe prestazioni, alza le soglie della fatica, e per questo garantisce la visibilità tra i pari, dall’altro crea una dipendenza che può essere anche fisica. 

Inoltre, e soprattutto, quando la narrazione è “a due”, una parte difficile del trattamento è quella delle cosiddette maschere. Nel momento in cui un individuo raggiunge l’Altro con l’aiuto della droga, e impara a raggiungere tutti gli Altri significativi con l’aiuto di una droga, imparerà giocoforza a fare sempre di più tutto quanto in questo binomio. Fino a quando sarà legittimo chiedersi: quando parlo con te, con chi sto parlando? Con te, o con voi due? 

Ecco perché quando per un adulto che è stato un bambino infelice, conquistare la persona amata diventa un progetto disperato, da raggiungere a qualunque costo, la droga può rappresentare una risorsa, un alleato, un’amica. Ed è proprio in casi come questo che il Disturbo da Uso di Sostanze si incastra nell’identità profonda, nella personalità di un individuo. Con le conseguenze che si possono immaginare. 

La psicosi da algoritmo

Si deve a Fabio Mellano, psicologo clinico e neuropsicologo, l’introduzione del concetto di psicosi da algoritmo. Egli definisce in questo modo la condizione di quei pazienti con deliri di riferimento, che trovano nei social network delle conferme alle loro convinzioni patologiche. Il concetto psicosi da algoritmo, però, può essere esteso a gran parte della nostra attività social. 

Delirio di riferimento e algoritmo

Il delirio di riferimento è la condizione in cui una persona ritiene che un evento comune, il testo di una canzone, la pagina di un quotidiano ecc, contengano dei riferimenti diretti a lei. Il funzionamento dei social network, come vediamo tutti i giorni, si presta in maniera elettiva a questa distorsione percettiva, e ciò grazie al funzionamento dell’algoritmo

Un social network pubblica ogni giorno miliardi di post. L’algoritmo è quel meccanismo che ci consente, una volta entrati in bacheca, di visualizzare soltanto i post che ci interessano maggiormente. Va da sé che, chi soffre di un disturbo psicotico, è particolarmente esposto a fraintendere la logica di tale funzionamento. 

Nel caso rilevato dal dott. Mellano, un paziente con delirio di riferimento si era invaghito dell’attrice americana Jenna Ortega. L’ossessione per questa artista, aveva portato il ragazzo a visualizzarne in maniera compulsiva immagini e video sui social network. Il risultato era stato un delirio di riferimento, disturbo di cui, però, il giovane, non aveva mai sofferto in precedenza. L’algoritmo, infatti, aveva determinato un’esclusiva presenza dell’attrice tra i contenuti, fino al punto in cui il paziente aveva perso il contatto con la realtà. Nella fattispecie egli aveva cominciato a ritenere che, con la sua presenza, Jenna Ortega volesse comunicargli alcune cose, tra cui ad esempio il suo amore per lui, oppure dargli delle indicazioni pratiche per la sua vita quotidiana.

Fabio Mellano diede, per l’appunto, all’insorgenza di questo disturbo, il nome di psicosi da algoritmo

Il senso del luogo

Grazie all’algoritmo, dunque, lo spazio virtuale è un contesto cucito ad hoc su di noi. La principale conseguenza è che talvolta nel social network siamo più a nostro agio che nel mondo reale. 

Quando entriamo in rete, infatti, immediatamente veniamo riconosciuti, e in qualche modo il mondo si apre al nostro passaggio. Molte persone, di questi tempi, tendono a innervosirsi quando guidano nel traffico, o quando entrano in banca, o al supermercato, anche perché nessuno li riconosce, nessuno li lascia passare. Questo è certamente idiosincratico e in qualche modo spiazzante rispetto alla realtà quotidiana del web, che al contrario quando ci vede arrivare, ci abbraccia, ci capisce al volo.

Il narcisismo, se vogliamo, funziona proprio in questo modo: il narcisista non sa di essere adulato, ma si accorge quando non lo è. Così nel corso della nostra giornata passiamo più volte dal cyberspazio, fatto a nostra guisa grazie all’algoritmo, al mondo reale, in cui dobbiamo fare la coda, chiedere per favore, ecc… . Di conseguenza, non stupisce se da un lato la realtà quotidiana ci irrita, ci delude, ci deprime, mentre e dall’altro il narcisismo è condizione sempre più diffusa. 

In breve, credo si possa estendere il concetto di psicosi da algoritmo coniato da Mellano, per dire che gran parte della nostra attività sui social network, in quanto determinata (segretamente) da tale funzionamento, sia caratterizzata da una forma di dissociazione e di distacco (per quanto assai transitorio) dalla realtà. In qualche modo tutta la mole di pensieri, riflessioni, convinzioni, maturati, o suscitati, dal web, e in particolare dai social network, potrebbe andare sotto la definizione di “psicosi da algoritmo”. Cosa da tenere in gran conto, quando si utilizzano i social per farsi opinioni o prendere decisioni. 

Migranti interni: il dialetto come collante dell’unità familiare

L’argomento migrazioni interne è ormai stabilmente scomparso dal dibattito pubblico, come se non fosse più cosa di attualità. L’Italia è una patria, gli italiani sono a casa loro ovunque, quindi perché parlarne? Eppure non è sempre così, considerato l’alto livello di malessere che attraversa tutt’oggi chi deve spostarsi per necessità, che sia studio, lavoro, o altro. 

Tradizioni popolari, cibo, dialetto 

Aspetti fortemente indicativi del malessere di chi cambia residenza, sono dati dal rinnovato attaccamento alle tradizioni popolari della città d’origine, talvolta mai considerate in precedenza, e dall’idealizzazione della sua cultura gastronomica, con il contemporaneo rifiuto di quelli del luogo di arrivo. E poi, altro elemento oggi fortemente identitario, l’uso massivo del dialetto, o di espressioni gergali/dialettali, anche nel rapporto quotidiano con i nuovi conterranei. 

Lasciando per ora da parte l’attaccamento alle tradizioni locali e alla cultura gastronomica, vorrei soffermarmi un attimo sull’uso del dialetto. Nel corso del Novecento, gli spostamenti dalle campagne verso le città sono stati accompagnati da profondi vissuti di inferiorità. La produzione in fabbrica, la “città mostro” che tenta i giovani, il progresso, ecc…, sono stati vissuti con deferenza dai contadini, che si sentivano fuori posto anche a causa delle difficoltà comunicative. 

La gente di campagna si vergognava a parlare dialetto in città, sentiva di non essere come gli altri. La scuola dell’obbligo ha insegnato la lingua italiana, e questo ha consentito a persone provenienti dalla val Brembana di comunicare con chi era nato a Palermo, e così via. 

Oggi assistiamo al processo inverso, chi cambia città non prova a dimenticare il dialetto, ma anzi ne ricerca la forza espressiva, per colorare il suo discorso, e anche, inutile negarlo, per escludere chi non capisce.

Dialetto come legame familiare?

Si struttura un’idiosincrasia a doppia mandata. Da un lato il nuovo arrivato è spaesato, non conosce nessuno, deve ambientarsi. Dall’altro, però, alcune volte, fa di tutto per non integrarsi, per tenere gli altri a distanza. È così che nasce un sospetto. Quali vincoli profondi legano un persona che cambia vita alla sua città di origine? Prendiamo un torinese che sogni di imbarcarsi sulle navi: una volta partito per mare, che senso avrebbe tenersi strette tutte le sue tradizioni, dialetto compreso? 

Qui occorre ribadire la distinzione tra pubblico e privato. Nel pubblico, ad oggi, i dialetti sono praticamente scomparsi. Sono stato in vacanza a San Vito Lo Capo, in Sicilia, e a Ceriale, in Liguria. Ho potuto notare che in entrambe le realtà il prete dice messa in italiano (e non in dialetto), i menu dei ristoranti sono scritti in italiano, i pescatori al mercato del pesce usano l’italiano, per vendere le loro primizie. Così possiamo chiederci: se un abitante di San Vito Lo Capo o di Ceriale sente parlare il suo dialetto, a cosa pensa? Al suo parroco, alla sua amata pizzeria, al mercato del pesce al mattino? Io credo di no. Dico, invece, che a sentire il dialetto penserà, sostanzialmente, alla sua casa, alla sua famiglia, alla nonna che lo chiamava quando era bambino. 

Se nel Novecento il dialetto era segno di arretratezza culturale, oggi, che non abbiamo più aree arretrate, è segno di appartenenza. Escludere, o sorprendere, gli altri parlando in dialetto, non ha il senso di dichiarare il proprio analfabetismo, ma piuttosto il proprio attaccamento al contesto di partenza. 

O forse, più direttamente, alla famiglia d’origine.