Hermione Granger: la Natasha Rostov del nostro tempo

Raramente un personaggio letterario entra nelle fantasie del pubblico così in profondità, da rappresentare archetipi di cultura collettiva. Uno di questi è senza dubbio Hermione Granger, la protagonista femminile della saga di Harry Potter, che il lettore certamente conoscerà, senza il bisogno di altre presentazioni.

Dico raramente perché la letteratura è piena di eroi, anche molto ben riusciti, ma che in genere non escono dai libri, per entrare nel nostro inconscio collettivo. È questo il caso, invece, di Rossella O’Hara di Via col vento, per esempio, che nella battuta finale del film incarna tutta la speranza che riponiamo nel domani. O di Perpetua dei Promessi sposi, talmente caratteristica da dare il nome a tutte le donne a servizio dai sacerdoti. Oppure di Natasha Rostov, che oltre ad essere la (co)protagonista di Guerra e Pace, riesce a rappresentare il prototipo della donna ottocentesca (e non solo). E poi c’è lei, Hermione Granger, non a caso l’unico personaggio di fantasia che mi viene da associare a questi esempi immortali. 

Abbiamo già detto di come alcuni personaggi della letteratura (del cinema, della tv, ecc…) abbiano un potere speciale: esistono pur senza essere mai esistiti. E questo perché hanno vissuto dentro di noi. Alcune persone depresse sono disperate, morte dentro, proprio perché sentono di non esistere nella mente di nessuno. È vivere nella mente di qualcuno, dunque, che discrimina tra essere o non essere. E alcuni eroi della fantasia sono molto più di individui reali, proprio perché vivi nella mente del pubblico. 

Hermione Granger arriva nella vita di Harry Potter, e del suo amico Ron Weasley, in maniera rocambolesca. Ha l’antipatia tipica della ragazzina del primo banco, la più brava, quella che mai confesseresti di amare. E infatti, forse, l’amiamo da subito, anche da quando ci sta ancora visceralmente antipatica. È così perché sentiamo che ci assomiglia, ha la stessa foga di quando siamo in difficoltà. E quando dobbiamo mostrare di sapere, dobbiamo dimostrare il nostro valore. E questo per il femminile, nel mondo della scuola, ma non solo, è tutt’altro che affare da poco. Draco Malfoy, invece, (gli dedicheremo un altro spazio) non deve dimostrare niente a nessuno, è pieno di sé, e per questo ne abbiamo una repulsione strutturata. 

Hermione ci cattura. La sorte (ma sarebbe comunque questione di tempo) consente di mostrare ai tre i veri volti reciproci, l’amicizia tra loro matura, e la ragazza si mostra per qualcosa di diverso. È l’intelligenza a farla saggia, non la paura. È la sua natura Babbana a farla rispettosa della legge, non il falso moralismo. Ecco che qui Hermione esce dalla finzione letteraria, per entrare nella storia di ciascuno di noi, forse ancora di più del protagonista, la cui vita pre Hogwarts ha un che di paradossale. 

In Hermione non c’è niente di paradossale, c’è soltanto la tenacia di tutti quelli che non si rivedono in Malfoy. E infatti (già segretamente innamorati), segretamente cominciamo a fare il tifo per lei, a sperare in lei, quando c’è da salvare il nostro eroe, a sognare il suo ritorno quando si caccia nei guai. 

Perché in fondo lo sappiamo: nel nostro mondo la magia non c’è, e quando non è possibile risolvere le cose con un colpo di bacchetta magica, se almeno avessimo lei, accanto, tutto ci apparirebbe enormemente più facile. E non è poco, per un’eroina fantastica. Hermione Granger è una novella Natasha Rostov, potremmo dire. Nella certezza che nessuno se ne prenderà a male.  

La coppia separata dalla morte

Nel film Ghost del 1990, Demi Moore e Patrick Swayze interpretano una coppia spezzata da una morte accidentale. I due ragazzi, tuttavia, rifiutano la nuova condizione, e attraverso una serie di espedienti trovano il modo di tenere in vita la loro relazione. Al netto della finzione cinematografica, questa condizione non è così rara. Sono tanti, infatti, gli individui che negano fortemente la dipartita del congiunto, e in maniera magica ne perpetuano il ricordo, continuando a considerarlo parte dalla loro vita quotidiana. 

Negazione

La tendenza a considerare il compagno deceduto come ancora vivo, presente, e protagonista nella vita di chi resta, è una lama a doppio taglio tutt’altro che facile da manovrare. Da un certo punto di vista, è assolutamente comprensibile portare avanti dei progetti, sapendo che sono stati sognati e condivisi con l’altra persona. E una volta raggiunti, è naturale che il pensiero corra anzitutto a chi ha visto nascere quel cantiere, che mai vedrà concludere. 

Alcune persone, però, conservano molte abitudini della coppia, persino un’identità a due, come se l’altro non fosse mai andato. Qualcuno lascia vuoto il posto a tavola,  qualcuno mantiene gli stessi orari, c’è persino chi continua “a fare come se” l’altro ci fosse ancora. Il pensiero magico, in questi casi, è dietro l’angolo: alcuni arrivano a considerare telefonate, incontri casuali per la strada, piccoli/grandi eventi quotidiani come indotti direttamente dalla presenza dell’altro. 

La negazione è il primo ostacolo che riguarda la scomparsa di un compagno. Quando la coppia separata dalla morte continua a esistere nella mente di chi resta, che insiste a sentirsene parte, molto sovente si tratta del preludio ad una caduta depressiva più importante. La negazione, infatti, non può protrarsi a lungo, proprio perché la sua perpetrazione potrebbe portare a distorsioni importanti del piano di realtà. 

Per capirci, potremmo citare un altro film celebre, Psycho di Alfred Hitchcock. In quel caso la negazione della morte (della madre, nella fattispecie) raggiunge un livello di rigidità tale da sfociare nel grave disturbo mentale. 

La sorte della coppia

È giusto mantenere in vita una coppia sciolta da una causa esterna? In tutti i casi di separazione, la prima cosa da metabolizzare è che l’altra persona non c’è più. Quando   una coppia finisce, sovente c’è un periodo di strenui tentativi, anche disperati, di ricucire, di recuperare, di mostrarsi diversi. È una cosa dannosissima per la salute di entrambi: di chi lascia, perché in cuor suo ha già metabolizzato, e sente solo come invadente tale atteggiamento, e di chi viene lasciato, che cerca di andare contro la propria natura. 

Prima si comprende che la relazione tra due persone è diventata impossibile, e meglio è per entrambi. Al di là delle credenze religiose, che rispetto, ma che non fanno parte di questa trattazione, la convinzione che la relazione con una persona deceduta possa continuare, è, per quanto commuovente nelle ambizioni, fortemente deleteria nelle conseguenze. 

La più importare delle quali è che chi resta non supera il vuoto della perdita. Anzi, nel negare che la perdita sia mai avvenuta, ritarda la presa di coscienza del dono che l’altro ci ha fatto, regalandoci il suo tempo terreno. Come tutte le cose passate, che non solo rivivono nel ricordo, ma si strutturano dentro di noi diventando parte della nostra identità profonda, anche le relazioni, persino le più negative, mettono dei mattoncini nella nostra storia. 

“L’amore che hai dentro, portalo con te” con queste parole Patrick Swayze saluta Demi Moore, nel film da cui siamo partiti. Molto probabilmente è qui la svolta per sopravvivere alla morte di un partner: si tratta, infatti, delle parole che non sentiremo mai, ma le uniche che ci autorizzerebbero ad andare avanti da soli. 

La gelosia patologica

Avete mai visto un musicista geloso del suo strumento? E un botanico delle sue piante, o uno scrittore difendere le bozze del suo prossimo libro? Entro certi limiti, come tutte le manifestazioni dell’animo umano, anche la gelosia è un fatto fisiologico. Anzi persino positivo, perché ci parla di affezione, attaccamento, amore. 

Il tango della gelosia

Proprio questo attaccamento, però, può essere una lama a doppio taglio. Il nostro naturale istinto (ben educato dal modello sociale del capitalismo), ci porta a controllare le manovre che gli altri compiono intorno alle nostre proprietà. È un fatto istintivo: temiamo che ciò che è nostro possa finire in mano altrui. D’altro canto, sentiamo anche un piacere intimo quando agli altri piace qualcosa che ci appartiene, anche se talvolta non vorremmo ammetterlo. Il complimento per la nostra bella auto, per quanto vecchia, fa certamente piacere, così come l’apprezzamento per una foto scattata anni fa, un canzone scritta in gioventù, o un progetto realizzato contro il parere di molti. 

Lo stesso vale, inevitabilmente, per le relazioni amicali o affettive, anche se, evidentemente, e qui dovremmo aprire una parentesi troppo grande da poter essere chiusa, una persona non ci appartiene come uno strumento musicale, un’automobile, o un progetto artistico. Quello che ci appartiene di una persona è la relazione che abbiamo con lei. È di quella che siamo gelosi, perché ci entra in profondità, e determina, in qualche modo, ciò che noi siamo ai suoi occhi. 

Mio fratello, mia moglie, la mia psicoanalista: in questi casi il possessivo non si riferisce alla persona, ma al legame, ed è un legame di cui siamo gelosi, perché rappresenta qualcosa di piuttosto esclusivo nella nostra vita. Di fratelli, al massimo se ne possono avere alcuni, di mogli si potrebbe arrivare a tre o quattro, di psicoanalisti, se tutto va bene, nella vita ne avremo uno soltanto. 

Relazione e attaccamento

Ecco quindi che cominciamo a legare la gelosia con la relazione, ossia con ciò che noi siamo, o rappresentiamo, per l’altra persona. Il musicista geloso del suo strumento, per tornare all’esempio iniziale, ad un certo punto sposterà la gelosia sulla competenza, ossia su quello che succede tra lui e lo strumento (che forse non possiamo chiamare relazione.) E penserà che, per quanto altri possano avvicinarsi a suo oggetto, quelle determinate note, con quella certa intensità, potrà produrle soltanto lui. 

Le relazioni affettive, invece, sono determinate dal modello di attaccamento a cui facciamo riferimento. Se siamo stati abituati a sentire fedeltà da parte degli altri significativi, ci aspetteremmo, per natura, fedeltà. Se abbiamo una storia di abbandoni, perdite, di sofferenze legate a figure che ci hanno lasciati per altri, saremmo orientati alla diffidenza, alla paura di essere nuovamente abbandonati, e di conseguenza alla gelosia morbosa, patologica. 

La gelosia, come altre manifestazioni dell’animo umano, è un fatto fisiologico. Ma la gelosia patologica è spesso la traccia di qualcosa di arcaico, di un conto in sospeso con il destino, di una fiducia mal riposta, e che ci ha feriti. Il più delle volte non riguarda la persona verso cui la proviamo, ma qualcosa e qualcuno che viene da più lontano. Anche per questo andrebbe presa seriamente, perché rischia di rovinare tutte le belle relazioni cha abbiamo costruito. E portandoci a confermare, di conseguenza, le diffidenze di cui siamo vittime. 

Calcio: la svolta narcisistica e la fine del risultato

Il calcio è stato a lungo lo sport più seguito dagli italiani, e per questo osservarne le dinamiche ha sempre aiutato a cogliere alcuni piccoli/grandi cambiamenti nella cultura collettiva del nostro Paese. 

Tiki-Taka: il massaggio tantrico del calcio

Alcuni dati sugli ascolti delle partite dicono che la popolarità di questo sport è in calo rispetto ai decenni scorsi, ma si possono ancora fare delle considerazioni significative, soprattutto riguardo all’atteggiamento mentale con cui il pubblico guarda gli eventi. Abbiamo già detto di come la filosofia Tiki-Taka possa sfociare, quando estremizzata, in un’aggressività passiva, una specie di ostruzionismo rovesciato, dal sapore tantrico, in cui l’obiettivo non sia tanto quello di andare verso la porta, ma di irretire, se non umiliare, l’avversario. 

Un altro aspetto particolarmente inquietante è la svolta narcisistica del calcio contemporaneo. Il narcisismo sta diventando un marchio tipico del nostro tempo, soprattutto se associato all’individualismo, che il modello economico di riferimento ha fatto prevalere, rispetto a tutte le forme di economia dal prefisso “sociale”. 

Il narcisismo, che, come detto, di per sé non è necessariamente patologico, ha, però, quasi sempre a che fare con l’autostima e l’immagine di sé. Tanto più devo pavoneggiarmi, sminuire l’altro, evitarne l’incontro empatico, quanto più, evidentemente, ho paura di scomparire al suo cospetto, di mostrare la mia fragilità, di scoprirmi inferiore.

E il nostro presente, fatto di social network, di like, di tag nei post degli altri, è particolarmente orientato a forme di riconoscimento legate all’apparenza, più che alla sostanza. 

Il risultato non conta

Ora, nel calcio contemporaneo è in atto una svolta filosofico/antropologica. La vittoria, il risultato, il conteggio dei gol fatti, sta perdendo di importanza, a scapito degli schemi, della prestazione, della qualità del gioco espresso. Non è importante vincere, ma essere apprezzati, applauditi, diciamo pure: apparire belli. Come definire questo atteggiamento, se non come narcisismo

La svolta narcisistica è impropria, nello sport (proprio come lo è per un individuo), in quanto le regole, nella pratica, non sono certo cambiate. La vittoria nei tornei dei dilettanti e dei professionisti, nelle gare nazionali e internazionali, nelle partite amichevoli o ufficiali, viene assegnata sulla base dei gol fatti, non sulla base, per esempio, del tempo di possesso palla, del numero di passaggi, o di quello dei corner ottenuti. Quindi mistificare, e di fatto non riconoscere, questa regola, ponendovisi al di fuori, non è una strategia adattiva, ma regressiva e disadattata. 

La pretesa narcisistica di essere apprezzati per il solo merito della propria presenza, senza dover fare concretamente qualcosa che valga la valutazione, o la stima, altrui, è piuttosto pericolosa. E la pretesa di essere apprezzati per quello che decidiamo noi, e non per quello che un certo contesto ci richiede, lo è ancora di più. 

Credo che se da un lato dobbiamo stare attenti alla svolta narcisistica nel calcio, e nello sport in genere, come pericolosa deriva di autarchia psichica, dall’altro dobbiamo prestare attenzione al suo più pericoloso, e inquietante, sottinteso: il narcisismo dilaga, e ci ha ormai preso la mano.

La notte della verità e il senso della psicoanalisi.

Quale verità?

La fine della verità e l’esplosione del fake hanno condotto, come vediamo ogni giorno, al crollo della fiducia in qualunque tipo di comunicazione. La crisi del significato si accompagna, potremmo dire, alla crisi di credibilità del significante, ossia alla forma, o alla struttura, con cui un messaggio viene inviato. 

Nella difficoltà di interpretare il significato di quello che ci accade, di attribuire un senso al nostro presente, dilaga, di conseguenza, qualunque forma di lettura, dalla più fantasiosa, alla più distorta. Come nella psicopatologia, che in molti casi altro non è che il tentativo di trovare un senso logico a qualcosa di incomprensibile. 

Così assistiamo alla crisi endemica di ogni istituzione o sovrastruttura deputata alla lettura e all’interpretazione del senso e del significato: compreso il senso profondo dell’essere e del rapporto tra l’uomo e la sua stessa vita, il senso del rapporto tra l’uomo e i suoi simili, anche quelli vissuti in passato, o che vivranno in futuro, il senso del rapporto tra l’uomo e la natura, e, ultimo, anche se, ovviamente, non per ultimo, il senso del sacro, del religioso e del divino.

Cuoricini

Fuor di metafora. La politica non è più un modo per decriptare il presente e intuire una traiettoria in cui situarsi, e infatti la gente ha smesso di votare. L’arte, nelle sue varie forme, non è più creativa (nonostante le esponenziali opportunità offerte da 

stampanti 3D, IA, e autotune), e stentiamo a cogliere in essa quel brivido di infinito che devono aver sentito i primi osservatori della Pietà di Michelangelo. Le chiese sono vuote, al punto che ci chiediamo se vi sia ancora una domanda di sacro e di infinito nell’uomo contemporaneo, o ci sia soltanto la più vuota rincorsa al “cuoricino”, ultima misura di valore individuale. 

In questo scialbo inizio della fine (dove altro potremmo andare, se non verso l’inverno nucleare?), pare resistere un ultimo baluardo: quella serie di accidentate vicende che avvengono dietro la porta del dottor S. , e che prendono il nome, assai generalizzato, di psicoanalisi

Psicoanalisi: una verità rivoluzionaria 

La costellazione psicoanalitica di trattamenti si fonda su un’innegabile novità: nella relazione terapeutica viene presa in atto una verità sul paziente che è totalmente alternativa rispetto a quella a cui è abituato nella vita quotidiana, una verità talmente rivoluzionaria, da cambiare (radicalmente) il modo in cui egli sente di essere percepito. 

Nella notte della lettura e dell’attribuzione di significato, direi la notte della verità, la psicoanalisi resta l’ultima vicenda umana e intellettuale, a fornire all’uomo odierno un incontro con le domande più pervasive della sua storia. I trattamenti sorti dalla teoria psicoanalitica sono gli ultimi a vincolarsi a un qualsivoglia algoritmo (purché fatti di persona), non dipendono dai sondaggi, non hanno per mercato che un solo individuo per volta. 

Ecco che l’avventura “psi”, o meglio, la complessa raccolta di storie che avvengono intorno a quella scrivania, raccolta che soltanto ad un certo punto acquisirà statuto di romanzo, rimane, nella sua privata segretezza, l’ultima ad affrontare il senso dell’essere e del significato personale. E con buona pace della nostra immagine pubblica, quella così ben raccontata dai profili social, in cui siamo sempre vincenti, ultra performanti, e contornati da amici fantastici.  

One Mile Smile. Una storia d’amore e non solo.

Winslow, Arizona, 1886.

La polvere si sollevava lieve sotto i passi di Jack mentre usciva dalla drogheria, il sole battente faceva luccicare i binari della ferrovia poco più in là. Fu in quel momento che la vide.

Daniel era in piedi accanto al carretto del padre, una cesta di mele strette al petto. Il suo sguardo incrociò quello di Jack per un istante, e poi sorrise. Un sorriso lungo un miglio, uno di quelli che non si dimenticano. 

Da allora, ogni notte, Jack sognava quel sorriso. E ogni notte si svegliava col cuore in gola, in preda a un’angoscia che non riusciva a spiegare.

Sapeva bene che non avrebbe mai avuto il permesso di rivederla. “Lasciala stare, Jack,” gli aveva detto suo padre con quel tono che non lasciava spazio a repliche. Suo fratello maggiore lo aveva spinto contro la parete della stalla, ridendo amaro: “Dimenticala, prima che sia troppo tardi.”

Ma era già troppo tardi.

In un pomeriggio di fine estate, mentre le ombre si allungavano sulle colline, Jack salì alla vecchia miniera Duke. Portava con sé una bottiglia di liquore fatto in casa dal nonno, e perso nei suoi pensieri, beveva a piccoli sorsi. 

Si avvicinò al bordo del dirupo. Il vento soffiava dal canyon, portando con sé l’odore della terra secca e del ferro. Jack estrasse dalla tasca un pezzo di carta,  scrisse alcune parole, e lo posò a terra, accanto alla bottiglia vuota.

Quando i cercatori d’oro lo trovarono all’alba, il biglietto era ancora lì, appesantito da una pietra. C’era scritto solo questo:

Jack and Daniel Forever.

Potere. Una storia di uffici e di ricatti.

Emanuele entrò in sala riunioni con il tablet in mano e il nodo alla cravatta stretto un po’ troppo. Era il più giovane tra i presenti, e l’aria densa di discorsi sottintesi lo mise a disagio. Sabrina sedeva a capotavola, la schiena dritta, lo sguardo che sembrava misurare ogni cosa.

“Accomodati, ingegnere”. La sua voce era fredda, tagliente. Ma aveva un sorriso malizioso, di quelli che ti fanno chiedere se sei stato scelto o se sei solo stato preso di mira. Emanuele sedette alla sua destra, nel posto che la direttrice aveva tenuto libero per lui. Poi lei iniziò a parlare, snocciolando numeri e strategie. Aveva la sicurezza di chi sa che nessuno oserà metterla in discussione. Ogni tanto il suo sguardo tornava su di lui, indugiava, lo scrutava con un misto di sfida e compiacimento. E apriva nuovamente quel sorriso malizioso. 

Quando la riunione finì, tutti uscirono rapidamente. Lui fece per seguirli, ma la voce di Sabrina lo fermò:

“Emanuele, resta un attimo, per favore. Devo parlarti di una cosa”.

Il giovane ingegnere si girò, cercando di mantenere un’espressione neutra. Lei si alzò, chiuse la porta con calma, si avvicinò. 

“Ti trovi bene qui, Emanuele?”

Lui annuì. “Certo, direttrice”. 

“Bene.” La voce fredda divenne improvvisamente mielosa. Poi fece qualche altro passo in avanti. Ora il ragazzo poteva sentire il profumo costoso della donna. “Vedi Emanuele”, ancora quel sorriso malizioso, “Voglio essere sicura, come dire?” Con la mano sfiorò la sua cravatta. “Che tu sappia come funzionano le cose in questo ufficio.”

Emanuele si irrigidì. Aveva capito benissimo. Il tono, la vicinanza, il profumo: era tutto chiaro, chiarissimo. Avrebbe potuto dire qualcosa, o arretrare. Ma il potere era tutto in quel momento, in quell’ufficio chiuso. Quella di Sabrina non era una domanda, ma l’affermazione di dominio su un territorio.

“Certo, direttrice”. Le parole uscirono dalla sua bocca in maniera meccanica. 

Quella sera, mentre tornava a casa, Emanuele ripensò a quel momento. Al gelo che gli era corso lungo la schiena, al sorriso di Sabrina: uno di quei sorrisi che non si dimenticano.

Pensiero debole: prove di bilancio

Negli anni Ottanta, quando Gianni Vattimo propose il filtro del pensiero debole, il mondo sembrava avviato a una fase di declino delle grandi certezze. Il crollo di muri e ideologie, il tramonto delle narrazioni totalizzanti, la diffidenza nei confronti delle verità assolute: tutto questo si rifletteva in una filosofia che non pretendeva più di fondare sistemi rigidi, ma si apriva alla pluralità dei punti di vista, era “possibilista”.

Oggi, a distanza di decenni, viviamo in un’epoca che sembra muoversi in direzione opposta. Il populismo, nelle sue varie forme, predica verità indubitabili, semplificate, ridotte a slogan. Nel tumulto della geopolitica contemporanea, l’incertezza non è più vista come uno spazio di libertà e dialogo, ma come una minaccia da respingere con dogmi rassicuranti. Quale bilancio possiamo fare, allora, del pensiero debole? Cosa ne è rimasto, in questo ritorno delle garanzie autoritarie? 

Un pensiero che accoglie il diverso

Uno degli aspetti più interessanti del pensiero debole, e delle sue diverse declinazioni in psicologia e sociologia (Giorgio Girard, ad esempio), è stato il suo invito a guardare l’altro senza pregiudizi, con l’apertura mentale di chi non pretende di imporsi, ma accetta la propria versione come una delle possibili. Non che si trattasse di un relativismo nichilista, piuttosto di una forma di disincanto, una disposizione mentale, che nel riconoscere la complessità del mondo, faceva della Verità la meta di un viaggio, più che il prodotto di una pubblicità. 

In questo senso, il pensiero debole si è rivelato strumento prezioso per approcciare l’altro, il diverso da noi. Ci ha insegnato a guardarlo con dubbio, curiosità, piuttosto che paura. In un’epoca di globalizzazione turbolenta, ha aiutato a costruire ponti piuttosto che muri. 

La fragilità di fronte al ritorno dei dogmi

Tuttavia, il post modernismo ha avuto anche i suoi limiti, e con lui il pensiero debole. Ci siamo convinti che la storia fosse finita, che tutti volessero vivere all’occidentale, che la nostra scettica, ma serafica, apertura verso gli altri fosse la stessa che altri avevano verso di noi. L’11 settembre 2001 è stata la campanella che ha segnato la fine della lezione, ma l’illusione ci piaceva, e siamo andati avanti. Siamo così arrivati agli attentati di Parigi, per scoprire che no, gli altri non ridono della religione come facciamo noi. 

La rinuncia alle grandi narrazioni e la critica alle verità precostituite, hanno lasciato spazio, in breve, a nuove forme di dogmatismo. Oggi vediamo come i populismi sfruttino proprio la necessità dell’uomo di avere certezze, per potersi muoversi nel suo quotidiano. La cultura debolista degli anni Novanta bollava questo fenomeno come regressivo, ma aveva torto. In una lezione universitaria divenuta celebre, qualcuno domandò al Prof. Girard, collega e amico di Gianni Vattimo, per quale motivo la gente avesse bisogno di verità, se il pensiero debole affermava il contrario. Il docente rispose stizzito, nel brusio degli studenti, che quella era una domanda epidermica. Ecco, quella domanda epidermica oggi è diventata la nuova pelle della società, e il pensiero debole sembra sbiadire come un ricordo di gioventù.

Inoltre, la sfiducia nei confronti dei sistemi forti ha spesso portato a un indebolimento delle istituzioni democratiche. Se tutto è relativo, se ogni discorso è solo un punto di vista, allora diventa più difficile difendere principi fondamentali come i diritti umani, la libertà di espressione, la giustizia sociale,ecc… . In quegli anni andava di gran moda un’espressione, oggi sparita dalle locuzioni popolari: “Chi l’ha detto che si fa così? Dove sta scritto?” Paradossalmente, il pensiero debole ha aperto ad una maggiore tolleranza, ma ha anche lasciato spazio a narrazioni semplificate e autoritarie. Oggi, qualunque meme di Instagram afferma, qualsiasi influencer offre verità indubitabili, ogni politico sa come andrà a finire.  

Quale futuro per il pensiero debole?

Cosa può offrire, oggi, il pensiero debole? Io direi: la capacità di dubitare, senza paralizzarci, di accettare la complessità, senza cedere alla paura, di riconoscere il valore del dialogo, anche quando sarebbe più facile rifugiarsi nelle certezze assolute.

Amo ricordare la lezione di un illuminato uomo di Chiesa, che consigliò di fidarsi dei pensatori deboli, proprio perché portati, per natura, a non chiudersi a priori. Ecco, direi che questa sia la lezione migliore che si possa trarre dalla filosofia debolista. Cercare il confronto con chi la pensa diversamente da noi, piuttosto che restare nella cerchia ristretta delle nostre – rassicuranti – conoscenze.

Se il pensiero debole ci insegna a dubitare, possiamo cominciare anzitutto a dubitare delle nostre scelte strategiche. Chissà che non ci venga in mente qualche risposta davvero alternativa. 

Fine della modernità, caos globale, Intelligenza Artificiale

È più facile definire le epoche storiche a posteriori, durante il loro svolgimento, infatti, non riusciamo a coglierle nel loro insieme. Questo vale anche per le epoche individuali: arriva un giorno in cui possiamo dire con certezza che gli anni trascorsi dal tale evento della nostra vita, al talaltro, possono appartenere ad una certa fase, distinta da quella successiva. 

La fine della modernità 

Negli ultimi decenni, tuttavia, si sono susseguiti i tentativi di cogliere con definizioni il presente narrativo, con l’intento di definirne i contorni, e possibilmente di prevederne le evoluzioni. Tutte le espressioni usate, a partire dagli anni Sessanta, hanno avuto come suffisso protagonista la “modernità”. C’è stato il post moderno, all’incirca da quando Umberto Eco fondava il Gruppo 63, fino a quando Gianni Vattimo ci parla di pensiero debole. E poi c’è stato l’iper moderno, grosso modo da quando Zygmunt Bauman ha coniato la sua definizione di società liquida (idealmente possiamo pensare all’11 settembre 2001), fino alla pandemia da Covid-19. I riferimenti storici non ingannano, in quanto il possibilismo relativista del soggetto post moderno, debole, e orfano di storia, cominciò ad andare in crisi proprio in quel giorno di settembre, e non smise di farlo fino agli attentati del Bataclan, quando il populismo semplicista e generalizzante aveva ormai conquistato tutti i campi del pensare in pubblico. 

Modernità”, quindi scompariva man mano da tutti i discorsi sul nostro presente, e soprattutto da tutte le definizioni del soggetto contemporaneo. Se “moderno” era un’allusione al positivismo scientista, e l’uomo che lo abitava era certamente tecnocentrico, ma indubbiamente razionale e ottimista, il presente che stiamo cominciando a vivere è la negazione di ogni forma di modernità. E infatti non è più l’ordine, ma il caos, a imporsi in ogni campo, non è più la ragione, ma l’istinto di sopravvivenza, a dominare il dibattito pubblico, non è più la mente umana, ma la mente delle macchine (meraviglioso paradosso linguistico) a guidare la nostra azione. 

Il tempo del caos, della frammentazione, dell’identità sfocata, coincide con l’epoca dell’Intelligenza Artificiale

Finalmente la guerra: nostra vecchia passione

L’Intelligenza Artificiale (mai definizione fu più fuorviante, l’IA, o AI dall’acronimo inglese, non crea – per il momento – ma assembla), è la protagonista di questo stralcio di secolo, e definisce in maniera plastica la nostra resa nei confronti della storia. Se possiamo demandare alle macchine i ragionamenti, i calcoli, persino le diagnosi mediche, possiamo finalmente dedicarci a quanto di più umano esista al mondo: l’odio, la divisione, la guerra.  

La frammentazione psichica del soggetto occidentale, causata dall’involuzione economica, dalla crisi (per l’appunto) dei modelli culturali (arte, politica, religione), dalla perdita dell’egemonia sul resto del mondo, determina lo scivolamento verso condotte difensive arcaiche. Identificare l’identità individuale con il territorio, cosa fuorviante per definizione, regredire a forme di difesa/attacco primordiali, la paura di tutte quelle diversità che invece prima ci stimolavano e incuriosivano, definiscono l’atomizzazione della nostra psiche profonda. Ossia, ci traghettano dalla fase dell’identità liquida, in cui si poteva intuire una pur vaga parvenza di forma, ad una fase senza forma, e lo stato caotico della mente non può che essere quello psicotico

Nello stato psicotico la confusione tra interno ed esterno è totale, e di conseguenza lo è anche la confusione tra nemico interno e nemico esterno. Il paziente psicotico è quello che sente la voce del suo persecutore seguirlo ovunque, anche quando è a chilometri di distanza, è quello che vede un pericolo in tutte le persone che incontra, perché non ha imparato la differenza tra le paure che si porta dietro, e i veri pericoli del mondo, è quello che crede stiano parlando di lui, anche quando ognuno è intento a pensare alle proprie cose. 

Ancora tu: l’Umanesimo

Questa condizione esistenziale, come si vede, è quella che meglio predispone all’odio, al conflitto, alla divisione. Tutte cose in cui, noi umani, eccelliamo in massimo grado. Come uscirne? Ecco, allora, che si apre una risposta, che per ragioni di spazio qui non possiamo che accennare. L’uomo occidentale ha approfondito l’arte della guerra, e ne è maestro. Ma ha anche approfondito gli studi umanistici, e anche in questo è (stato) maestro. Questi studi umanistici, però, ad oggi, risultano un po’ datati, e sono inadatti, per dare risposte adeguate in questo caos. 

La rifondazione dell’Umanesimo è un’idea che Julia Kristeva, linguista e psicoanalista, propose a Joseph Ratzinger, nella giornata di dialogo interreligioso, appuntamento voluto da Giovanni Paolo II

Nelle due righe qui sopra c’è un progetto, vi invito a rileggerle. Umanesimo, Julia Kristeva, dialogo, Ratzinger, Giovanni Paolo II. 

La coppia, il lavoro, ma anche l’arte, la politica, e non solo, devono esser riviste, ridefinite, anzi rifondate. Questo è l’unico vero antidoto alla frammentazione del sé, alla psicosi collettiva, in definitiva, alla guerra totale. 

Ma non c’è molto tempo, il precipizio è già sotto di noi.  

I grandi della Nazionale di calcio. Roberto Baggio: Divin Codino.

Roberto Baggio è nato a Caldogno (VC) il 18 febbraio 1967. Relativamente alla sua carriera in Nazionale, oggetto di questo scritto, si potrebbe affermare che sia stato uno dei più grandi, anzi forse proprio il più grande, dei giocatori azzurri. Roberto Baggio merita questa valutazione sia a partire dalla qualità delle giocate espresse in azzurro, sia relativamente ai traguardi raggiunti. Un terzo posto a Italia 90 e un secondo posto a Usa 94, risultati che, a guardare bene, potevano essere ben altri, questione di centimetri. Infatti fu ai rigori che quelle squadre dovettero arrendersi, e quando si perde ai rigore si può ben dire che alla vittoria ci si sia andati davvero molto vicini. 

Temperamento in campo

Il Divin Codino, appellativo valsogli dall’abitudine di tenere i capelli lunghi legati con un elastico, è stato un giocatore più amato dai compagni che dagli allenatori, e, per la sua sportività, molto apprezzato anche dai tifosi avversari. In campo è stato anzitutto un leader nel compito, e ha espresso un temperamento a volte arrendevole di fronte all’aggressività altrui. La sua indole pacifica ne ha fatto un signore, come abbiamo detto, di sportività, ma anche di altruismo. Qualità, quest’ultima, ben riassunta dall’immagine di Italia 90, che lo vide lasciare a Salvatore Schillaci il rigore di Bari, rigore che permise all’attaccante siciliano di confermarsi capocannoniere del torneo. 

Roberto Baggio fece parlare molto di sé, ma soprattutto fece sognare gli appassionati italiani, e per questo ricevette una lunga serie di soprannomi e appellativi: senza dubbio frutto più dell’amore che l’ambiente riversava su di lui, che dell’invidia di pochi detrattori, di cui, si sa, il mondo del calcio è sempre stato pieno. Raffaello, Bagg10, Coniglio Bagnato, ma anche, più dispregiativamente, Filosofo, (infatti era, ed è tutt’ora, Buddista). Nessuno di questi, però, definisce meglio il suo temperamento in campo di Nove e Mezzo, affibbiatogli, con grade perfidia, da Michel Platini.

Nove e Mezzo richiamerebbe qualcosa di non compiuto totalmente, un ruolo a metà strada tra il centrocampista e il centravanti. Anche su questo, però, ci sarebbe da discutere, perché oggi, come in tutte le attività che facciamo, i classici ruoli del Novecento sono saltati, e non esistono più giocatori che si muovono soltanto in una zona del campo, o a cui sia richiesta soltanto una fase di gioco. E forse proprio per questo la storiografia calcistica dovrebbe recuperare la figura di Roberto Baggio, Nove e Mezzo, come un precursore dei tempi, più che come una via di mezzo tra il regista e l’attaccante.  

Nove e mezzo, in ogni caso, determinava oltre alla posizione, anche il suo rapporto con i compagni, con le dinamiche di gioco, e più in generale con quello che qui abbiamo chiamato il temperamento in campo. Perché questo stare un po’ qui e un po’ li, questo andare una volta con il dribbling verso il centro per cercare il tiro, e un’altra verso il fondo per fare il cross, non poteva che avere un impatto determinante, sulla squadra, sui compagni e ovviamente sugli avversari, che non avevano la benché minima idea di come fermarlo.  

Purtroppo ci pensò la fragilità del suo fisico, a fermarlo. In un’epoca in cui gli allenamenti non erano ancora pensati ad personam, e l’intera rosa faceva gli stessi esercizi, con lo stesso numero di ripetizioni. 

L’immagine presso il pubblico

Roberto Baggio è stato, come detto, amatissimo dal pubblico della Nazionale di calcio. Il gol preferito dai tifosi è stato probabilmente quello contro la Cecoslovacchia, a Italia 90, ma gli appassionati conservano del Codino un ricordo che va al di là dei gol e dei premi. 

La serenità con cui scendeva in campo, la correttezza, la dignità con cui ha attraversato i momenti bui della carriera, uniti alla determinazione e alla professionalità, hanno fatto di lui non solo una bandiera della Nazionale, ma anche un campione fuori dal campo. 

Baggio ha cambiato molte volte casacca, per questo non può essere identificato con nessuna delle grandi squadre del nostro campionato. Ma può essere identificato con la Nazionale, per la quale ha pianto e gioito. Se il pubblico ama sognare a occhi aperti, Baggio è l’uomo dei sogni del calcio italiano. 

Nella moderna, e sterile, diatriba tra tecnici, su chi sia (stato) più bravo tra Maradona e Messi, spesso si dimentica di segnalare che Maradona faceva sognare le masse. E non solo perché a quel tempo non c’erano i social media, su cui guardare e riguardare i video, ma proprio perché il suo calcio era allegria, follia geniale, gioia fanciullesca. Ecco, Roberto Baggio è stato, pur con tutt’altro carattere, il nostro Maradona: l’uomo che faceva sognare il pubblico. 

Si può aggiungere un’ultima considerazione. Umberto Eco ha sostenuto, e sono d’accordo con lui, che i romanzi, e i film, più amati sono quelli senza lieto fine. Il lieto fine è banale, scontato, non ha niente a che vedere con la vita reale. Quando l’eroe muore in battaglia, e il pubblico piange per lui, ecco che lì arriva l’effetto catartico dell’arte. Perché è lì che il pubblico sente di non essere solo. Quando l’eroe vive le sventure dell’uomo qualunque, l’uomo qualunque viene riscattato. Io penso che il rigore sbagliato a Pasadena sia l’evento che ha proiettato Baggio nella nostra memora collettiva. L’evento che ha detto agli italiani: se la vostra vita è pesante, c’è qualcuno che porta un peso ancora superiore, e questi è lui, il genio fragile del calcio. La sua sfortuna, da quel pomeriggio, ricalcando la nostra, ci consola un po’. E ci fa sentire meno soli.