Difendersi dallo “Smart mobbing”

Lo smart working ha creato una galassia di nuove problematiche nel mondo del lavoro, pur senza aver risolto quelle già esistenti, come invece qualcuno auspicava. Tra gli elementi costitutivi del lavoro ci sono i conflitti, e questi sono presenti anche nel lavoro a distanza, soltanto che, almeno entro certi termini, non si vedono. 

Conflitto o mobbing?

Nel mondo del lavoro non è raro sentirsi ostacolati, boicottati, talvolta addirittura accerchiati. Da un certo punto di vista è fisiologico, perché in ogni ufficio, capannone, reparto ecc… c’è qualcuno che vorrebbe prendere il posto di un altro. Se ammettiamo che le cose stiano così, dobbiamo concludere che avere la sensazione di trovarsi in un ambiente un po’ ostile, è tutto sommato inevitabile. 

Elementi caratteristici del cosiddetto mobbing sono, tra gli altri, la natura subdola delle avversità e delle angherie perpetrate, e le ricadute psicofisiche sulla vittima. Di conseguenza dobbiamo affermare che non tutte le forme di conflittualità nel mondo del lavoro assumono carattere di mobbing. Questo perché da un lato gran parte della conflittualità nel lavoro è palese, a volte direi plateale, ed essere ostacolati apertamente è più “leale” che subire un contrasto sordo e sotterraneo. E poi perché, dall’altro, le ricadute psicofisiche di un clima malsano in genere vengono condivise a livello di gruppo, e non intaccano unicamente un singolo.

Smart mobbing e potere

Lo smart mobbing definisce quei comportamenti di violenza, emarginazione o sabotaggio perpetrati nel lavoro a distanza, che vanno dai link errati per entrare nelle call ai disturbi selettivi nelle comunicazioni, dall’esclusione dalle chat alla perdita dei file, e altre cose di questo tipo. 

Il mobbing per così dire tradizionale viene distinto in verticale, operato dalla gerarchia organizzativa, e orizzontale, fatto da colleghi. 

Questa classificazione vale anche per lo smart mobbing, ma c’è una differenza molto importante. Se in genere le angherie in presenza non avvengono mai alla totale insaputa dei vertici, nello smart mobbing questo non è detto. Ossia nel lavoro a distanza le dinamiche tra colleghi possono prendere traiettorie molto particolari e sfuggire anche totalmente al controllo dei superiori. 

Arrivando a definire così diversi livelli di potere organizzativo. Può esserci un potere “ufficiale” detenuto dai vertici, e un potere “reale”, esercitato da uno o più individui tra pari grado. Una sorta di gestione parallela delle dinamiche organizzative, che può intaccare il gruppo (clima e non solo), ma può intaccare anche il compito. In questo caso potrebbe ritorcersi in maniera più diretta sul potere “ufficiale” e i suoi rappresentanti.  

Cos’è la leadership?

E’ più facile individuare il leader di un gruppo di lavoro che definire come abbia fatto a diventarlo e perché. In genere si hanno opinioni divergenti su quali caratteristiche debba avere un leader, su come debba relazionarsi con i suoi follower e su quale impatto debba avere sul compito del gruppo. La struttura organizzativa deve ridurre al minimo la divergenza tra queste opinioni se vuole che la leadership sia salda, e al contrario può ampliarla se vuole che il leader perda consenso.

Aspettative verso il leader

Molte delle aspettative che la base ha verso il leader sono destinate ad andare deluse.

In particolare quelle relative al sistemare le cose in un momento difficile. L’atteggiamento che abbiamo imparato da bambini, quando di fronte ad un ostacolo ci voltavamo a chiedere l’aiuto dell’adulto, è lo stesso che tendiamo a replicare quando chiediamo, o ci aspettiamo senza chiederlo, l’intervento del leader in una fase complicata della vita organizzativa. 

Se il leader ha più potere, o guadagna di più, o ha i favori della gerarchia, oppure soltanto perché è il capo indiscusso, perché non dovrebbe imporre la sua legge, trovando una soluzione? La richiesta però, per quanto legittima, non sarà necessariamente esaudita, per diverse ragioni. Anzitutto perché molti leader lo sono solo sulla carta, e non hanno vere competenze tecniche o strategiche (ossia sono leader nel gruppo e non nel compito.) E poi perché alcuni problemi non possono essere risolti da un singolo intervento di un individuo, ma richiedono un processo, anche lungo, non di un solo attore, ma di una equipe, di un reparto, quando non addirittura di un intero stabilimento. 

Cosa dovrebbe fare il leader? L’empowerment individuale

Posto quindi che le aspettative non saranno sempre rispettate, che cosa realmente deve fare il leader, in cosa effettivamente consiste la leadership? In un mondo sempre più frammentato e in evoluzione, il vero empowerment organizzativo è la continua trasformazione e ricombinazione delle competenze. 

L’apprendimento continuo non è soltanto una strategia di adattamento alla vita quotidiana, in cui ogni anno cambiano uomini politici, tasse, codici della strada ecc…. e pertanto è necessaria una certa elasticità per tenere a mente tutte le variazioni. L’apprendimento continuo è la cifra della vita organizzativa, e non mi riferisco soltanto all’assunzione di competenze informatiche. 

Mi riferisco ad informazioni di mercato, a competenze comunicative, a nuovi modi con cui sostenere il compito complessivo dell’Organizzazione. Chi di noi per invitare un’amica o un amico a cena userebbe oggi le stesse parole di dieci o venti anni fa? Allo stesso modo, come si fa oggi ad avere lo stesso atteggiamento riguardo al proprio lavoro che si aveva all’epoca? 

Pertanto la funzione più alta che possa avere un leader all’interno di un gruppo di lavoro è quella di promuovere, guidare, indurre la trasformazione continua dei suoi follower. Apprendimento come forma di empowerment individuale. Sviluppo organizzativo come implementazione continua dei singoli. Organizzazione come grande corpo vivo di individui, che non si adagiano sulla loro identità acquisita, ma rinegoziano, o meglio, ricostruiscono la loro stessa identità in maniera dinamica e continua. 

Se oggi c’è una direzione in cui cercare la risposta alla domanda: “cos’è la leadership?”, è senza dubbio quella da cui passa anche il leader della trasformazione.

Capi che odiano sottoposti (e sono corrisposti).

In ambito aziendale è facile incontrare superiori che per ragioni professionali, personali, o per entrambe, detestano alcuni loro collaboratori. In questi casi solitamente la cosa è reciproca, nessuno si cura di nasconderla, e le ricadute sull’azione organizzativa sono evidenti anche all’esterno. 

Comunicazione

Posto che al mondo non sia possibile andare d’accordo con tutti, stare simpatici a tutti, essere amati e apprezzati da tutti, una minima capacità di adattamento è pur sempre necessaria in ogni ambito di vita collettiva. Nel lavoro siamo costretti a frequentare persone diverse da noi, e gli attriti che inevitabilmente nascono non devono interferire né su quello che facciamo, né tantomeno sulla nostra salute. 

Quando un superiore è sopraffatto dall’astio che prova verso un suo collaboratore viene meno una componente fondamentale del vivere organizzativo, la comunicazione. Se devo comunicare qualcosa ad una persona cui non amo relazionarmi, la comunicazione potrebbe risultare farraginosa, parziale o, nel peggiore dei casi, volutamente inesatta. Immaginiamo se questo avvenisse in ambito militare, o in un’azienda di prodotti chimici, o di trasporti, ecc… le ricadute per la collettività potrebbero essere enormi. 

Per questo è fondamentale che tutto quello che riguarda la “comunicazione”, ossia i flussi di informazioni tra livelli dell’organizzazione, e all’interno dei livelli, tra i vari  colleghi, sia gestito nella maniera più asettica possibile, lasciando fuori ogni antipatia o idiosincrasia individuale. 

Che in un’azienda ci sia una buona comunicazione è un fatto organizzativo, è una logica aziendale. La comunicazione è come il clima: non è buona o cattiva a priori, ma è diretta conseguenza delle scelte fatte (o non fatte) in merito.  

Leadership 

Se la comunicazione è un fatto organizzativo, la leadership è un fatto individuale, e inficiare il processo a causa di attriti personali è una sentenza sulla capacità di leadership di un superiore. 

Come tutti gli altri attori organizzativi anche il leader avrà simpatie e antipatie, e sarà più o meno stimato, più o meno apprezzato. Ma il leader che va in simmetria con un follower, anche il più ostico (vedremo altrove le dinamiche relative ai sottoposti insubordinati, ossia quelli che si oppongono alle logiche volute dall’azienda), un leader che scatena la sua antipatia utilizzando il potere affidatogli dalla struttura gerarchica, è un leader senza leadership, ossia un capo. 

Il capo è temuto, ma non rispettato dai suoi sottoposti, oggetto di scherno nelle loro conversazioni private, un luogotenente che non ha in mano il suo gruppo di lavoro. 

Il concetto di capo apre profonde riflessioni sulla leadership, sulla sua funzione all’interno di una struttura, e soprattutto sulle aspettative che si hanno a riguardo. Guidare il consenso non è facile, ma sopprimere il dissenso non è auspicabile, per lo meno se non si vuole mettere un tetto al livello del prodotto finale. 

Giovani sotto stress. La società senza politica, religione e passione per l’arte.

Gli Italiani non votano, non vanno più in chiesa, non amano la cultura. Il disinteresse, direi quasi il tedio, è rotto soltanto da una blanda forma di ambientalismo, che se non altro denota ancora la voglia di credere in qualcosa. Dagli Hikikomori (ragazzi che si chiudono alle relazioni) ai tentati suicidi, dagli accessi al pronto soccorso psichiatrico ai TSO, le forme di disagio giovanile dilagano, e nessuno riesce a proporre contromisure efficaci.  

Gli studenti e la politica

Le generazioni passate erano quelle dell’impegno politico, dei cortei, della partecipazione popolare alle decisioni sui diritti civili, sulle guerre, sulla vita pubblica. Oggi però la politica ha deluso, non lo scopro certo io, la gente si è stufata. Così l’astensionismo aumenta ad ogni tornata elettorale, e i partiti politici accusano chi non vota, invece di capire che anche il non voto è un messaggio. Fare politica è una passione, una ragione di vita. C’è chi ha scritto dei libri, sulla politica, chi per la politica è stato perseguitato, e chi ci ha rimesso la vita. In gran parte lo slancio ideale verso la politica appartiene ai giovani, ha a che fare con il mondo dei giovani. I giovani sanno essere grandi idealisti, sanno passare le notti a discutere di ipotesi, di alternative, di proposte. Così la disaffezione nei confronti della politica, per quanto colpisca l’intera società, fa più danni tra i giovani (o quelli che un tempo venivano genericamente chiamati gli “studenti”), la parte della società che naturalmente dovrebbe occuparsene.  

La passione per la politica ha almeno due importanti funzioni psicologiche e identitarie: canalizza le energie e costruisce significati. Se un giovane, poniamo, si iscrive a un partito politico, ne segue la vita e le tendenze culturali, ne appoggia le proposte e ne promuove la diffusione, da un lato incanala delle energie, per esempio l’aggressività, in una cornice di proposte concrete, dall’altro individua dei significati nella propria vita, e nel proprio operato, che vanno al di là della mera quotidianità, e anzi si spingono a coinvolgere le generazioni future. Per questo in passato è stato molto importante che i giovani si aggregassero a discutere di politica, perché il confronto, anche aspro, tra idee, posizioni, ipotesi, è certamente più proficuo e meno deleterio di un confronto tra sassaiole e bottigliate, come talvolta avviene, ad esempio, nel caso del tifo sportivo.  

Per questo si vede come la crisi della politica, il fatto che i giovani non credano più nei partiti e non ne seguano più la vita con passione, li lasci privi di un grande meccanismo di gestione e rivalutazione di condotte e di speranze. Senza politica i giovani stanno peggio.  

L’azione cattolica 

Un altro ambito che storicamente ha costituito fonte di aggregazione e di partecipazione attiva, è stato quello religioso. Nei decenni scorsi erano migliaia i giovani che partecipavano a eventi, meeting, percorsi spirituali proposti da organizzazioni religiose. Pensiamo al mondo cattolico, per esempio, alle giornate della gioventù, ai ritiri spirituali, alle gite parrocchiali

La disaffezione degli Italiani nei confronti della chiesa è reso evidente da un dato segnalato dalla CEI, Conferenza Episcopale Italiana: nelle scuole sono sempre meno gli alunni che chiedono di prendere parte alle lezioni di religione. Questo è preoccupante per un motivo: il sacro non suscita interesse, non è usato per interpretare la vita e il mondo. Come la politica, anche la spiritualità incanala energie che potrebbero essere disperse malamente, e offre un’opportunità di leggere il mondo, ossia di ragionare su cosa si potrebbe fare per migliorare questa o quell’altra cosa. Insomma, come la politica, la spiritualità è strettamente connessa alla “speranza”. 

Se le cose stanno nel modo in cui dice la religione, cosa sono io? E cosa sono, su cosa si basano, i rapporti con gli altri? Che cosa può dare senso alla mia giornata, alle mie notti, alle mie vacanze? Il senso del sacro è fortemente fondativo dell’identità, una società in cui gli individui non cercano il sacro, non credono nelle religioni, non si fanno domande filosofico – esistenziali, è una società che va in pasto all’economia, e abbiamo già detto altrove del pericolo che questo può rappresentare. 

Arte: cultura o provocazione? 

Veniamo ad un altro grande motore delle idealità e delle identità, la cultura. John Lennon, secondo alcuni il più grande artista del Novecento, disse di avere chiuso l’esperienza Beatles quando capì che la sperimentazione era finita, e che la loro arte si era trasformata in un unico grande business. Secondo John Lennon il business non è arte. Era un idealista, non c’è dubbio, e infatti da solo muoveva le masse. Ecco, un idealista muove le masse. Con l’idealismo non si mangia, lo sappiamo, ma si riempie la testa di pensieri, di significati, di speranze. E questo è tantissimo. A quanto pare i movimenti artistici si spostano sempre più dalla comunicazione alla provocazione, e gli artisti piegano le loro capacità tecniche in senso commerciale: per vendere si deve parlare di loro. Per qualcuno è certamente un bene, alcune proposte artistiche sono interessanti, non c’è dubbio, ma la provocazione non può diventare la ragione di tutta la pratica artistica. O quantomeno, se lo diventa lo fa a scapito dell’altro significato dell’arte, quello che in termini molto generali potremmo definire “fare cultura”.

Lo scivolamento dell’arte verso la provocazione a tutti i costi, verso la massificazione, verso i grandi numeri, è il terzo aspetto che credo importate sottolineare. L’arte come la politica e la religione sono moti interiori che costruiscono il senso dell’essere, che aiutano chi se ne occupa a costruire significati. 

Se le persone hanno perso la voglia di sognare, di sperare, di immaginare un mondo diverso, per forza di cose restano invischiate nel pantano del qualunquismo, per forza di cose restano vittime delle seduzioni della rete. 

Il disagio giovanile è il risultato catastrofico, tra l’altro, di questo impoverimento passionale per la vita, per le sue attività sociali, per quel sogno del domani che ci culla ogni sera quando ci addormentiamo. 

Il disagio è strettamente correlato alla patologia mentale, che sovente non è altro che l’aumento a proporzioni insostenibili di quello stesso disagio. E il primo passo per contrastare il disagio è riempire l’essere di sogni, di speranze, di slanci vitali. 

Il secondo passo sarà, poi, quello di riempirlo di relazioni vitali, di affetti, di progetti condivisi. Ma come diceva Michael Ende, questa è tutta un’altra storia, e ne parleremo un’altra volta. 

Colleghi: flirt, amori e altre catastrofi organizzative.

Il clima è centrale nell’azione organizzativa, lo sappiamo bene. Un clima pesante o negativo fiacca il morale e rompe la collaborazione, mentre un clima sereno e positivo aumenta il benessere e di conseguenza i risultati del ciclo produttivo. 

Collusioni

Ogni gruppo di lavoro ha dei ‘conflitti di interessi’ nei confronti dei superiori o dell’esterno. In un ufficio, per esempio, i dipendenti avranno la tendenza a fare pause più lunghe o più frequenti di quanto concordato, oppure a usare lo smartphone anche quando non necessario, oppure ancora a limare il turno di lavoro spegnendo il pc qualche minuto prima della fine. Anche in una squadra di calcio professionistica ci sono conflitti di interessi, o in una banca centrale, o nel mondo del cinema e così via: i conflitti di interessi fanno parte delle interazioni lavorative tra persone. 

Così è importante che ci sia un buon clima tra colleghi, ma questa ‘positività’ deve avere dei limiti, per non sbilanciare l’azione complessiva in favore dei conflitti di interessi, ossia della ‘collusione’ tra colleghi. 

Una collusione abbastanza frequente nel mondo del lavoro è quella dei flirt o delle relazioni di coppia. In genere le persone vanno a lavorare per ragioni diverse da quelle relazionali o sessuali, ma questo tipo di ‘accidente’ esiste perciò è bene parlarne.

Non è detto che i flirt nascano dove il clima è migliore. A volte è vero il contrario: possono sorgere come reazione umanizzante in contesti difficili o particolarmente conflittuali. 

Contesti troppo facilitanti: gestire il conflitto 

In questo caso la fine di un flirt non potrà impattare molto sul clima perché è già altamente deteriorato, il problema riguarda quei contesti particolarmente predisponenti le relazioni informali.

Nel titolo parlavo di catastrofi organizzative. Ovviamente non volevo dire che quando sul lavoro nascono amori sia una catastrofe, tutt’altro, ma volevo mettere a fuoco un aspetto specifico: i contesti troppo facilitanti non sono abituati al conflitto

Alcuni ambienti sono costruiti sull’informale e sulla simmetria: vengono favoriti tutti i comportamenti atti a accorciare le distanze tra colleghi. In questi contesti è facile trovare persone che si frequentano dopo il lavoro, o che parlano tra loro di cose private. Il vero problema di questo modo di operare è il conflitto. 

Tutti sappiamo che raramente le relazioni affettive terminano senza screzi, per questo motivo un flirt in un contesto facilitante può diventare una piccola catastrofe organizzativa. 

Se una delle due parti patisce in maniera abnorme la rottura, può coinvolgere i colleghi (come da prassi dei contesti facilitanti) in polemiche trasversali, trasformando il clima in una palude a cui, per l’appunto, non si è abituati. 

Un buon clima è centrale nell’azione organizzativa, ma per evitare che nascano troppe collusioni un certo livello di sano e propositivo conflitto può essere pur sempre positivo. 

Lo smartphone in classe

Ricordo quando nelle scuole si diffusero i video game portatili, quando arrivarono le calcolatrici professionali e più tardi le agendine elettroniche. Ogni volta grandi levate di scudi da parte degli insegnanti: dove andremo a finire, la didattica non sarà più la stessa, i ragazzi non seguiranno con attenzione. Le innovazioni tecnologiche spaventano, non si conoscono bene, non si sa quali contromisure adottare, così è più facile demonizzare, che provare ad armonizzare. 

Internet: quale verità?

Come ho già riportato altre volte, la specificità di Internet (e del suo tempo) rispetto al tempo dei media tradizionali è la frammentazione della verità. Prima di Internet la verità era ‘franosa’, ‘debole’, ‘inafferrabile’, ma non frammentata. Su un giornale di sinistra, o una tv di sinistra, avevi una certa lettura dei fatti, su testate capitaliste o cattoliche un’altra: l’ordine era debole, ma comunque garantito. 

Su Internet invece ognuno è opinionista: giornalisti, studenti di filosofia, storici ecc… . Ne discende che l’interpretazione di un fatto non sia legata alla linea editoriale che la contiene, ma all’individuo che la esprime, che tra l’altro la può variare da un giorno all’altro, in base alle sue convenienze personali. 

Di conseguenza quella che era una verità ‘debole’ è diventata una verità frammentata, atomizzata, polverizzata. Sotto un post social ha pari dignità e visibilità ogni tipo di commento: favorevole, contrario, neutro. 

Frammentazione psichica

Ogni buon filosofo sa che la verità è multiforme, per questo Internet non può essere criticato se ospita punti di vista diversi. Il problema arriva quando la frammentazione non riguarda la verità, ma il sé che la interpreta. La frammentazione della vita psichica, specie quando è inconsapevole, è dannosa e crea sofferenze. 

Lo smartphone in classe, o comunque in mano ai ragazzi, può creare questo effetto paradosso, ed è questo che va arginato. Il preadolescente e l’adolescente sono ancora poco esperti di pensiero ipotetico, ossia di quel pensiero astratto che arriva con la maturazione.

L’esposizione incontrollata a informazioni che frammentano l’opinione sulla verità, può aggredire un sé in costruzione, se non ben supervisionato da parte degli adulti. 

Gli aggeggi informatici (pensiamo anche ad orologi smart o occhiali) entrano ed entreranno sempre più nelle scuole, quindi più che ostacolarli converrà capire da subito come gestirne le controindicazioni. Se non è possibile fermare l’esposizione incontrollata, bisognerà quantomeno tenerne conto nelle diverse fasi scolastiche, e apportare all’azione formativa specifici strumenti pensati ad hoc

Riforma scolastica: la complessità

Ecco che tornano vecchi fantasmi. Sostenere che servano nuovi strumenti potrebbe significare che gli insegnanti non siano abbastanza adeguati, ma è una semplificazione della realtà. Fornire ai ragazzi una formazione adeguata ai tempi non può coincidere con lo scaricare il peso di questa formazione su famiglie o corpo docente. 

Per entrare in classe con uno smartphone, e non uscirne fagocitati, è necessario che la scuola tenga conto della nuova complessità delle cose, e soprattutto della complessità della vita psichica di uno studente. Complessità che è ben superiore a quella di alcuni anni fa, in cui i ragazzi erano inquietati ‘soltanto’ dall’adolescenza. 

Aggressività sul lavoro: insoddisfazione e burnout.

In ambito lavorativo un livello minimo di conflittualità tra colleghi è utile, se non per certi versi persino auspicabile. 

Anzitutto perché, come insegna la filosofia, il confronto, la discussione, il ‘conflitto’ sono aspetti vitali del cooperare, rendono feconda e viva l’azione organizzativa che altrimenti potrebbe appiattirsi, e poi perché è meglio avere discussioni a cielo aperto piuttosto che mugugni e incomprensioni sotto traccia. 

Il conflitto e l’aggressività però devono restare entro una soglia di normale tollerabilità, perché una cosa è la dialettica appassionata tra professionisti, altra cosa è la difesa spartana di posizioni (e privilegi) attuata con arroganza e villania, cosa che accresce e non diminuisce la conflittualità e deteriora il clima. 

Insoddisfazione 

Posto che  l’arroganza può essere imputabile a perfidia o maleducazione, e per questo la psicologia del lavoro non può fare nulla, altre volte alla base di atteggiamenti poco collaborativi può esserci l’insoddisfazione o il burnout

Nel corso degli studi ci imbattiamo in argomenti che ci intrigano più di altri, e comprensibilmente culliamo il sogno di occuparcene durante la carriera lavorativa. Questo tuttavia è un sogno che solamente in pochi riescono a realizzare, e per lo più in maniera parziale. Ossia in tutti i lavori ci si trova a dover incanalare le competenze e gli interessi professionali nella direzione di quanto previsto dalla mansione che si ricopre. 

Così il preparatore dei portieri della nazionale di calcio, poniamo, sognava di allenare le skills dei suoi atleti, cosa che avrebbe fatto se fosse stato in una squadra di club, e invece deve occuparsi di altri aspetti più pragmatici. Allo stesso modo l’ingegnere al touch screen della Nasa ha fatto la tesi su un certo argomento e invece gli viene chiesto di occuparsi di altro. 

La distanza tra il lavoro che abbiamo sognato da studenti, o della modalità con cui vorremmo effettuarlo, e quello che ci viene richiesto dai committenti, scava in vari modi l’insoddisfazione lavorativa. Questa insoddisfazione può emergere sotto forma di alta conflittualità o peggio aggressività, ed è evidente che se in un team di lavoro qualcuno è arrogante o svalutante perché fortemente insoddisfatto le prospettive del team di lavoro non sono rosee.

Burnout

La conflittualità nelle organizzazioni può essere scatenata anche dal burnout. Se l’insoddisfazione riguarda la mansione, un certo tipo di burnout può riguardare il ‘ritorno’ che sentiamo di avere relativamente alle energie investite. Quando l’investimento non viene ripagato da un adeguato riscontro di risultati, può portare ad una forma di alienazione. In questo senso il burnout non riguarda soltanto le professioni di aiuto, in cui tipicamente si può avere l’impressione che gli sforzi non siano ripagati adeguatamente, ma per estensione tutti i casi di adattamento dell’uomo al suo contesto lavorativo.

L’aumento dell’irritabilità del soggetto in burnout può sfociare in rapporti lavorativi stereotipati e freddi, e in alcuni casi in atteggiamenti particolarmente arroganti o aggressivi. Se l’aggressività dovuta all’insoddisfazione riguarda la mansione, pertanto, l’aggressività dovuta al burnout riguarda il soggetto, il suo rapporto con il lavoro. La prima può essere superata soltanto dall’individuo, la seconda, se vogliamo, dal team nel suo insieme. 

8 marzo e femminismo. Il discorso mai concluso sulla violenza di genere.

Una donna su tre

Una donna su tre afferma di essere stata vittima di violenza nel corso della vita, ossia circa il 33 per cento del totale. Tra queste una su sette afferma che la violenza sia stata di matrice sessuale

Se a questo dato aggiungiamo che gli uomini in questione non sono gli stessi due o tre che vanno in giro ad aggredire e violentare, appare chiaro che il tema ‘violenza nella coppia’, o se preferite ‘violenza di genere’, coinvolge un numero spaventosamente alto di individui. 

Parlare di violenza di genere in ambito femminismo e parità di diritti, pertanto, è difficile e pericoloso. Da un lato si rischia di mettere fuorilegge milioni di uomini, accusandoli di avere fatto violenze che forse neppure hanno compreso. Dall’altro significa mettere e al bando milioni di donne, accusandole di avere caratteri deboli e di ripetere gli stessi vecchi errori nelle relazioni affettive. 

Le cose tuttavia sono più complesse di così, e infatti nel femminismo contemporaneo il discorso sulla violenza di genere, per quanto affrontato migliaia di volte, non è mai stato portato ad una conclusione.

Femminicidio e diritto di proprietà

Lo snodo cruciale che dovrebbe fare convergere gli sforzi del neo femminismo contemporaneo (ma vi prego troviamogli un altro nome) è quello del femminicidio

In genere si guarda al femminicidio (circa 300 casi all’anno in Italia) come a un evento raro e lontano, che riguarda persone strane, violente, distanti dal nostro modo di vivere. Qui sta il punto fondamentale del femminismo odierno, nel sottovalutare la portata culturale del femminicidio. 

Il femminicida e la sua vittima non sono necessariamente persone strane e avulse dal contesto sociale, anzi, tutt’altro. Il presupposto culturale di base, non ideologico si badi bene, ma socio culturale, del femminicidio è il diritto di proprietà. 

Il mio smartphone è un oggetto soltanto mio, come la mia automobile, la mia chitarra, o la custodia dei miei occhiali. Se questi oggetti sono miei ne posso disporre in maniera totale, e posso stabilire se tenerli, regalarli ad altri o gettarli nel cestino. Il femminicidio è l’estensione del diritto di proprietà ad una persona. 

Il femminicidio è il banco di prova del femminismo contemporaneo: si deve comprendere che si tratta della punta di un iceberg, un iceberg che rappresenta il disconoscimento dell’altro come individuo autonomo e indipendente. 

Il punto non è la violenza: tanta o poca che sia non fa molta differenza. Il punto vero è il diritto di proprietà. Se credo che una persona mi appartenga, che non sia degna di fare un passo senza la mia approvazione, sto già facendo una violenza di proporzioni inaudite. 

Il discorso sulla ‘violenza nella coppia’, o ‘violenza di genere’ se preferite, non è mai stato portato a conclusione perché non si è mai concentrato sul concetto di proprietà. Ecco su cosa devono insistere le azioni educative, i convegni, le tavole rotonde, del femminismo contemporaneo. Ammesso che se ne facciano ancora. 

Adolescenza, web e alimentazione: i ragazzi sono ben informati?

Una delle modifiche irreversibili che il web ha portato alla nostra vita riguarda il rapporto con il cibo. L’aumento dei contenuti social a sfondo alimentare non può non avere un impatto sulla percezione che abbiamo della nutrizione e di tutto quello che le ruota intorno. In adolescenza, inoltre, ogni micro evento va considerato sempre come elevato a potenza. Questo a causa della difficoltà degli adolescenti di adeguarsi al corpo che cambia, ma anche alla competizione tra pari, che a seconda dei casi può essere altamente distruttiva. 

Ho già detto altrove del food porn, ossia della moda esibizionista di postare i piatti che abbiamo cucinato o che stiamo per mangiare, vorrei ora soffermarmi sull’informazione e sulla disinformazione. 

Fake news

La capacità di leggere i contenuti impliciti di un testo, di un video o di un evento storico è centrale nella scuola come nella vita di tutti i giorni. La libertà di pensiero di cui godiamo si basa sulla possibilità di dare interpretazioni diverse, anche contrastanti, di uno stesso fenomeno. Tuttavia fare errori di valutazione molto grandi può essere controproducente, anche nel lungo periodo, e decifrare correttamente i dati che abbiamo davanti può discriminare tra conseguire un successo o un fallimento. 

Sui social network è facile incappare in sedicenti sessuologi, medici, esperti di storia, di lingue straniere ecc… e naturalmente anche di nutrizionisti. Dico di sedicenti non per sfiducia, ma perché dietro ai nomi ‘Emily 99 studentessa di medicina’, ‘Peppe Trapp ginecologo’, ‘Maneskina osteopata e erborista’ è difficile scorgere professionisti in grado di aiutare chi ha problemi di salute. 

Così il problema si sposta sull’utente della rete, sulla sua capacità di distinguere e scegliere tra un buon consiglio e un parere scientifico. 

Disturbi e disturbatori alimentari  

Il discorso alimentare in adolescenza può aprire faglie di vulnerabilità. La competizione nel gruppo classe, ma peggio ancora nello spogliatoio della palestra, può scatenare ossessioni profonde legate alla qualità o alla quantità del cibo assunto. Se aggiungiamo che i canali informativi privilegiati dagli adolescenti sono giocoforza quelli collegati al web, capiamo quali difficoltà abbiano educatori e famiglie nel modulare il flusso e la qualità delle informazioni. 

Le dinamiche di gruppo possono indurre i ragazzi a estrapolare frasi o frammenti di video dai social network e farne regole di vita. Il rinforzo ad un messaggio non è dato da chi lo emette, ma dal valore che viene assegnato dai membri del gruppo di riferimento. 

Se la ragazza più in vista della palestra riposta un video in cui, poniamo, si afferma che lo zucchero fa male, e infatti lei non lo assume, l’effetto di emulazione può essere dirompente. Il disturbatore alimentare, che emette sentenze legate alla sua esperienza, e che lui sente (legittimamente) efficaci, stimola, così, l’esordio di un vero e proprio disturbo alimentare. Non sarà però lui a pagarne il prezzo, ma i ragazzi e le loro famiglie. 

Cosa non ha funzionato del femminismo? La risposta sbagliata ad una giusta domanda.

Oggi nel mondo la politica è un fatto sostanzialmente maschile, la religione è un fatto sostanzialmente maschile, i grandi gruppi economici sono gestiti sostanzialmente al maschile. Dovremmo concludere, senza troppa retorica, che il femminismo ha fallito? 

Da Simone de Beauvoir alle Pussy Riot

Il punto di partenza di ogni filosofia femminista è dimostrare che i generi non hanno un ordine di importanza, e non è dal genere che discende il peso che uno acquisisce nella società. 

Tuttavia i femminismi si declinano solitamente in azioni che paradossalmente negano la parità e sostengono la superiorità femminile. La conseguenza è un irrigidimento delle posizioni, ossia un aumento della conflittualità anziché una sua diminuzione. 

Il muro contro muro conduce la parte forte ad arroccarsi sui privilegi consolidati per spostare il focus dello scontro su altri livelli, diversi da quelli in questione. Trovo eccezionali a tale proposito le parole di Lorenza Foschini, grande giornalista Rai.  Dopo essere giunte, insieme ad altre grandi firme femminili, a condurre i TG della sera, alla metà degli anni Novanta si accorsero che i direttori di testata, di rete e i direttori generali erano tutti uomini. ‘A quel punto’ disse la Foschini ‘abbiamo capito di essere state giocate: il potere non stava nel leggere il Tg, come per anni ci avevano fatto capire.’

Così ai tempi di Chiara Ferragni, come a quelli di Simone de Beauvoir, ai grandi propositi, ai grandi discorsi, fanno seguito proposte spartane, urlate, non ragionate. Valga per tutte quella delle famose incursioni delle ‘Pussy Riot’, le ragazze che nude aggrediscono personaggi famosi. Le reazioni che scatenano queste proteste sono più estreme e rigide delle intenzioni che le hanno originate.

Femminismo da piazza e da salotto.

La contrapposizione muro contro muro cementa l’identità, ma è una forzatura nazional populista dei presupposti del femminismo. Non c’è una sola rima in Christine de Pizan, una sola pagina di Simone de Beauvoir, un solo accenno nell’intera opera di Julia Kristeva che ammicchi allo scontro, alla contrapposizione, all’invettiva di piazza. 

Dividere i femminismi in quelli da piazza e quelli da salotto è un modo per fare del male al femminismo, e per rafforzare, in sostanza, le posizioni dello status quo.

L’errore strategico del femminismo, perciò, è stato quello di volgarizzare lo scontro, di esacerbare le distanze, di chiedere riconoscimento di diritti sotto minaccia (sovente di stampo sessuale) dimenticando che nel rapporto tra generi uno sa ancora fare molto male, come  mostrano i dati sul femminicidio.  

E’ ancora tempo di femminismo?

Oggi nel mondo, come dicevo, la politica, le religioni, il potere economico sono gestiti sostanzialmente al maschile. La nostra cultura, se vuole davvero essere la più liberale, deve trovare il modo di garantire la pari dignità a tutti i cittadini, come peraltro va affermando nei suoi principi generali. 

Ritengo che il movimento femminista debba anzitutto liberarsi dai connotati ‘sessisti’, perché la libertà della donna non può essere un obiettivo delle donne, ma di tutta la società. Ripulire dal dibattito gli elementi di scontro significa eliminare per esempio termini come ‘maschilismo’, ‘patriarcato’, o lo stesso termine ‘femminismo’. Favorire l’incontro significa sfavorire lo scontro. 

Ancora una volta il ragionamento converge su Julia Kristeva, la sua opera, il suo sforzo di unire il buono che c’è nelle religioni, nelle filosofie, nella psicoanalisi: il ritorno all’umano. Nello scontro di società che sotto traccia serpeggia nel nostro tempo potrebbe essere proprio la questione del femminile a spostare l’ago della bilancia della storia. Qualcuno si sente pronto?