A cosa serve, oggi, una biblioteca?

Ho recentemente presentato il mio libro Il Kintsugi dell’anima in una prestigiosa biblioteca di Torino. Tra le domande postemi dal pubblico durante la discussione, una è stata particolarmente interessante: quale utilità può avere oggi una biblioteca? I nostri dispositivi elettronici sono in grado di racchiudere in sé, (in memoria, o grazie alle reti) più libri di quanti ne possa esporre una biblioteca comunale. Pertanto non è così strano chiedersi a cosa possa servire, oggi, una struttura fisica adibita a tale scopo?

Guglielmo e Don Chisciotte 

Cercherò di rispondere, a questa suggestiva domanda, traendo spunto dalla storia della letteratura. La creatività umana, lo sappiamo bene, è alimentata da fantasie e angosce diffuse tra gli individui. Diverse tra queste riguardano le biblioteche. Ne Il nome della Rosa di Umberto Eco, si racconta di una biblioteca che nasconde un segreto terribile. Il protagonista vorrebbe entrare in questa biblioteca, cedere alla tentazione della conoscenza (già letto in un altro libro?), ma i saggi glielo impediscono. Le vicende si snodano attorno a questo edificio bizzarro e terribile, fino al drammatico epilogo che ne determina la distruzione in un rogo. 

In questo romanzo le fantasie e le angosce sono molteplici, si intrecciano e accavallano tra loro, ed è proprio la biblioteca a definirne contorni e confini. Anzitutto la conoscenza, di biblica memoria. Conoscere è pericoloso: per non ripetere l’errore di Adamo ed Eva, è bene creare una grande biblioteca, e richiudere lì dentro i segreti della conoscenza. Ma come per Adamo ed Eva, anche per il protagonista del romanzo è impossibile stare lontano: l’uomo è per natura portato a interrogarsi, indagare, cercare risposte. E questo anche a costo della sua stessa incolumità. La conoscenza cambia, per sempre. A volte uccide. E poi c’è il rogo. Nell’antichità un’importante biblioteca andò in fiamme, distruggendo chissà quali capolavori. E sappiamo bene che i regimi autoritari danno alle fiamme i libri. Cosa significa? Quale angoscia si nasconde dietro al rogo di una biblioteca? Come si vede il rapporto tra gli esseri umani e le biblioteche è un rapporto ancestrale, profondo, che chiama in causa le considerazioni più importanti che facciamo, e che vorremmo condividere con tutti, anche quelli che verranno dopo di noi. 

Nel suo Don Chisciotte della Mancia, Cervantes racconta di un nobiluomo che vive rinchiuso in una biblioteca. Il potere taumaturgico del libro compatta il sé di Don Chisciotte, lo aiuta a costruire un mondo fantastico in cui il bene è al sicuro, in buone mani, e il male non avrà il sopravvento. Don Chisciotte non può uscire dalla biblioteca, pena la sua sanità mentale. E infatti, in un’epoca antecedente ogni studio sulla psichiatria, Cervantes (che scrive dal carcere) mette alla berlina quest’uomo un po’ strano, ci fa sorridere bonariamente, ma oggi possiamo fare ben altre considerazioni. La follia, la paura, il vuoto esistenziale, il libro come antidoto alla morte del sé. Se l’arte esprime fantasie e angosce collettive, cosa significa che la biblioteca sia luogo di salvezza dalla morte psichica? Cosa vuole dirci Cervantes, e cosa sentiamo noi quando lo leggiamo? Perché se non chiudiamo il libro dopo la prima pagina significa che riesce a dirci qualcosa. 

John Keats

Torniamo alla domanda iniziale. A cosa serve oggi un edificio adibito a custodia, catalogo e prestito di libri, oggi che grazie all’informatica possiamo avere in tasca tutti i libri che vogliamo? Ebbene, la biblioteca, come ci insegna la letteratura, non è mai soltanto uno spazio fisico. È un luogo per incontrare menti, pensieri, emozioni, anche di persone che non ci sono più. È un luogo per cercare da soli qualche piccola verità, in un mondo che ci serve grandi verità ogni giorno, al punto che non sappiamo più di chi fidarci. Tornano alla mente le parole di John Keats: “Chiamate il mondo la valle del fare anima”. Ecco a cosa può servire oggi una biblioteca, a fare anima. Forse stiamo sconfinando nella psicologia, di nuovo mi sono fatto prendere la mano. Allora fermiamoci qui, di questo parleremo un’altra volta.  

Per una psicologia del post occidentale

Allo stato attuale di sviluppo della nostra società, dobbiamo ammettere due cose: la civiltà occidentale va verso il declino, e la cultura su cui l’abbiamo fondata non ci ha reso felici. Ripensare il nostro approccio alla vita, al mondo e agli altri, può essere un modo per non scomparire, e anzi, imparando dagli errori, adeguarci al mondo che cambia. Ma è anche un modo per costruire una psicologia rivolta a tutti gli essi umani, non soltanto quelli che vivono a occidente. 

Declino (infelice) 

La cultura cui apparteniamo ha perso il suo slancio vitale, non è più dominante nel mondo, ed è condivisa da una parte sempre più esigua di esseri umani. Rispetto agli anni dei grattaceli, delle metropolitane e degli aerei supersonici, in parole povere, il modo di vivere all’occidentale affascina sempre meno, anzitutto noi stessi. Inoltre dobbiamo ammettere che questo modo di vivere non ci ha dato felicità. Ad oggi il disagio mentale è totalmente fuori controllo, in una stagnazione economica endemica, e in cui la fiducia nel futuro continua a precipitare.

Per decenni i nostri intellettuali si sono scagliati contro la tecnica, che andava trasformando, a loro dire, i cittadini in automi. Invece la tecnica non ha trasformato tutti in automi, qualcuno ha anche saputo trarre giovamento da grandi innovazioni come l’aria condizionata, Internet, o la telefonia mobile. 

Sono invece i modelli culturali su cui ci siamo basati, ad aver perso la sfida del tempo. Sono come le colonne del tempio di Sansone, che si vanno sgretolando, e noi rischiamo di restarci sepolti. 

Un focus

“Ad un problema complesso corrisponde sempre una soluzione semplice, immediata, e di facile attuazione: quella sbagliata.” Questa battuta di un grande giornalista contemporaneo significa che una strategia multidimensionale non è definibile in poche parole. Se siamo a questo punto, se il modo di vivere all’occidentale fa acqua da tutte le parti, è difficile invertire la rotta, soprattutto in maniera spartana e semplicistica. 

Tuttavia è possibile individuare alcuni capisaldi culturali che possono essere rivisti se si vuole pensare ad una nuova psicologia, stavolta che non guardi più soltanto all’uomo occidentale, ma agli uomini (e alle donne) del medio oriente, dell’Africa sub sahariana, e così via…

La iper competizione: non ha creato benessere economico per tutti, ha fatto sentire esclusi molti, e anzi ha generato malessere tra chi è stato inadeguato. La competizione è diventata una ragione di vita, uno modus operandi, ed oggi assistiamo a competizioni persino dove non dovrebbero essercene. Doveva essere uno sprone economico, è diventato un progetto di vita individuale.

Il modello culturale patriarcato/femminismo. Questo modello, basato sul conflitto e non sulla cooperazione, ha condotto le campagne femministe a non proporre il superamento del patriarcato, ma il suo rovesciamento. In questo modo l’occidente si è incancrenito in fasi opposte di rivalse reciproche, fino a corrodere la fiducia, elemento indispensabile per il vivere collettivo.

Di conseguenza: individualismo. Ci sono state epoche in cui abbiamo saputo lavorare a progetti comuni, come ai tempi della nascita degli stati moderni, ma poi siamo diventati sempre più individualisti, e questo è stato rinforzato dai modelli economici, specie dopo la caduta del Muro. Il manager di un’azienda guadagna fino a mille volte più di un dipendente, così come il giocatore simbolo di una squadra di calcio. 

La morte del sacro. Una società senza religioni né religiosità, senza spiritualismi, né passioni idealistiche per la politica, o per l’arte, è una società senza speranza.  

Nell’immaginare il post occidentale, questi sono alcuni elementi del nostro vivere che dovremmo provare a rivedere, a ripensare. O quantomeno a registrare. Si tratta di pensare ad una nuova psicologia, considerare l’uomo in maniera diversa da come abbiamo fatto fino ad ora. E almeno per questo, non è mai troppo tardi. 

La droga come mezzo marinaio. Il bambino infelice all’inseguimento della persona amata.

La droga è sballo, socialità, prestazione. Ma la storia di alcuni ragazzi con Disturbo da Uso di Sostanze ci insegna che la droga è qualcosa di più. Può diventare un aiuto per raggiungere la persona amata, un modo per essere finalmente visti, accettati, apprezzati. In questi casi il rapporto con la droga si trasforma in progetto di vita: non esiste più un “io” senza lei, ma soltanto un “noi”. La narrazione personale diventa, infatti, “io e la sostanza”. 

Infanzia infelice

Il primo tassello della vita di questi pazienti è la disperata ricerca di un modo per essere “visti” da qualcuno. La necessità di captare l’affetto dell’adulto, può portare un bambino a sperimentare diverse alternative. Ad esempio diventare uno studente modello, oppure un piccolo saggio che fa da genitore ai suoi genitori, oppure ancora colpevolizzarsi, per assumere su di sé le responsabilità delle sventure familiari. 

Nei casi di cui stiamo trattando si è visto che alcuni bambini, una volta cresciuti, imparano a colmare la distanza tra loro e gli adulti con l’aiuto della droga. 

Raggiungere l’adulto da cui non si è stati raggiunti è operazione devastante dal punto di vista emotivo, che necessita di un supporto esterno. Vedere la luce di quello sguardo, sentire che finalmente l’Altro è contento, non ha prezzo, e se questo risultato viene ottenuto con l’aiuto di una droga, (o dell’alcol, o di psicofarmaci), le conseguenze sono straordinariamente distruttive. 

Il padre malato ha finalmente sorriso, ma ci sono riuscito grazie a quella sostanza che mi ha calmato l’angoscia. La madre depressa ha detto bravo, perché ho fatto tutto senza dimenticare niente, ma l’ho fatto grazie ad un bicchiere di alcol, perché altrimenti sarei andato su tutte le furie. Ecc… In queste situazioni, non sono più io a fare qualcosa, ma noi, io la mia fidata compagna/compagno. 

Cortocircuito: le maschere 

In questo modello, come si vede, c’è un cortocircuito. Fare qualcosa con l’aiuto di una droga non è privo di effetti collaterali. Se da un lato la droga aumenta certe prestazioni, alza le soglie della fatica, e per questo garantisce la visibilità tra i pari, dall’altro crea una dipendenza che può essere anche fisica. 

Inoltre, e soprattutto, quando la narrazione è “a due”, una parte difficile del trattamento è quella delle cosiddette maschere. Nel momento in cui un individuo raggiunge l’Altro con l’aiuto della droga, e impara a raggiungere tutti gli Altri significativi con l’aiuto di una droga, imparerà giocoforza a fare sempre di più tutto quanto in questo binomio. Fino a quando sarà legittimo chiedersi: quando parlo con te, con chi sto parlando? Con te, o con voi due? 

Ecco perché quando per un adulto che è stato un bambino infelice, conquistare la persona amata diventa un progetto disperato, da raggiungere a qualunque costo, la droga può rappresentare una risorsa, un alleato, un’amica. Ed è proprio in casi come questo che il Disturbo da Uso di Sostanze si incastra nell’identità profonda, nella personalità di un individuo. Con le conseguenze che si possono immaginare. 

La psicosi da algoritmo

Si deve a Fabio Mellano, psicologo clinico e neuropsicologo, l’introduzione del concetto di psicosi da algoritmo. Egli definisce in questo modo la condizione di quei pazienti con deliri di riferimento, che trovano nei social network delle conferme alle loro convinzioni patologiche. Il concetto psicosi da algoritmo, però, può essere esteso a gran parte della nostra attività social. 

Delirio di riferimento e algoritmo

Il delirio di riferimento è la condizione in cui una persona ritiene che un evento comune, il testo di una canzone, la pagina di un quotidiano ecc, contengano dei riferimenti diretti a lei. Il funzionamento dei social network, come vediamo tutti i giorni, si presta in maniera elettiva a questa distorsione percettiva, e ciò grazie al funzionamento dell’algoritmo

Un social network pubblica ogni giorno miliardi di post. L’algoritmo è quel meccanismo che ci consente, una volta entrati in bacheca, di visualizzare soltanto i post che ci interessano maggiormente. Va da sé che, chi soffre di un disturbo psicotico, è particolarmente esposto a fraintendere la logica di tale funzionamento. 

Nel caso rilevato dal dott. Mellano, un paziente con delirio di riferimento si era invaghito dell’attrice americana Jenna Ortega. L’ossessione per questa artista, aveva portato il ragazzo a visualizzarne in maniera compulsiva immagini e video sui social network. Il risultato era stato un delirio di riferimento, disturbo di cui, però, il giovane, non aveva mai sofferto in precedenza. L’algoritmo, infatti, aveva determinato un’esclusiva presenza dell’attrice tra i contenuti, fino al punto in cui il paziente aveva perso il contatto con la realtà. Nella fattispecie egli aveva cominciato a ritenere che, con la sua presenza, Jenna Ortega volesse comunicargli alcune cose, tra cui ad esempio il suo amore per lui, oppure dargli delle indicazioni pratiche per la sua vita quotidiana.

Fabio Mellano diede, per l’appunto, all’insorgenza di questo disturbo, il nome di psicosi da algoritmo

Il senso del luogo

Grazie all’algoritmo, dunque, lo spazio virtuale è un contesto cucito ad hoc su di noi. La principale conseguenza è che talvolta nel social network siamo più a nostro agio che nel mondo reale. 

Quando entriamo in rete, infatti, immediatamente veniamo riconosciuti, e in qualche modo il mondo si apre al nostro passaggio. Molte persone, di questi tempi, tendono a innervosirsi quando guidano nel traffico, o quando entrano in banca, o al supermercato, anche perché nessuno li riconosce, nessuno li lascia passare. Questo è certamente idiosincratico e in qualche modo spiazzante rispetto alla realtà quotidiana del web, che al contrario quando ci vede arrivare, ci abbraccia, ci capisce al volo.

Il narcisismo, se vogliamo, funziona proprio in questo modo: il narcisista non sa di essere adulato, ma si accorge quando non lo è. Così nel corso della nostra giornata passiamo più volte dal cyberspazio, fatto a nostra guisa grazie all’algoritmo, al mondo reale, in cui dobbiamo fare la coda, chiedere per favore, ecc… . Di conseguenza, non stupisce se da un lato la realtà quotidiana ci irrita, ci delude, ci deprime, mentre e dall’altro il narcisismo è condizione sempre più diffusa. 

In breve, credo si possa estendere il concetto di psicosi da algoritmo coniato da Mellano, per dire che gran parte della nostra attività sui social network, in quanto determinata (segretamente) da tale funzionamento, sia caratterizzata da una forma di dissociazione e di distacco (per quanto assai transitorio) dalla realtà. In qualche modo tutta la mole di pensieri, riflessioni, convinzioni, maturati, o suscitati, dal web, e in particolare dai social network, potrebbe andare sotto la definizione di “psicosi da algoritmo”. Cosa da tenere in gran conto, quando si utilizzano i social per farsi opinioni o prendere decisioni. 

Migranti interni: il dialetto come collante dell’unità familiare

L’argomento migrazioni interne è ormai stabilmente scomparso dal dibattito pubblico, come se non fosse più cosa di attualità. L’Italia è una patria, gli italiani sono a casa loro ovunque, quindi perché parlarne? Eppure non è sempre così, considerato l’alto livello di malessere che attraversa tutt’oggi chi deve spostarsi per necessità, che sia studio, lavoro, o altro. 

Tradizioni popolari, cibo, dialetto 

Aspetti fortemente indicativi del malessere di chi cambia residenza, sono dati dal rinnovato attaccamento alle tradizioni popolari della città d’origine, talvolta mai considerate in precedenza, e dall’idealizzazione della sua cultura gastronomica, con il contemporaneo rifiuto di quelli del luogo di arrivo. E poi, altro elemento oggi fortemente identitario, l’uso massivo del dialetto, o di espressioni gergali/dialettali, anche nel rapporto quotidiano con i nuovi conterranei. 

Lasciando per ora da parte l’attaccamento alle tradizioni locali e alla cultura gastronomica, vorrei soffermarmi un attimo sull’uso del dialetto. Nel corso del Novecento, gli spostamenti dalle campagne verso le città sono stati accompagnati da profondi vissuti di inferiorità. La produzione in fabbrica, la “città mostro” che tenta i giovani, il progresso, ecc…, sono stati vissuti con deferenza dai contadini, che si sentivano fuori posto anche a causa delle difficoltà comunicative. 

La gente di campagna si vergognava a parlare dialetto in città, sentiva di non essere come gli altri. La scuola dell’obbligo ha insegnato la lingua italiana, e questo ha consentito a persone provenienti dalla val Brembana di comunicare con chi era nato a Palermo, e così via. 

Oggi assistiamo al processo inverso, chi cambia città non prova a dimenticare il dialetto, ma anzi ne ricerca la forza espressiva, per colorare il suo discorso, e anche, inutile negarlo, per escludere chi non capisce.

Dialetto come legame familiare?

Si struttura un’idiosincrasia a doppia mandata. Da un lato il nuovo arrivato è spaesato, non conosce nessuno, deve ambientarsi. Dall’altro, però, alcune volte, fa di tutto per non integrarsi, per tenere gli altri a distanza. È così che nasce un sospetto. Quali vincoli profondi legano un persona che cambia vita alla sua città di origine? Prendiamo un torinese che sogni di imbarcarsi sulle navi: una volta partito per mare, che senso avrebbe tenersi strette tutte le sue tradizioni, dialetto compreso? 

Qui occorre ribadire la distinzione tra pubblico e privato. Nel pubblico, ad oggi, i dialetti sono praticamente scomparsi. Sono stato in vacanza a San Vito Lo Capo, in Sicilia, e a Ceriale, in Liguria. Ho potuto notare che in entrambe le realtà il prete dice messa in italiano (e non in dialetto), i menu dei ristoranti sono scritti in italiano, i pescatori al mercato del pesce usano l’italiano, per vendere le loro primizie. Così possiamo chiederci: se un abitante di San Vito Lo Capo o di Ceriale sente parlare il suo dialetto, a cosa pensa? Al suo parroco, alla sua amata pizzeria, al mercato del pesce al mattino? Io credo di no. Dico, invece, che a sentire il dialetto penserà, sostanzialmente, alla sua casa, alla sua famiglia, alla nonna che lo chiamava quando era bambino. 

Se nel Novecento il dialetto era segno di arretratezza culturale, oggi, che non abbiamo più aree arretrate, è segno di appartenenza. Escludere, o sorprendere, gli altri parlando in dialetto, non ha il senso di dichiarare il proprio analfabetismo, ma piuttosto il proprio attaccamento al contesto di partenza. 

O forse, più direttamente, alla famiglia d’origine. 

Alessandro Baricco, il nostro classico

È stato con un misto di commozione e gratitudine che ho accolto Abel, il nuovo libro di Alessandro Baricco. Con l’occasione vorrei definire, se non il peso specifico, almeno le coordinate della figura di Baricco nel nostro tempo. E arrivare, così, ad affermare, che se non possiamo ancora chiamarlo classico, poco ci manca. 

Il Max Biaggi della cultura italiana

Baricco è stato sovente definito il Max Biaggi della cultura italiana. La presenza di Umberto Eco, il gigante per eccellenza, sul suo stesso palcoscenico, ne ha inevitabilmente adombrato la fama, per molti anni. Così, è proprio oggi che Eco non c’è più, e la cultura italiana è costellata di acculturati faziosi e rancorosi, che riscopriamo il talento smisurato di Alessandro Baricco. 

Scrittore, drammaturgo, fondatore di una “scuola per narratori”, Baricco è forse il nostro ultimo vero intellettuale. L’uomo di intelletto non è colui che va in tv a dire come educare i figli, scrive libri in difesa di gente indifendibile, o si affaccia ai balconi ad annunciare la fine (o il tramonto) del nostro tempo. L’intellettuale fa cose. 

Toccare le coscienze è un fatto di talento, e proprio questo stupisce di Alessandro Baricco, il suo smisurato talento, specie se paragonato ai contemporanei. Pensiamo per un attimo a Herman Hesse, alla sospensione del tempo interiore nei suoi libri. Intere generazioni hanno amato Il lupo della steppa, Tempo di fieno, o lo sfortunato Peter Camenzind.  E li hanno amati perché da quei libri hanno ricevuto qualcosa. 

Scommetto che tutti noi ricordiamo almeno un’immagine di Siddharta, e ricordiamo anche l’epoca in cui lo abbiamo letto per la prima volta. Perché i classici sono sempre attuali, se non altro dentro di noi. 

Fuoriclasse, e fuori dalla classe

Alessandro Baricco è un fuoriclasse assoluto, come Hesse, Hemingway, o Michael Ende. La sua opera supera il tempo, ci emoziona, e soprattutto ci interroga. In questo differisce dai contemporanei, che non gettano domande, ma sparano risposte. Soltanto che quelle risposte, che loro sentono buone, non lo sono necessariamente per tutti noi. 

La grande opera artistica e intellettuale, e qui ci torna utile Umberto Eco, è più simile al Pendolo di Foucault, che apre, stimola, inquieta, che non al consiglio generico “Va dove ti porta il cuore”, che riempie di sicurezza, e lascia addormentare sereni. O se vogliamo, è più simile ad una seduta di psicoterapia, in cui le certezze vengono messe in dubbio, non fortificate. 

Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde.” Scelgo questo segmento, non me ne vogliano i fans, a emblema dell’intera opera di Alessandro Baricco. In questa scansione di Castelli di rabbia c’è più di una frase fatta: c’è un progetto di ricerca che è filosofica, spirituale, ma anche psicoanalitica. Perché i libri che fanno dormire sereni, sono più simili ai fumetti che ai grandi romanzi. E poi c’è una sensazione: che uscito dall’ombra di Umberto Eco, daremo finalmente a Baricco ciò che è di Baricco. Ovvero, che se non possiamo ancora chiamarlo classico, in fondo, poco ci manca. 

Come resistere al bello e dannato? Il fascino perverso del narcisista e le implicazioni distruttive per le sue vittime.

Il successo del narcisista si basa sul ritorno di immagine per chi se ne invaghisce. Sedurre un individuo pieno di sé, infatti, molto amato e ricercato, rinforza, inevitabilmente, l’autostima. Ed è proprio la bassa autostima, quindi, il punto debole su cui fa leva la sua irresistibile fascinazione. 


Bello e dannato


Gli individui “belli e dannati” vantano livelli di consenso spropositati e per lo più immeritati. Il segreto di questo successo sta proprio nello spazio che le vittime consentono loro all’interno delle relazioni, che siano affettive o amicali. 


A tutti può capitare, in una certa fase della vita, di sentirsi poco amabili, indegni di attenzioni, o addirittura un po’ da buttare via. È proprio allora che si è più vulnerabili al fascino dei narcisisti, ossia quegli individui incapaci di relazionarsi con gli altri, perché concentrati unicamente sui propri bisogni. 


In quella fase, incontrare un individuo che emana fascino può essere un grosso inconveniente. Da un lato, riuscire a sedurlo potrebbe dare una grande carica di autostima, ma dall’altro, proprio l’impossibilità di conquistarlo totalmente, una volta per tutte, potrebbe attivare un vortice distruttivo.  


Autostima 

Il narcisista, per definizione, non è mai pago dei rimandi degli altri. Per questo la “vittima” potrebbe entrare in un loop drammatico, uno scontro con l’immagine di sé più profonda. Perché se da un lato il bello e dannato offre riscatto e visibilità, dall’altro non può che confermare il deficit di autostima.


Cosa fare in questi casi? La “vittima” del narcisista deve anzitutto chiedersi: perché questo individuo esercita su di me un fascino così irresistibile? Qual è il ruolo della mia autostima, in tutto questo coinvolgimento? 


Le risposte a queste domande, come si vede, comportano già una presa di posizione, un progetto. Perché un rapporto interpersonale non si può fondare sulla disparità di potere, di influenza, di spazio. Di nessun tipo. 

Sesso virtuale: l’eredità spersonalizzante della pandemia

Il Corriere della sera ha pubblicato dati sconcertanti sulla vita sessuale dei ragazzi italiani. Uno su tre praticherebbe soltanto sesso virtuale, mentre più di un milione e mezzo di under 35 non avrebbe mai avuto incontri “in presenza”. C’è una considerazione importante da fare, in merito: il sesso virtuale accentua una forma di narcisismo molto pericolosa. 

Individualismo 

La nostra cultura è individualista. Vuoi perché l’iper competizione è per natura nemica della socialità, vuoi perché tutte le allusioni al collettivo, che sono state bocciate dalla storia, le abbiamo espulse – erroneamente – anche dalla nostra vita privata. Espressioni come “io valgo” hanno fatto la fortuna di spot pubblicitari, proprio poggiando sul quel narcisismo di fondo che coviamo dentro, e che non aspetta altro che un buon assist per saltare fuori. 


Proprio grazie all’assetto strutturalmente individualista della nostra cultura, la pandemia da Covid-19 ha lasciato alcune eredità, alcune delle quali tutt’altro che positive. Una, di cui ho già messo ampiamente in guardia nel mio libro, è lo smart working. Il lavoro ha una natura sociale, se non altro perché un gruppo è qualcosa di più della somma dei suoi componenti. Così il ricorso massiccio al lavoro agile può avere svantaggi in grado di controbilanciarne tutti i vantaggi.


Una è la didattica a distanza (DAD). Riguardo questa ho già sottolineato come per l’apprendimento sia necessario il confronto, tra allievi, come tra allievi e docenti, e il confronto avviene meglio in una classe fisica.  

Un’altra eredità, evidentemente, è il sesso virtuale

Narcisismo autistico

Ho già proposto altrove la differenza tra narcisismo maligno e narcisismo autistico. Mentre il narcisismo maligno può arrivare ad essere distruttivo, il narcisismo autistico si sottrae alla relazione, e si ritira in bolle esistenziali autonome e auto referenziali. Non raramente il narcisismo autistico sfocia nella psicosi


Il sesso virtuale nega la relazione, esalta il narcisismo individualista e autistico. Il ricorso esclusivo a metodologie comunicative a distanza, corrode la percezione dell’altro come valore aggiunto, lo identifica come mezzo. Così come per lo smart working e la DAD, abusare del sesso virtuale decontestualizza il comportamento, riducendolo ad un fatto tra sé e sé.  


Trasforma, in altri termini, lentamente, in narcisisti autistici, ossia in quegli individui che vedono gli altri soltanto come mezzi per raggiungere bisogni immediati e superficiali, ma a cui possono rinunciare nel momento stesso in cui trovano qualcuno più rapido ed efficace nel soddisfarli.  

Il perfezionista

Alcuni individui sono ossessionati dall’eccellenza. Questo atteggiamento, alla lunga, è controproducente, perché può fare emergere ansie e frustrazioni. Inoltre, richiedere agli altri di adeguarsi a standard molto alti, potrebbe incrinare la relazione che abbiamo con loro.  


Eccellenza vs sufficienza  


Gli estremismi, in genere, sono rischiosi. Sapersi accontentare è cosa saggia, ma, per esempio, puntare sempre solo alla sufficienza, può essere sintomo di paura. Il  risultato base garantisce di evitare il fallimento, ed equivale alla certezza di non essere inferiori a nessuno: insomma, è una forma di difesa. Inseguire la perfezione, di contro, può essere una gabbia. Alcune persone cercano l’eccellenza in tutto quello che fanno, e sentono un senso intimo di insoddisfazione se questa non viene raggiunta.   


In alcuni casi la ricerca spasmodica della perfezione ha un che di stucchevole e ridondante. A scuola, o all’università, una tesina deve essere ben curata e approfondita, deve avere le note, le citazioni e la bibliografia completa. Ma altri elementi come le grafiche mobili, i capolettera dorati o i ringraziamenti ai docenti, sarebbero un di più dissonante. Allo stesso modo le assemblee di condominio vengono convocate con una lettera, che ultimamente viene girata anche via mail. Ma se l’amministratore facesse un gruppo WhatsApp, e convocasse in diretta tutti gli assenti, la cosa sarebbe vissuta come un po’ intrusiva. 



Approvazione e Insicurezza  


Così alcune volte, dietro alla ricerca della perfezione, c’è il bisogno di approvazione. La cosa di per sé non è negativa, tutti abbiamo bisogno di consenso, o ogni tanto di sentire qualche “bravo”. La differenza la fa il disagio. Il perfezionista nutre un’ insoddisfazione profonda per il suo operato, se questo non possiede alcune caratteristiche. Inoltre è molto severo verso se stesso, al limite di non sapere riconoscere la bontà di quanto realizzato. Il perfezionista, in definitiva, potrebbe avere vari gradi di insicurezza di sé, o delle sue capacità, ed è per questo che il suo lavoro deve rasentare la perfezione. 

Se il perfezionista da un lato va incontro ad ansia, depressione, disturbi del sonno, ecc…, dall’altro rischia di rovinare rapporti interpersonali, proprio per la sua tendenza a pretendere dagli altri sempre e solo il massimo.

Il racconto che queste persone fanno di loro stesse, un racconto che probabilmente arriva dalla loro infanzia, ossia di poter sempre dare un po’ di più, e di non essere mai state brave quanto avrebbero potuto, è un racconto che tendono a rivolgere sugli altri, in termini di aspettative o pretese. 
Ed è così che il perfezionista crea prima dentro di sé, e poi al di fuori, tensioni e malumori. Perché fa vivere tutti, costantemente, sotto il giudizio tirannico della perfezione. 

Dove mettere gli amori del passato?

Gli “ex” rappresentano un pezzo di vita, che, per quanto passata, è pur sempre la  nostra. Nasce così il dilemma di cosa fare delle emozioni, dei ricordi, delle esperienze fatte nelle storie che li comprendono. Stracciarle, bruciarle, come il tempo che ci ha legati a loro, o salvarle, e così renderle parte della nostra identità?


Estremismi


Le reazioni di fronte alla fine di un amore tendono a polarizzarsi intorno a due estremi. C’è chi trattiene l’altro in un abbraccio mentale, rimodulando i ruoli, per garantirgli comunque un posto nella propria vita. “Siamo stati e saremo buoni amici”, “La inviterò senz’altro al mio matrimonio”, “Voglio che sia il padrino di mio figlio”. E poi c’è chi, con vari gradi di astio e rigetto reciproci, mira a svilire o cancellare dalla memoria ogni minuto passato insieme. “Odio Parigi, perché ci sono stata con…”, “Baricco? Non so chi sia, me lo leggeva …”, “Non vedo Fulvio da quando non sto più con…”. 


Vorrei dire che entrambi questi atteggiamenti sono irrispettosi: anzitutto della persona del nostro presente, e poi anche di noi stessi, della nostra specificità.  Garantire all’“ex” un ruolo di prestigio nel nostro presente equivale a dire al partner attuale: “Stai al tuo posto, non ti esaltare, lui/lei rimane comunque sul podio.”. Chi dice questa cosa probabilmente è un po’ insicuro del nuovo compagno, fatica a lasciarsi andare, a fidarsi, e vuole tenersi una porta aperta. Ma come si può fare un viaggio in auto, o in aereo, lasciando la porta aperta? Garantire all’ex un ruolo, è gravemente irrispettoso del nuovo partner, e infatti bisognerebbe chiedere a queste persone cosa penserebbero se la stessa scelta fosse fatta dall’altro? 


Inoltre devo dire che chi trattiene l’ex nel proprio presente è un po’ insicuro anche di sé stesso, della scelta fatta. Se un partner diventa “ex”, significa che qualcosa non ha funzionato. Forse è questo che si fatica ad accettare? Forse l’amore per l’altro è talmente radicato che si vuole negare la sua fine, anche a costo di trasformarlo, contro natura, in qualcosa che amore non è?


Veniamo all’altra polarità, quella distruttiva. Anche questa non è rispettosa, del nuovo partner come di sé stessi. Se in una relazione precedente ho letto Baricco, perché mi era stato consigliato, farei un grave torto, oggi, se non lo consigliassi a mia volta. Inoltre farei un grave torto anche a me stesso, se mi precludessi di frequentare tutti i posti e le persone a cui ero legato prima.


Il kintsugi dell’anima 


Come uscire da questo impasse? Come ho scritto nel mio libro, in questi casi bisognerebbe fare il “kintsugi dell’anima”. Il kintsugi è una la tecnica giapponese di riparazione della ceramica, in cui i frammenti vengono uniti con una colla intrisa di polvere d’oro. Il risultato è che un kintsugi vale più dello stesso vaso prima della rottura. 


Con l’espressione “il kintsugi dell’anima” mi riferisco alla possibilità di collegare, unire e saldare fra loro parti della nostra storia. Tutti abbiamo frammenti di passato che non si parlano, che sono situati in tempi, luoghi, situazioni diverse. Uno di questi casi è rappresentato, per l’appunto, dagli amori. 
A partire dall’adolescenza, si susseguono alcuni o diversi partner, che lasciano (o tolgono) qualcosa. Questi pezzi sono tessere di puzzle diversi, frammenti che non riusciamo a inserire nello stesso disegno, quello del nostro presente. Per mettere insieme questi pezzi, occorre un’operazione delicata e paziente di kintsugi, ossia incollare un frammento all’altro con mentale polvere d’oro.


Solo a quel punto il nostro passato ci apparirà come un disegno unitario, e non ci sarà più bisogno di garantire ruoli agli ex partner, né di buttare al rogo, insieme al loro ricordo, le cose fatte insieme.